Si
può affermare che le società umane diventano sempre più civili,
man mano che si diffondono i principi dell’empatia, cioè di
quell’approccio psicologico che ci spinge ad aiutare il prossimo
anche in assenza di un imperativo genetico.
Ma
di troppa empatia una società può anche morire, e ciò avviene
quando l’empatia si trasforma in ‘buonismo’, un meccanismo
mentale che – pur con le migliori intenzioni - impedisce una
visione complessiva dei problemi e rende quindi più difficile
elaborare soluzioni lungimiranti e realmente efficaci.
Agli
eccessi dell’empatia è dedicata questo lungo articolo di Michele
Silenzi (tratto da Il Foglio) che recensisce un libro di Paul Bloom.
LUMEN
(prima
parte)
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"Il più grande deficit che abbiamo nella società e nel mondo
in questo momento, è un deficit di empatia. Abbiamo un grande
bisogno di persone che siano in grado di stare nei panni di qualcun
altro e vedere il mondo attraverso i loro occhi”. Così parlò
Barack Obama.
Dovunque
ci si giri, qualsiasi cosa si legga sui giornali, nei libri o si
ascolti ai telegiornali, qualsiasi rapporto umano tra due o più
persone, in ogni cosa risuona questa parola: empatia. Sembra non
essercene mai a sufficienza. Come Cerbero, anche l’empatia ogni
volta che la si sfama, che la si soddisfa, sembra avere “più fame
che pria”. Viviamo nell’èra dell’empatia, di continuo ci viene
predicato di vedere il nostro volto in quello dell’altro, di
identificarci con tutto il mondo e con tutte le persone del mondo,
eppure non ne abbiamo mai abbastanza.
Un
celebre psicologo di Yale, Paul Bloom, in un libro uscito di recente
“Against Empathy: The case for rational compassion”, si è
imbarcato nell’impresa di dimostrare come l’empatia sia una
pessima guida morale e di come andrebbe arginata attraverso la
ragione. Più cervello, meno cuore. E anche il cuore ne beneficerà.
Bloom intende empatia nel suo concetto più ampio, ovvero la capacità
di mettersi nei panni dell’altro, di sentire quello che l’altro
sente. E il punto essenziale, che l’autore mette in chiaro sin da
subito, è che al massimo noi siamo in grado di riflettere i
sentimenti degli altri, ma non di sentirli come nostri, “il
soffrire empatico è diverso dal soffrire reale” generando
conseguenze che, tra questi due aspetti, non sono neppure
paragonabili.
Il
libro riconosce all’empatia un aspetto positivo nella fruizione
dell’arte e, talvolta, nei rapporti intimi. Il problema si pone,
invece, quando l’empatia viene usata per capire e prendere
decisioni attorno a casi più complessi, che sono poi i casi
politici, sociali, economici. Bloom paragona l’empatia alle bibite
gassate e dolciastre, allettanti e deliziose ma dannose. L’empatia
genera spesso piacere grazie al coinvolgimento che ci fa sentire con
gli altri, genera benessere perché ci fa sentire buoni e perché
stimola la nostra interiorità, ma è tutt’altro che una valida
guida morale. Ci porta spesso a emettere giudizi sciocchi e a fare
scelte politiche irrazionali e ingiuste.
Uno
degli argomenti solitamente più forti a sostegno dell’empatia è
che ci renderebbe più gentili con le persone con cui empatizziamo.
Bloom dice che a sostenere questa linea ci sono non solo l’esperienza
quotidiana e il buon senso ma anche molte ricerche. Quindi, continua
l’autore, “se il mondo fosse un posto semplice in cui gli unici
dilemmi con cui ciascuno deve avere a che fare coinvolgessero
soltanto una singola persona in immediata difficoltà, e nel caso in
cui aiutare quella persona avesse effetti positivi, allora
l’argomentazione in favore dell’empatia sarebbe solida. Ma il
mondo non è un posto semplice. Spesso, molto spesso, l’azione
motivata dall’empatia non è moralmente giusta”.
Bloom,
infatti, paragona l’empatia a un riflettore da palcoscenico che
riesce a illuminare con forza solo una piccola porzione della scena,
facendoci credere che ciò che vediamo sia tutto ciò che c’è e
lasciando il resto nell’ombra. Allo stesso modo l’empatia ci fa
concentrare su ciò che più ci colpisce emotivamente, accecandoci e
lasciandoci insensibili alle conseguenze di lungo termine delle
nostre azioni, per quanto possano essere ben intenzionate nel breve.
Per lo stesso motivo, l’empatia è partigiana, spingendoci nella
direzione del campanilismo. Non ha il senso delle proporzioni,
favorendo il caso specifico con cui appunto entriamo in empatia a
discapito dei molti, “è insensibile alle conseguenze che si
applicano statisticamente piuttosto che a quelle che riguardano
specifici individui".
Per
questi motivi, l’empatia risulta una guida morale e comportamentale
non solo inutile, ma addirittura dannosa quando si tratta di fare
scelte di ampio respiro che riguardino il mondo complesso in cui
viviamo, in cui le scelte hanno conseguenze non intenzionali sempre
più interrelate, ramificate e imprevedibili. La sfera della politica
sociale, internazionale ed economica non dovrebbe quindi in nessun
caso essere intaccata da questo tipo di sentimento.
Gli
esempi che Bloom riporta a sostegno della sua tesi sono essenziali e
difficili da mettere in discussione. Basta immaginare, facendo un
caso che sembra sempre attuale, che un vaccino difettoso abbia
causato a Rebecca Smith, una bambina di otto anni, di ammalarsi
gravemente. Guardandola soffrire, osservando il dolore dei genitori,
saremmo inondati di empatia e vorremo fare qualcosa per aiutarla. Ma
supponiamo che, fermando quel programma di vaccini a causa di uno
solo difettoso, una dozzina di bambini di cui non sappiamo e
probabilmente non sapremo mai nulla morissero. Qui la nostra empatia
resterebbe in silenzio, come potremmo empatizzare con un’astrazione
statistica? E’ come se gli altri bambini non fossero nulla e
Rebecca Smith il mondo intero, perché l’empatia detta legge.
Un
altro esempio fatto da Bloom è quello della città di Coventry
durante la Seconda guerra mondiale. Gli inglesi avevano scoperto come
decodificare il codice Enigma dei nazisti e avevano saputo del
devastante attacco che stavano per lanciare sulla città. Se si
fossero preparati per l’attacco, i tedeschi avrebbero capito che il
codice era stato decodificato. Così, il governo di Churchill prese
la durissima decisione di lasciare morire persone innocenti per
conservare un vantaggio militare che gli desse maggiori chance di
vincere la guerra e salvare un maggior numero di vite.
L’empatia
è un fattore determinante nel favorire il processo d’identificazione
con gli altri. Se ci fossimo identificati con la bambina del vaccino
difettoso o con un abitante di Coventry, non saremmo stati in grado
di prendere la giusta decisione, quella che nel lungo termine avrebbe
portato più cura, benessere, pace e salvezza al maggior numero e,
considerando questi quattro concetti come positivi, possiamo definire
questo tipo di approccio e visione come oggettivamente morale. Il
processo d’identificazione sembra essere diventato un fondamento
della nostra società ma in nessun modo esso costituisce un più
solido e oggettivo fondamento morale per le nostre azioni. Quello che
dovrebbe guidarci quando agiamo dovrebbe essere un empirismo
informato e non l’emotività empatica la cui giustificazione non è
spesso altra che la paradossalmente egoistica soddisfazione di un
bisogno personale.
Bloom,
a questo proposito, fa un altro esempio. Durante una trasmissione in
cui era ospite discuteva di una ricerca che aveva letto sugli effetti
negativi dell’elemosina ai mendicanti nel favorire il generale
miglioramento della condizione socioeconomica dei più poveri. La
pastora protestante che era ospite insieme a lui disse che a lei non
interessava contrastarlo sui fatti ma soltanto constatare che a lei
piaceva fare l’elemosina, la faceva sentire bene dare direttamente
cibo o soldi a un bambino e vedere la sua soddisfazione, molto più
che mandare soldi a un’organizzazione attraverso una carta di
credito. Ripensando alle parole della pastora, Bloom scrive: “Se
vuoi il piacere del contatto umano, fai pure e dai qualcosa al
bambino, forse sentendo una vibrazione quando le vostre mani si
toccano, un calore che rimane con te mentre te ne ritorni in hotel.
Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle
persone, fai qualcosa di diverso”. >>
MICHELE
SILENZI
(continua)
Completamente d'accordo, direi che quello di Silenzi è semplice buon senso.
RispondiEliminaIl prof. Melis distingue sempre tra morale e diritto. Il codice non ti impone di fare il bene, ma devi rispettare le regole dell'umana convivenza che ci siamo date. Il principio fondamentale è neminem laedere. Credo che tutti siano capaci di mettersi nei panni di un'altra persona in sua presenza. Oggi decine di migliaia di persone, che dico - milioni non avranno da mangiare a sufficienza. È quello che ci dicono le agenzie, le associazioni, i religiosi. Ma è un'astrazione, queste persone non le vediamo - e direi per fortuna. Anche se oggi grazie alle comunicazioni siamo al corrente di quanto dolore ci sia ancora al mondo tuttavia ci mettiamo a tavola e apprezziamo le vivande (a meno di farsi venire un'ulcera). Dice bene Silenzi: “il soffrire empatico è diverso dal soffrire reale”. Basti pensare a un vero mal di denti o a un callo dolorosissimo. Puoi provare compassione per chi ne soffre, ma soffrirne in prima persona è ben altra cosa. Penso che quasi tutti provino sentimenti e quindi anche compassione per certuni. Ma adesso questo discorso sull'empatia ha qualcosa di dolciastro e irritante. A forza di empatia non potremmo più essere noi stessi, dovremmo sempre immedimarci con chi soffre o è meno fortunato. Il cristianesimo, ma anche l'educazione ci hanno
resi più civili, tolleranti, compassionevoli, persino buoni (d'accordo, non sempre, ogni tanto la nostra natura egoistica si manifesta e in modi brutali).
Caro Sergio, è probabile che anche nel caso dell'empatia la tendenza umana a perdersi nei grandi numeri sia quella che rovina tutto.
EliminaPerchè se io vivo in un ambito ristretto, come nei gruppi ancestrali degli ominidi, limitati al centinaio di persone (il classico numero di Dunbar), ecco che l'empatia funziona alla grande ed il condividere le sofferenze del mio compagno risulta da un lato utile e dall'altro sostenibile.
Ma con i numeri attuali della popolazione umana, come potrò mai essere empatico in modo utile e sostenibile ?
Dovrei fare necessariamente nelle scelte, aiutando (casualmente) Tizio anzichè Caio, e con ciò finirei per cadere, senza volerlo, nella più antipatica delle discriminazioni.
Uno dei principali esempi di (cattiva) empatia mi sembra quella che riguarda ciò che Agobit in un recente post ha chiamato 'L'ideologia natalista' e che "affascia" numerosi cattolici e islamici, nazional-sovranisti di destra e terzo-mondialisti di sinistra, turbo-capitalisti e femministe misandriche: come se una culla piena sia IN QUANTO TALE sempre & comunque preferibile a una vuota del tutto indipendentemente da ogni ragionevole possibilità di garantire un'esistenza dignitosa al neonato in questione (per tacere del degrado ambientale e climatico)... Saluti
RispondiEliminaSì, direi che quello che hai fatto tu è proprio un ottimo esempio (e le conseguenze si vedono).
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