Le considerazioni del giornalista Rodolfo Casadei sulla storica rivoluzione cinese di Mao Zedong (o Mao Tse-Tung che dir di voglia), le immani tragedie che l'hanno accompagnata e l’imbarazzante cecità della sinistra occidentale (testo tratto dal sito Tempi.it).
LUMEN
<< Ci si può dimenticare di commemorare lo sterminio di 30-40 milioni di persone, prodotto della stupidità fanatica e dell’ideologia criminale di un regime? Sì, si può. È caduto quest’anno [2012 - NdL] il cinquantesimo anniversario del più grande disastro economico e della più grande perdita di vite umane mai causata da un governo ai suoi stessi cittadini, ma la grande stampa italiana non se ne è accorta.
Cinquant’anni fa veniva messa fine al “Grande balzo in avanti”, la campagna di modernizzazione comunista dell’economia della Cina imposta da Mao Zedong e attuata in un misto di entusiasmo e di paura da centinaia di milioni di cinesi. Per trent’anni il bilancio di morte di quell’esperienza è rimasto gelosamente custodito negli archivi del Partito comunista. [Solo] nel 1991, nelle pagine di Cigni selvatici, il capolavoro autobiografico di Jung Chang, scrittrice cinese emigrata in Europa, si poteva finalmente leggere [qualcosa]. (…)
Nel 2010 è stato pubblicato il più autorevole e documentato studio scientifico sulla vicenda, opera dello storico olandese Frank Dikötter, “Mao’s Great Famine”, che attribuisce al presidente Mao la responsabilità per la morte di ben 45 milioni di persone, per lo più falcidiate dalla fame e dalla malattia, ma non solo: dai due ai tre milioni di cinesi sarebbero stati picchiati o torturati a morte, o sommariamente sottoposti alla pena capitale, per non aver raggiunto gli obiettivi di produzione fissati, per aver dichiarato pubblicamente che erano irraggiungibili, o per aver osato criticare la politica del governo. (…)
Come è potuta accadere una cosa del genere e rimanere segreta per tanto tempo? Come ha potuto il mito del maoismo restare di moda in Europa per altri vent’anni dopo quella catastrofe? Mao era un genio del male. La sua conoscenza delle debolezze dell’animo umano (lo spirito gregario, la propensione a sottomettersi a un capo, la cedevolezza ai ricatti, il bisogno di approvazione) gli hanno permesso di realizzare il capolavoro del totalitarismo. (…)
Tutto comincia alla fine del 1957, quando Mao torna dal vertice mondiale dei partiti comunisti a Mosca (il primo dopo la denuncia dello stalinismo) e lancia la sua sfida all’Unione Sovietica di Kruscev per la leadership del comunismo nel mondo. Il leader russo aveva affermato che nel giro di quindici anni l’Urss avrebbe superato gli Stati Uniti sia nella produzione industriale che in quella agricola, Mao proclama che l’industria pesante e l’agricoltura della Cina avrebbero superato quelle della Gran Bretagna nello stesso arco di tempo.
A questo scopo ordina di raddoppiare in un anno la produzione cinese di acciaio, di rivoluzionare le tecniche delle colture e dell’allevamento (sulla base delle teorie dello pseudo-scienziato sovietico Trofim Lysenko) e di riorganizzare il mondo rurale in comuni popolari dove la proprietà privata sarebbe stata integralmente abolita: tutta la produzione andava consegnata a un’autorità centrale e persino le cucine familiari andavano smantellate e sostituite con mense popolari che avrebbero provveduto ai pasti dei contadini.
In ogni cortile vengono costruite fornaci, alimentate da ogni tipo di legname, comprese porte e finestre delle case, e da ogni tipo di metallo destinato alla produzione di acciaio, comprese padelle e utensili da cucina in ferro e in ghisa. Cento milioni di contadini sono obbligati a dedicarsi alla costruzione e all’alimentazione delle fornaci, trascurando il lavoro dei campi.
Le piante vengono coltivate così densamente da soffocarsi l’una con l’altra e i semi interrati all’assurda profondità di due metri; villaggi sono abbattuti per fare posto a immense porcilaie che non entrano nemmeno in funzione. In mancanza di personale specializzato dalle fornaci esce un materiale inutilizzabile, mentre la produzione agricola crolla e milioni di persone si ritrovano senza un tetto.
Per paura di rappresaglie, i responsabili delle comuni dichiarano alle autorità di avere centrato e superato gli obiettivi di produzione (…). In breve la fantasia prende il posto della realtà, e i pochissimi che obiettano vengono eliminati. (…). L’intera nazione finisce per parlare in un modo e comportarsi in un altro: le parole divorziarono dalla realtà, dalla responsabilità e dai reali pensieri della gente. Il grande successo totalitario del maoismo sta nell’aver convinto un popolo intero a dubitare dell’evidenza. (…)
Le mense collettive consumano le riserve fino a quando non rimane più nulla, il governo continua ad esportare all’estero i presunti surplus, e la carestia s’installa. All’ottavo ‘plenum’ del Comitato centrale del partito comunista, nel giugno 1959, il ministro della Difesa Peng Duhai critica i risultati negativi del Grande balzo in avanti e chiede un approccio più pragmatico all’economia.
Mao accusa lui e i suoi sostenitori di essere «opportunisti di destra», lo esonera dal suo incarico e lo pone agli arresti domiciliari, scatena in tutto il paese la campagna contro gli «opportunisti di destra»: a ogni provincia vengono assegnate «quote di arresti» da compiere come se si trattasse di quote di produzione.
Seguono tre anni di fame e mortalità crescente in tutto il paese, ma Mao non si commuove: «Quando non c’è abbastanza da mangiare, la gente muore di fame. Allora è meglio lasciar morire metà della gente così che l’altra metà possa nutrirsi a sufficienza», dichiara senza vergogna.
Nel 1962 finalmente viene messo in minoranza: alla Conferenza dei settemila quadri afferma che la carestia ha cause naturali per il 70 per cento e umane per il 30 per cento, ma il presidente Liu Shaoqi ribatte che è il contrario, cioè che le cause sono umane al 70 per cento.
Lui e Deng Xiaoping (allora segretario generale del partito) riescono a imporre una svolta pragmatica che, con l’abolizione delle comuni e delle mense collettive e il ripristino dei piccoli lotti privati, permette di tornare ad accrescere la produzione alimentare. Mao si vendicherà quattro anni dopo, scatenando la Rivoluzione culturale che emarginerà Deng e causerà la morte di Liu.
Fra i successi storici della propaganda maoista c’è quello di non aver permesso per lungo tempo che filtrassero in Occidente gli orrori prima del Grande balzo in avanti (1958-62) e poi della Rivoluzione culturale (1966-76). La chiave del successo, in entrambi i casi, consistette nell’invitare in Cina per visite sotto stretto controllo grandi personalità scientifiche e politiche della sinistra occidentale che, con rare eccezioni, tornarono tutte a casa entusiaste di quello che avevano visto.
Dichiararono che non c’era alcuna carestia in Cina dopo missioni sul posto il famoso sinologo britannico Joseph Needham, il giornalista americano Felix Greene, il futuro presidente francese François Mitterrand e il generale Montgomery. In Italia espressero giudizi positivi sulla Rivoluzione culturale dopo aver visitato la Cina personaggi come Alberto Moravia, Dacia Maraini, Dario Fo, Mario Capanna, eccetera.
Moravia scrisse che la Rivoluzione culturale gli infondeva «sollievo» perché rappresentava un’«utopia realizzata»; Dario Fo scrisse: «Qui da noi l’uomo è una cosa, una merce (…). Da noi c’è una divisione netta fra concetti come bene, moralità e rapporti di produzione. In Cina invece il mangiare, il bere, il vestirsi, i princìpi morali sono un tutt’uno. C’è una concezione profonda della vita che determina tutto quanto. C’è l’uomo nuovo perché c’è una filosofia nuova». >>
RODOLFO CASADEI