Si parla molto, in questo periodo, di “debito pubblico” e del suo ammontare.
Certamente, avere un debito pubblico molto elevato (come accade attualmente in Italia) è una cosa che non piace a nessuno.
Ma non bisogna neppure dimenticare che si tratta di una componente dell’economia pubblica che ha una sua logica e, soprattutto, che molti dei luoghi comuni estremamente negativi di cui viene caricato, sono fortemente travisati.
Come ci spiega il prof. Roberto Ciccone, docente di economia presso l’Università Roma Tre, in un interessantissimo articolo sull’argomento, di cui riporto un ampio stralcio.
LUMEN
<< Il debito pubblico è il debito che il settore pubblico di un paese contrae nei confronti di soggetti ad esso esterni (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie). Lo stock di debito al quale si fa generalmente riferimento consiste di titoli a breve, medio e lungo termine, e non include invece altre forme di debito (ad es. i debiti verso fornitori).
L’emissione di debito pubblico ha lo scopo di procurare al settore pubblico mezzi di pagamento necessari a finanziare il deficit pubblico, e cioè l’eccesso di spesa pubblica (inclusi gli interessi sul debito) rispetto alle entrate dello stesso settore pubblico.
Circa il debito pubblico sono frequenti dei fraintendimenti relativi alla sua natura. Uno tra i più diffusi è quello per cui il debito pubblico costituirebbe un debito della nazione.
E invece il debito pubblico è un debito di una parte della collettività verso la restante parte della stessa collettività, per cui la nazione non è né più né meno indebitata per effetto dell’emissione di debito pubblico (il caso di debito pubblico detenuto da soggetti esteri, è un po’ più complicato ma non introduce differenze sostanziali).
Perciò l’analogia, talvolta evocata, tra il debito pubblico e il debito di una famiglia non è corretta: se l’analogia ammissibile sarebbe quella con il debito di un componente della famiglia verso un altro componente, ad es. del figlio verso il padre: è evidente che non avrebbe senso dire che la famiglia in quanto tale sarebbe indebitata.
Da ciò segue che per il settore privato i titoli del debito pubblico da esso posseduti formano parte della sua ricchezza.
La ricchezza del settore privato aggregato (incluse le istituzioni finanziarie) è infatti così composta (lasciando da parte i rapporti con l’estero): Capitale reale (immobili, attrezzature produttive) + Titoli del debito pubblico + Moneta.
Un più elevato stock di debito pubblico implica pertanto una maggiore dimensione della ricchezza privata costituita da titoli pubblici.
A parità di ogni altra condizione, pertanto, un maggiore ammontare di debito pubblico comporterebbe un maggiore ammontare di ricchezza complessiva per il settore privato. (…)
Un altro argomento spesso avanzato, e connesso a quello ora considerato, circa la natura del debito pubblico è che quest’ultimo costituirebbe un onere a carico delle future generazioni.
Sulla base del presupposto che il debito pubblico esistente debba prima o poi essere estinto, o quanto meno ridotto, si sostiene che le generazioni che verranno saranno tenute a pagare maggiori imposte (o usufruire di minori servizi pubblici), onde consentire allo Stato di accumulare gli avanzi di bilancio necessari appunto a rimborsare il suo debito.
Le imposte che ai ‘padri’ è stato consentito di non pagare, lasciando che si formasse debito pubblico, ricadrebbero quindi sulle spalle dei ‘figli’, costretti a sopportare un più elevato rapporto tra imposte e prestazioni pubbliche per saldare quanto i loro genitori hanno lasciato insoluto.
Questa tesi - una variante della quale è che grazie all’accumulo di debito pubblico le generazioni passate avrebbero vissuto ‘al di sopra dei propri mezzi’, compromettendo così il tenore di vita dei loro discendenti - attribuisce perciò alle misure fiscali volte alla riduzione del debito pubblico un carattere di equità intergenerazionale che dovrebbe renderle non resistibili agli occhi del pater familias.
L’analisi economica non ha individuato un limite alla dimensione del debito pubblico, oltre la quale la sua riduzione debba considerarsi necessaria.
Ma anche ammettendo che in futuro tale esigenza si ponga, e che a questo scopo le generazioni che verranno saranno chiamate a sostenere un più elevato rapporto tra imposte e servizi pubblici ricevuti, non è difficile vedere che nessun onere aggiuntivo graverebbe per questo su di esse.
La ragione di ciò sta, ancora, nella natura del debito pubblico quale componente della ricchezza del settore privato, e pertanto quale attività che le future generazioni riceveranno in eredità dalle generazioni precedenti.
Al maggior carico fiscale che graverà su di esse (posto che il debito pubblico debba essere ridotto) si accompagna infatti il lascito dei titoli rappresentativi del debito pubblico che verranno loro trasmessi: la situazione patrimoniale delle generazioni successive non sarà perciò né peggiorata, né migliorata, da un futuro rientro dal debito pubblico. (…)
Tra generazioni in quanto tali, dunque, nessuna redistribuzione di oneri ha luogo, in generale, per effetto della esistenza ed eventuale estinzione del debito pubblico.
Per configurare un gravame a carico delle generazioni successive è necessario adottare l’ipotesi particolare che i titoli del debito pubblico, anziché essere trasmessi per via ereditaria, siano venduti dalla generazione precedente a quella successiva, per la quale l’aumento del carico fiscale non sarebbe in tal caso compensato dalla gratuità della acquisizione dei titoli. (…)
In generale, però, nelle nostre società il trasferimento intergenerazionale della ricchezza ha luogo mediante il lascito ereditario; e, a ben riflettere, ciò non è un caso, perché l’istituto della successione ereditaria ha la precipua finalità della conservazione della distribuzione esistente della ricchezza tra famiglie e quindi, in ultima analisi, tra gruppi sociali.
Soltanto negando questa fondamentale circostanza istituzionale si potrebbe perciò supporre che la ricchezza del settore privato, e quindi la quota di essa costituita da titoli pubblici, si trasferisca da una generazione all’altra. (…)
A riprova, basti considerare che se, a partire da una elevata concentrazione della ricchezza, si immaginasse che i ‘giovani’ acquistino gli asset detenuti dagli ‘anziani’ potendo utilizzare esclusivamente redditi da lavoro, la vendita delle attività esistenti non potrebbe che essere frazionata tra un elevato numero di ‘giovani’.
La distribuzione della ricchezza si modificherebbe rapidamente in senso egualitario, e non sarebbe osservabile l’estrema (e crescente) disuguaglianza che invece contraddistingue le società reali.
Naturalmente quanto fin qui detto non significa negare gli effetti redistributivi di un aumento del carico fiscale diretto a ridurre il debito pubblico, poiché è evidente che i soggetti colpiti dal maggior prelievo non coincideranno con i soggetti che ereditano i titoli del debito pubblico.
Ma tale questione distributiva è tutta interna alla generazione in essere all’epoca in cui la manovra di rientro viene effettuata: le parti coinvolte sono da un lato i gruppi sociali chiamati a pagare maggiori imposte (o ricevere minori prestazioni pubbliche), e dall’altro i gruppi sociali la cui ricchezza comprende i titoli del debito.
Il problema si riduce perciò alla scelta di come ripartire il maggior carico fiscale sulla collettività: un problema intra-generazionale che è eminentemente politico e che si pone ogniqualvolta lo Stato si trovi a determinare la copertura della sua spesa.
E in quanto si tratta di un problema politico, esso è aperto a soluzioni diverse, a seconda delle quali diversi sono gli interessi che vengono privilegiati o, invece, sacrificati.
Ammantare il rientro dal debito della (falsa) veste della equità intergenerazionale è un modo (…) di nascondere il conflitto di interessi che l’operazione genera: l’appello alla innata cura per il benessere dei propri figli (…) cattura un generalizzato consenso che rende di fatto superfluo il dibattito politico circa le scelte da compiere.
Deve notarsi che, entro la questione distributiva posta dalla riduzione del debito pubblico, l’aspetto forse più acuto è costituito dal finanziamento degli interessi che lo Stato paga sul debito stesso.
E, a ben vedere, un trasferimento di reddito dai gruppi sociali tassati a quelli che percepiscono gli interessi si verifica anche per interventi che non mirino a ridurre il debito ma si limitino a costituire, nel bilancio dello Stato, un ‘avanzo primario’ (primario = al netto degli interessi), vale a dire ridurre il deficit ad un ammontare inferiore alla spesa per interessi, finanziando quindi con imposte una quota degli interessi stessi.
La specificità del problema distributivo che tale trasferimento alimenta è connesso alla natura degli interessi quale puro reddito dei percettori, che non risponde ad alcuna deliberata programmazione di utilità sociale come invece è, in linea di principio, per le altre categorie della spesa pubblica, e al fatto che quel reddito affluisce in proporzione maggiore alle categorie nelle quali si concentrano quote relativamente alte della ricchezza privata complessiva, e quindi anche di titoli pubblici.
In presenza di elevati livelli di debito pubblico, e perciò di flussi consistenti di interessi, la copertura con imposte di quote rilevanti di essi può allora produrre significativi effetti regressivi nella distribuzione dei redditi, con conseguenze negative sia sul piano economico che sul piano sociale.
Questo fenomeno, alla dimensione del quale concorrerebbe evidentemente l’altezza dei tassi d’interesse sul debito, e quindi il regime di politica monetaria operante, rappresenta il problema forse più serio che l’accumulazione di debito pubblico può generare, ove si proceda ad una eventuale riduzione o stabilizzazione del suo ammontare. >>
ROBERTO CICCONE
Mi dispiace, ma non ci capisco un cazzo! La prima volta ho smesso la lettura dopo circa un terzo del testo. La seconda mi son detto: voglio arrivare fino in fondo, ma non ce l'ho fatta. Qualcosa ho capito (forse), ma a un certo punto le idee mi si confondono. È tutto troppo complicato. Mi sembra teologia (che solo i teologi comprendono). Tutti questi economisti (compreso Bagnai) si chiedono mai se l'uomo della strada riesce a seguire i loro discorsi? Non credo. Parlano e straparlano e chi non li capisce peggio per lui, è un fesso.
RispondiEliminaIo non posso che partire da me stesso: non spendo di più di quel che incasso. E se a volte "mi lancio" (per necessità o divertimento) indebitandomi lo faccio sempre se ho effettivamente la capacità di rimborsare il prestito. Se no non mi lancio, non m'indebito. Si dice: non si può paragonare l'economia privata o familiare con quella dello Stato che ha assoluta necessità d'investire, cioè d'indebitarsi, costi quel che costi, anche a a costo di fallire (vedi Grecia e altri). Sarà. Si parla per esempio di "nuova politica industriale" dell'Italia per creare posti di lavoro, per non bruciare un'intera generazione. Sarà. Chissà che cazzo vorranno produrre per tenere occupata la gente, se no spaccano tutto.
Anche la storia del debito che è ricchezza, boh! O che è una balla che le generazioni future pagheranno (più tasse, meno servizi) per i bagordi dei padri! Finora avevo sentito sempre che è vero, adesso invece dicono che non è vero. Mah, mettetevi d'accordo.
La gente comune, che dovrebbe costituire il 99,999% dell'umanità, non capisce questi discorsi spaccacapello! Come i cristiani non capiscono i teologi, gli basta non rubare e non dire il falso e non ammazzare ( il cristiano pratica poi questi comandamenti prima ancora di sapere che esistono dei comandamenti, per pura imitazione).
Una cosa però la so: i beni della Terra sono limitati. Se fossero sovrabbondanti non staremmo qui a discutere: ognuno si servirebbe, "e ne resterebbero ancora dodici ceste". Invece sono scarsi, mannaggia, e lo saranno sempre (o almeno per la nostra e la prossima generazione, per es. petrolio e acqua, e anche fosfati e altre cosette tanto preziose). E come li distribuiamo questi beni tanto ambiti e rari? Chi ha diritto a quanto e in nome di che cosa? Un principio accettabile sarebbe che chi lavora di più ha diritto a qualcosa di più di uno scansafatiche. Però anche lo scansafatiche ha diritto a ...
A che cosa? Mah, dicono che anche lui ha diritto a mangiare, bere, vestirsi, un'abitazione decente, un reddito pure decente per non sentirsi escluso e andare in crisi (che poi ci costa pure per le spese mediche ecc.). Eppure san Paolo diceva che chi non lavora non mangia!
Che confusione! Eppure ci sono i papponi che stanno bene senza alcun merito (per es. tutti i capipopolo comunisti e socialisti, passati e presenti, compreso Vendola), e gente che lavora e non ce la fa.
Già, come si distribuisce la ricchezza prodotta? Quali sono i criteri?
Caro Sergio, viva la sincerità !
RispondiEliminaAmmetto che l'argomento è un po' difficile e che lo stile di scrittura è un po' per iniziati.
Però non è vero che non ci hai capito nulla.
Per esempio, hai capito benissimo il punto centrale dell'articolo: cioè il fatto che il debito publbico NON è un furto tra generazioni perchè ai nostri figli lasciamo sia i debiti sia i crediti, i quali si compensano (a livello macro) tra loro.
Certo, ne sei rimasto disorientato perchè sino ad oggi ti avevano sempre raccontato il contrario.
Ma avevano raccontato il contrario (a te e a tutti gli altri cittadini) proprio per poter fare i comodi loro alle nostre spalle.
Per questo lo studio dell'economia è così trascurato nelle scuole ordinarie.
Tutti, nella nostra vita, dobbiamo affrontare e risolvere problemi economici: eppure, se non studi economia all'università, nessuno mai ti insegnerà nulla.
Lo stesso vale per il diritto (pubblico e privato)
Non ti sembra strano ?
No, non è strano. E' voluto !
«Però non è vero che non ci hai capito nulla.
EliminaPer esempio, hai capito benissimo il punto centrale dell'articolo: cioè il fatto che il debito publbico NON è un furto tra generazioni perchè ai nostri figli lasciamo sia i debiti sia i crediti, i quali si compensano (a livello macro) tra loro.»
No, mi hai frainteso o mi sono espresso male. Io ho sempre pensato (perché lo ripetevano tutti e un po' è anche logico) che effettivamente la nostra generazione, indebitandosi a dismisura, derubava le generazioni successive, costrette a spendere sempre più soldi per pagare gli interessi. Mi sembrava - e mi sembra - logico. Noi facciamo i debiti e i nostri figli saranno costretti a ereditarli e a pagare gli interessi. La storia che coi debiti ereditiamo anche i crediti non l'avevo ancora sentita o immaginata. Forse è anche vero e il discorso cambia, cambierebbe.
Però lo stesso faccio fatica a seguire. Che ci faranno poi i figli con i crediti ereditati e grazie ai quali le cose non stanno così male? Basteranno per pagare il petrolio e il frumento importati?
Faccio un altro esempio tipico. Una volta i paesi in difficoltà svalutavano per incrementare le esportazioni, e la cosa funzionava (abbastanza). Solo che poi bisognava pagare di più le importazioni. Il gioco valeva davvero la candela? Sembra di sì, se no non si svalutava. Ma mi è sempre parsa strana questa euforia della svalutazione. Persino noi Svizzeri temiamo che il franco troppo forte mandi in tilt le esportazioni, tanto che la Banca nazionale ha fissato il franco a 1,2 euro circa (se no il franco si rafforzava ancora con conseguenze catastrofiche per le esportazioni). Si temeva addirittura che l'euro scendesse a 0,5 franchi. I socialisti vorrebbero che il franco scenda ancora di più del cambio attuale (1,2), vorrebbero almeno 1,35, meglio ancora 1,4 (sempre per favorire le esportazioni e quindi l'economia).
È un eterno tira e molla, su e giù: crisi? Vai con la svalutazione. così esportiamo di più. Sì, però paghi di più il petrolio! D'accordo, ma ci conviene lo stesso. Chissà, forse.
È un continuo aggiustare e riaggiustare secondo le convenienze.
Un politico svizzero diceva trenta e più anni fa: "Alla fine saremo contenti di mettere qualcosa sotto i denti!"
La crisi alimentare mondiale è in agguato, vedremo se vendendo più Fiat e Emmentaler o cioccalata potremo comprare quanto ci serve, a cominciare dai viveri.
<< Una volta i paesi in difficoltà svalutavano per incrementare le esportazioni, e la cosa funzionava (abbastanza). Solo che poi bisognava pagare di più le importazioni. Il gioco valeva davvero la candela? Sembra di sì, se no non si svalutava. Ma mi è sempre parsa strana questa euforia della svalutazione. >>
RispondiEliminaCaro Sergio, certamente la svalutazione è una necessità che ha pregi e difetti, e non può certo determinare "euforia",
Però consente di ritrovare un nuovo e migliore equilibrio economico nazionale tra attività interne (che vengono incentivate) ed esterne (che vengono disincentivate).
Prendiamo l'Italia: certo svalutando pagheremmo più cara la benzina (ma meno di quanto pensiamo, perchè gran parte del prezzo alla pompa è dato da imposte e accise) e non possiamo rinunciare ad importare il petrolio.
Però magari potremmo sprecarne di meno oppure incentivare le energie rinnovabili (il sole e il vento in Italia non ci mancano) oppure passare decisamente alle auto elettriche, e via dicendo...
Per contro, le esportazioni migliorerebbero e, soprattutto, tutte le attività puramente interne (cioè svolte dagli italiani per gli italiani) non ne verrebbero minimamente disturbate.
Per questo la nuova Europa ha fatto in modo che la svalutazione competitiva diventasse impossibile.
Ma davvero possiamo pensare che una Europa a trazione franco-tedesca abbia fissato certe regole economiche nell'interesse dell'Italia ?
E perchè avrebbe dovuto ?