giovedì 30 gennaio 2025

Punti di Vista – 39

ELOGIO DELLA VIRGOLA
Vi siete mai chiesti perché oggi i ragazzi non sanno più usare le virgole? Un italiano su tre la sbaglia. E no, non è un caso che si tenda a usarla sempre meno.
Vedete, la virgola fa una cosa in apparenza semplicissima, ma che cambia tutto: crea il ritmo. Dà ritmo ai nostri pensieri, alle nostre parole, alle nostre emozioni. E il ritmo si crea attraverso le pause.
Oggi invece «le cose si susseguono alla rinfusa, travolgendoci e soffocandoci come il fango di un’alluvione.» Nessuno ha più tempo per pensare, per guardare, per sentire.
La nostra è un società dove le persone non consumano ma vengono «consumate». Abbiamo sinteticità ma non chiarezza, rapidità ma non efficienza, informazioni ma non conoscenza!
Nell’era del «tutto e subito» nessuno ha più tempo per nulla. La virgola invece è la carezza con cui accompagniamo un pensiero. (...)
Il punto blocca, ferma, arresta, impone. Mette la parola fine a un discorso. Non vuole il confronto, nega il dialogo, teme il contraddittorio. La virgola invece lega le parole, ti permette di associare le idee, di metterle in relazione.
Quando prendo in mano un giornale o leggo un libro pubblicato recentemente, provo un senso di orrore. Pensierini, frasi ad effetto e slogan creati ad hoc per manipolare e stupire, ma certamente non per far pensare: ecco a cosa si è ridotta la cultura, l'informazione!
Per questo bisognerebbe tornare a usare la punteggiatura, soprattutto a scuola. Perché qua non si tratta soltanto di migliorare la scrittura, ma di tornare a dare respiro ai nostri pensieri.
PROFESSOR X (Facebook)


QUEL CHE RESTA DEL COVID
Il 4 Dicembre 2024 The United States Congress Americano, dopo due anni di investigazioni, ha rilasciato il final report "The Lessons Learned and a Path Forward" su Covid-19 Pandemic.
I punti essenziali:
1) il Covid19 ha avuto con ogni probabilità origine nel laboratorio di Wuhan
2) Le iniziative del WHO sono state un fallimento
3) Il distanziamento sociale è stato arbitrario e senza fondamento scientifico
4) NON ci sono evidenze scientifiche sull'efficacia delle mascherine
5) I lockdown hanno procurato danni enormi alla salute fisica e mentale
6) il vaccino Covid 19 NON ha fermato la trasmissione del virus
7) l'obbligo vaccinale NON è supportato da evidenze scientifiche ed ha creato più danni che vantaggi
8) Il sistema di sorveglianza sugli effetti avversi ha fallito nel riportare corrette informazioni.
HEATER PARISI (Natura Mirabilis)


LA TERRA E' FINITA
Il nostro pianeta era, fino a pochi decenni fa, l'unico sistema «troppo grande per collassare».
Per secoli ne abbiamo sfruttato le risorse e ci siamo spostati ogni volta che una sorgente si prosciugava o un terreno diventava troppo inquinato. Mitica fu l'emigrazione da un'Inghilterra già sovrappopolata verso il nuovo mondo a Occidente.
Oggi però questa strategia non funziona più.
La possibilità delle popolazioni di spostarsi da un luogo all'altro del pianeta, una volta che le risorse di quel luogo siano esaurite, è oggi svalutata dalla uniformizzazione demografica del pianeta e dalla sua trasformazione in una unica grande fabbrica antropizzata che consuma natura e produce scarti.
La migrazione che una volta era gioia della scoperta e salvezza in un nuovo orizzonte, è uno spostarsi dalla miseria a un luogo degradato. E' divenuta uno spostamento senza valore in un mondo uniforme.
Dobbiamo tornare ad una Terra vista come sistema complesso che alterni zone di insediamenti intensivi e zone vergini o di insediamenti ridotti. Sono necessarie politiche demografiche attive volte a disegnare un nuovo pianeta.
AGOBIT (Un pianeta non basta)


RIBELLI SENZA RISCHI
Come mai i giovani universitari americani sono tanto anti-americani?
Sanno di poterlo essere perché quella stessa America che loro disprezzano gli consente anche questo lusso.
Quando si è sicuri di vivere in una democrazia veramente solida, ci si consente anche di dirne male, di contestarla, di condannarla sul piano economico e sul piano morale perché, mentre la mossa appare coraggiosa (loro chiamano questo «lottare»), in realtà non si corre alcun rischio.
Neanche quello di un comportamento in linea con le loro idee. I giovani condannano gli Stati Uniti perché hanno rubato il territorio agli indiani d’America, ma nessuno li sloggerà dagli States e certo loro non andranno a vivere in Rwanda per fare più spazio ai pellerossa.
Insomma la moda dell’auto-fustigazione imperversa perché è gratificante sul piano morale e nel contempo priva di costi.
È come se ad ogni occasione e su qualunque argomento questi giovani moralizzatori dicessero: «Avete visto come sono capace di riconoscere le responsabilità, le malefatte, i torti dell’uomo bianco? Ecco, in nome di tutti i bianchi, confesso i nostri torti e comprendo il vostro rancore. Anzi, lo condivido, anzi lo grido. Sarò pure americano ma sono anti-americano».
Dopo di che, perdono forse il passaporto? No. Cambiano stile di vita? No. Si privano di qualcosa – anche se inquinante – che fa parte delle loro comodità? No.
GIANNI PARDO

sabato 25 gennaio 2025

Il Dialogo inutile - 2

Si conclude qui il post di Aldo Maria Valli sui limiti del dialogo interreligioso tentato in questi decenni dalla Chiesa Cattolica (seconda e ultima parte). (LINK).
LUMEN


<< Siamo quindi nel paradosso. Il Papa da un lato si sforza di mettersi sul piano delle altre fedi e degli altri rappresentanti religiosi, ma in pratica dà loro una lezione, e in particolare la dà all’islam (come del resto ha già fatto nell’Evangelii gaudium, là dove dice che “il vero islam e un’adeguata interpretazione del Corano s’oppongono a ogni violenza”). Il che, dal punto di vista di un musulmano, può essere alquanto problematico: come osa il papa spiegare qual è il vero islam e quale dev’essere un’adeguata interpretazione del Corano ?

Sia pure mascherata da un’estrema modestia formale, la Chiesa cattolica resta, in questo modo, sostanzialmente docente e missionaria, ma inocula nelle altre fedi il virus del relativismo da cui è stata infettata. Paradosso nel paradosso.

“Così – osserva don Barthe – si arriva a un vicolo cieco. Quali risultati ha prodotto, in effetti, il dialogo? Se si vuole stare alla realtà, occorre dire che ha accentuato il fatto che un numero importante di cattolici viva nel relativismo sentimentale e si conformi allo spirito del tempo.

In Occidente l’homo religiosus sta scomparendo a grande velocità, tranne nel caso dell’islam. Nell’ultra-modernità resta un elemento religioso, ma individualizzato, de-istituzionalizzato ed estremamente frammentato all’interno di ogni gruppo. Ciascuno organizza il senso religioso a proprio piacimento, mentre i giovani sono sempre meno praticanti.

Negli Stati Uniti, numerosi protestanti abbandonano la religione, così come accade anche tra i cattolici, sebbene il declino del cattolicesimo sia mascherato dall’arrivo degli immigrati latinos. La stessa Russia, più occidentale di quanto non si creda, si sta secolarizzando e si sta individualizzando.

La religione ortodossa, pur avendo ritrovato potenza e visibilità, non esercita un’influenza reale sulla società, soprattutto per quanto concerne la morale familiare. E la pratica religiosa è sorprendentemente bassa: sebbene la Pasqua sia una festa molto importante per i russi, soltanto il 2% ha partecipato alle celebrazioni pasquali del 2023.

Papa Francesco allora, indicando inconsapevolmente che la strada imboccata è senza uscita, sottolinea: “Si pensa talvolta che l’incontro tra le religioni consista nel ricercare a tutti i costi un terreno comune tra differenti dottrine e professioni religiose. In realtà, può capitare che un tale approccio finisca per dividerci. Perché le dottrine e i dogmi di ogni esperienza religiosa sono diversi” (discorso alla moschea Istiqlal).

Così, nonostante il relativismo contenuto nelle dichiarazioni di Francesco ad Abu Dhabi, a Giacarta e a Singapore, la consapevolezza delle differenze s’accresce. Il dialogo, quindi, non serve a niente? Certi teologi, come il protestante Marc Bross e il cattolico domenicano Remi Céno, ormai sostengono apertamente ch’esso sia radicalmente impossibile.

Se l’Occidente è prova della dissoluzione del dato religioso nel relativismo, l’Asia si profila come il luogo della riaffermazione delle differenze insuperabili. Il risveglio dell’intransigenza religiosa e del proselitismo – compreso il caso del buddhismo sotto la forma della conquista sincretistica, sua caratteristica propria – è in molti luoghi impressionante.

In India (dove l’induismo, religione dominante, conta oggi il 74,8% di una popolazione pari a 1,40 miliardi di abitanti) le ultime elezioni legislative, vinte dal primo ministro Narendra Modi, leader del partito nazionalista indù BJP (Partito del popolo indiano), hanno rilanciato l’influenza decisiva di un induismo aggressivo e violento, soprattutto nei confronti dell’islam. Anche in Cina si assiste a una rinascita eclatante della sfera spirituale (buddhismo, cristianesimo, mondo delle religioni popolari) ma il tutto sotto il controllo del Partito comunista.

Per quanto minato sia dal liberalismo dell’ultra-modernità sia dall’ideologia del dialogo, il cattolicesimo fa registrare cifre tutt’altro che negative. In Corea del Sud tra il 1999 e il 2008 si è registrato un sorprendente aumento del 50% nel numero dei cattolici. E la Corea del Nord conferma in negativo tale tendenza: il rischio della rinascita religiosa è considerato così reale da spingere il regime a perseguitare il cristianesimo con incarcerazioni, torture ed esecuzioni.

A livello mondiale, le statistiche parlano di oltre 360 milioni di cristiani perseguitati, cifra che non cessa di aumentare. Nel mondo, un cristiano su sette viene perseguitato. Uno su cinque in Africa, due su cinque in Asia e nel Medio Oriente, dove la persecuzione è tale da far scomparire il cristianesimo dalle terre in cui è nato. E in Europa? Da noi già ora vediamo la crescita di emarginazione, dittatura delle ideologie dominanti, aggressioni, profanazioni. Come all’origine, il cattolicesimo si afferma nella sofferenza e nel sangue dei martiri.

Con estremo realismo, il fallimento del dialogo interreligioso è stato illustrato di recente dal cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, che dagli anni Novanta vive in Terra Santa. 

In un suo intervento a Roma, il cardinale ha deplorato che in una situazione specifica in cui il dialogo sarebbe quanto mai prezioso, le parole dei leader religiosi sono state “fortemente assenti”. Infatti, “salvo poche eccezioni, non abbiamo sentito negli ultimi mesi, da parte delle autorità religiose, discorsi, riflessioni o preghiere diverse da quelle di qualsiasi altro leader politico o sociale”.

“Non sarà mai più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei”, ha detto Pizzaballa. “Il mondo ebraico non si è sentito sostenuto dai cristiani e lo ha espresso chiaramente. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, o sono divisi sull’appoggio all’uno o all’altro campo, oppure sono incerti e disorientati. I musulmani si sentono aggrediti, considerati complici dei massacri commessi il 7 ottobre. Insomma, dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non capirci”.

Parlando di un “grande dolore”, ma anche di “una grande lezione”, il cardinale, che è certamente uomo di pace, ha detto: “Il solco di divisione tra le comunità, i rari ma importanti contesti di convivenza interreligiosa e civile si stanno progressivamente disintegrando, con un atteggiamento di sfiducia che cresce ogni giorno. Un panorama desolante”. E che si può estendere dalla martoriata Terra Santa al mondo intero. >>

ALDO MARIA VALLI

lunedì 20 gennaio 2025

Il Dialogo inutile - 1

Le considerazioni di Aldo Maria Valli (cattolico tradizionalista) sui limiti del dialogo interreligioso tentato dalla Chiesa Cattolica in questi decenni e sul suo sostanziale fallimento (prima parte di due).  (LINK).
LUMEN


<< In un recente articolo, don Claude Barthe affronta il tema del cosiddetto dialogo interreligioso offrendo alcuni utili spunti di riflessione.

I tentativi di far dialogare le religioni tra loro si ispirano alle ideologie moderne nate dall’Illuminismo. Tale è l’origine di quell’insieme eterogeneo di cattolici di matrice liberale desiderosi di arrivare a coltivare con le altre religioni un’intesa che tuttavia, stante le radicali differenze, non può avere nulla di dottrinale, ma nasce unicamente da un “romanticismo religioso”.

Un primo tentativo di questo genere sfociò nel Parlamento delle religioni del mondo, che si tenne a Chicago nel 1893. Vi partecipò il cardinale Gibbons, arcivescovo di Baltimora, che aprì la riunione con la recita del Pater noster.

Più tardi, nel 1900, don Félix Klein e don Victor Charbonnel vollero ripetere l’esperimento in occasione dell’Esposizione universale di Parigi, ma il tentativo fallì, anche perché già qualche anno prima Leone XIII aveva fatto sapere di non essere favorevole alla partecipazione di preti cattolici a iniziative comuni di questo genere.

Forme di “dialogo”, ispirate più che altro a mettere le religioni al servizio della pace, continuarono a svilupparsi tra i protestanti, ma si dovette attendere il Concilio Vaticano II e la dichiarazione Nostra Ætate perché avessero pieno diritto di cittadinanza tra i cattolici.

Il nuovo processo – rileva don Barthe – si è dimostrato rischioso per ciascuno dei soggetti coinvolti, ma evidentemente lo è stato prima di tutto per la religione di Gesù Cristo, consapevole di godere della pienezza religiosa. Per il cattolicesimo il rischio più immediato consiste nella perdita non solo della sua forza missionaria ma del senso stesso della missione.

Proprio questo è il punto centrale della critica che si può muovere al dialogo così com’è inteso in Nostra Ætate, con la quale il cattolicesimo viene spinto a riconoscere uno status positivo alle altre tradizioni religiose, dichiarate degne di “rispetto sincero”.

Nostra Ætate non afferma che queste tradizioni siano strade parallele, dotate in sé di una consistenza soprannaturale in grado di procurare la salvezza, però evita di dire che esse sono strade false. Come in altri ambiti, anche rispetto al valore delle altre religioni nell’ordine della salvezza il Vaticano II cerca una posizione intermedia, e quindi ambigua.

Don Barthe ricostruisce tre fasi del dialogo voluto dal Concilio Vaticano II: la fase di Assisi, quando il cattolicesimo invita espressamente le altre religioni al dialogo; la fase bergogliana, quando il cattolicesimo cerca di spiegare alle altre religioni l’idea dell’unità nella diversità; infine la fase in cui il confronto religioso sta ritrovando quella violenza che in realtà non ha mai perso.

Il primo incontro di Assisi del 27 ottobre 1986, organizzato da Giovanni Paolo II, resta la vetrina storica del dialogo interreligioso voluto dal Concilio Vaticano II. Non si trattò di conversare come a Chicago o in altre riunioni simili, bensì di pregare per la pace. E, tenendo conto degli avvertimenti di Leone XIII, si trattava “non di pregare insieme, ma di stare insieme per pregare”. Tuttavia quell’immagine, inconcepibile per gran parte del popolo cattolico, del Vicario di Cristo posto su un piano di assoluta uguaglianza in mezzo alle false religioni, fu molto chiara.

Assisi fu scelta perché, durante la quinta crociata, san Francesco incontrò il sultano d’Egitto Al Kâmil per conversare con lui. Ma si dimentica spesso di ricordare che il santo rischiò il martirio e che il fine di Francesco non era quello di esprimere il suo “rispetto sincero” per l’islam, ch’egli considerava diabolico, bensì di convertire il sultano e, dopo di lui, tutto il suo popolo.

Per giustificare Assisi si fece riferimento anche ai due interventi di Pio XI, che invitò tutti a pregare per la pace nel 1932 (enciclica Caritate Christi) e nel 1937 (Divini Redemptoris). Ma in entrambi i casi Pio XI non invitò mai le altre religioni sul piano istituzionale, bensì i singoli credenti.

L’enciclica Redemptoris missio del 7 dicembre 1990, secondo la quale “il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa” cerca in qualche maniera di reinquadrare il problema. Tuttavia continua a insistere sull’esistenza di “tutto ciò che è vero e santo nelle tradizioni religiose” e sulla scoperta in esse, attraverso il dialogo, dei “semi del Verbo”. Più tardi sarà la dichiarazione Dominus Jesus della Congregazione per la dottrina della fede sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000, a cercare di rettificare Assisi, ma senza uscire dalle contraddizioni.

Assisi, con lo choc determinato in molti fedeli cattolici, resta uno sviluppo del Concilio Vaticano II. E, a proposito di choc, non si può dimenticare il bacio dato da Giovanni Paolo II al Corano, offertogli da una delegazione irachena il 14 maggio 1999.

Per quanto il cattolicesimo abbia cercato di porsi sullo stesso piano delle altre religioni, sia nella giornata di Assisi sia in quelle che seguirono nel 2011, sotto Benedetto XVI, e nel 2016 sotto Francesco, non si può negare che è stata la religione cattolica ad aver invitato le altre a riunirsi per pregare in favore della pace.

A questo proposito si è parlato addirittura di un paradossale ritorno a un imperialismo cattolico, o meglio papale, accentuato dal fatto che le altre religioni, a differenza di quella cattolica, non hanno una forma centralizzata e dottrinalmente unificata.

Di qui una circostanza che non si può negare: quando la Chiesa cattolica chiama al dialogo è essa stessa a scegliere gli interlocutori in mezzo a una grande varietà di voci. Dunque, è la Chiesa cattolica ad attribuire una patente di rappresentatività, è lei che fa esistere alcune altre religioni come partner, assimilandole a sé stessa e, in questo modo, proponendosi come modello.

Come per tutte le cosiddette “intuizioni” del Vaticano II, anche nel campo del dialogo con le altre religioni si può andare da una interpretazione minima a un’interpretazione massima. 

E con Abu Dhabi (4 febbraio 2019) Francesco si è spinto molto in là: “Il pluralismo e le diversità di religione, colore, sesso, razza e lingua rappresentano una saggia volontà divina”. (...)  Durante la visita a Giacarta (5 settembre 2024), Francesco si è mantenuto su quella linea: “Che tutti, tutti noi insieme, ciascuno coltivando la propria spiritualità e praticando la propria religione, possiamo camminare alla ricerca di Dio”. 

Poi, a Singapore, il 13 settembre, una nuova accelerata: “Tutte le religioni rappresentano un cammino verso Dio. Esse sono – faccio un paragone – come lingue differenti, come idiomi differenti, per arrivarci. Ma Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio”. (…) >>

ALDO MARIA VALLI

(segue)

mercoledì 15 gennaio 2025

Pensierini – LXXXII

SOCIAL MEDIA E DITTATURE
A proposito dei pregi e dei difetti dei moderni 'social media', qualcuno ha fatto notare che essi, mentre dilagano nelle società democratiche, vengono sistematicamente osteggiati ed iper-controllati da tutte le dittature.
Se ne dovrebbe dedurre che questi media possiedono dei valori positivi di apertura, di dialogo sociale, e che risultano quindi di 'supporto attivo' alla libertà ed alla democrazia.
Il ragionamento è interessante, ma non mi convince del tutto.
I 'social media', più che esaltare la libertà democratica, che richiede non solo la presenza di opinioni diverse, ma anche il formale rispetto degli avversari, esaltano l'aggressività ed il caos sociale, cioè la demolizione sistematica di tutti i valori sociali dominanti, qualunque essi siano.
Quindi, probabilmente, le dittature osteggiano e controllano i 'social media' non perchè abbiano paura della democrazia, ma solo perchè temono la disintegrazione dei valori sociali ed ideologici su cui si fondano le loro elites.
Il cui crollo porterebbe rapidamente alla caduta del loro regime e quindi del loro potere. Ma solo per passare ad un'altra elite autoritaria.
LUMEN


MY COUNTRY
L'attuale civiltà occidentale, come tutte le grandi civiltà, ha sicuramente dei meriti e delle colpe, ha fatto del bene e ha fatto del male, perchè così funzionano le società umane.
Non so dire se la bilancia sia in pareggio o se penda di più da una delle due parti, ma io, personalmente, sto con l'occidente - senza discussioni - per un motivo molto semplice: che non giudico le civiltà con il metro dell'etica, ma con quello dell'appartenenza.
Io sono un occidentale, e quindi per me la civiltà occidentale sarà sempre il punto di riferimento più importante. Non perchè è la migliore, ma perchè è la mia.
Pertanto, anche se posso criticarla dall'interno, cercherò sempre di difenderla dall'esterno.
Come dice un famoso 'motto' americano (da intendersi in senso lato): "right or wrong, my country".
LUMEN


DIALOGO RELIGIOSO
La Chiesa Cattolica ha intrapreso da tempo un dialogo con le altre religioni, volto a superare, per quanto possibile, le rispettive differenze e quindi a rafforzare il concetto di 'sacro' nel mondo.
Il tentativo, a cui la Chiesa sta dedicando molte risorse e molto impegno, è senza dubbio importante (dal suo punto di vista), ma secondo me è destinato a fallire per almeno due motivi.
Il primo è che questo tentativo di dialogo, che infatti viene portato avanti quasi solo dalla Chiesa Cattolica, è un indice di debolezza, perchè del dialogo hanno bisogno solo le istituzioni che sono in crisi.
Quindi è molto difficile che le altre religioni, che in genere se la passano meglio, accettino di aiutare un concorrente in difficoltà.
In secondo luogo, capisco bene che, per la Chiesa, l'ateismo sia più pericoloso degli altri culti, e che, da un punto di vista strettamente teologico, dato il principio che esisterebbe un solo Dio, unico per tutti, le differenze si possono anche discutere e minimizzare.
Ma le religioni sono fatte anche (per non dire soprattutto) di precetti etici e di vita sociale e qui le differenze sono talmente abissali, che non può esserci spazio per nessuna convergenza.
Inoltre mentre la teologia interessa solo alle elites religiose, che per mantenere il potere possono essere disposte a qualunque compromesso, i precetti etici riguardano i fedeli, cioè le rispettive popolazioni, che su certe cose non transigono.
Per questo, il tentativo di dialogo resterò sterile e non darà nessun risultato pratico, se non quello di indebolire ancora di più la Chiesa Cattolica.
LUMEN


LA TERRA DELLE ORIGINI
Anche se è opinione comune tra gli antropologi che l'Homo Sapiens sia nato in Africa (da cui si sarebbe poi diffuso in tutto il pianeta, con migrazioni successive) esistono anche delle opinioni contrarie, minoritarie ma molto combattive.
Io però mi chiedo (e me lo chiedo da Darwiniano convinto): ma l'effettiva origine geografica dell'uomo è poi così importante ?
Secondo alcuni sarebbe rilevante per motivi socio-politici, in quanto (cito dal web):
<< Se l'Homo sapiens è nato in Africa, l'invasione dell'Europa da parte degli africani è solo un prendere possesso di un loro territorio, in base al diritto di precedenza.
Se quella negroide è la razza originale e predominante, i nativi europei devono mettersi l'animo in pace e accettare il meticciamento, oppure l'estinzione. >>
Il ragionamento sembra avere una sua logica, ma non dimostra nulla, perchè può essere facilmente rovesciato: se la razza africana è quella primordiale, significa che le altre sono le più evolute, e quindi portatrici di diritti maggiori.
In realtà sono tutte sciocchezze, perchè il possesso di una terra non può dipendere da presunti diritti ancestrali, ma solo dallo 'status quo' geo-politico che si è creato nel tempo.
LUMEN

venerdì 10 gennaio 2025

Di tutti i Colori – (2)

In un post precedente ho parlato di come le innovazioni tecniche dei colori hanno cambiato la storia della pittura.
Ma queste innovazioni, derivanti da uno studio sempre più approfondito delle caratteristiche fisico-chimiche dei colori e delle strutture visive, hanno finito per cambiare anche la nostra stessa percezione del colore.
Ce ne parla Riccardo Falcinelli, autore del libro 'Cromorama', in questa intervista concessa a Giulia Zappa per il sito Artribune (Link) .
LUMEN


<< D - In Cromorama racconti innanzitutto quanto la nostra percezione del colore sia stata modificata dall’avvento della società di massa e delle innovazioni tecniche che l’hanno plasmata. Come mai la rivoluzione industriale ha rappresentato uno spartiacque riguardo alla nostra idea del colore?

R - Nell’arco di cento anni la rivoluzione industriale ci ha messo a disposizione qualsiasi tipo di oggetto in qualsiasi colore. Prima dei coloranti industriali, ciò era impensabile: ad esempio il colore era innanzitutto un materiale o povero o prezioso, per cui il nero veniva ricavato dal carbone e il blu dal lapislazzulo, per restare sugli esempi più famosi.
Le ultime generazioni sono cresciute con i pastelli e i pennarelli, educate al fatto che il colore è staccato dalle cose: qualcosa che mettiamo “sopra” una superficie. Questa è una constatazione banale, ma a me affascinava il fatto che fosse così banale.
L’industria ha dunque operato una rivoluzione epistemologica nel rapporto che abbiamo con ciò che guardiamo: il tema del libro è sicuramente il colore, che è però anche un pretesto per svelare come, nel nostro rapporto con la dimensione estetica, le cose più banali sono in realtà quelle che si sono costruite in maniera più artificiosa.

D - Una delle scoperte più interessanti che Cromorama ci svela è che la tinta unita è un’invenzione della modernità. L’avvento del digitale ha in qualche modo enfatizzato questa dimensione flat, come sembra ricordarci anche l’odierno web design?

R - La tinta unica è un modo di pensare. Per la tecnica, prima quella meccanica dell’800, poi oggi quella digitale, fare la tinta unita è più facile. Se pensiamo all’informatica, costa meno energie fare il file di un’immagine con un solo colore rispetto a una sfumatura.
Ciò era impensabile in passato, quando l’industria tintoria doveva anche solo confrontarsi con tessuti e intonaci che sbiadivano con grande facilità, mentre nei mattoncini Lego di quarant’anni fa il colore è rimasto intatto. Per Michelangelo che dipinge la Sistina fare una tinta unita era difficilissimo, e magari non faceva neanche parte dei suoi desideri estetici. (...)
Naturalmente non tutti gli illustratori assecondano questa scelta, ne esistono alcuni che pur lavorando moltissimo in digitale hanno trovato degli escamotage per inserire elementi caldi o pittorici nelle loro opere, scomponendo così l’effetto sintetico della tinta unita.

D – L'epoca contemporanea che visione ha della tinta unita ?

R - Pensiamo ad esempio a una cosa di cui nel libro non parlo, ossia tutti i filtri di Instagram che sporcano le immagini o che simulano l’effetto di un negativo venuto male. Come spesso accade, la tecnologia ci permette di sviluppare qualche cosa facilmente, ma poi iniziamo a desiderare qualcosa che gli vada contro, e questo spesso si trasforma in una moda.
Quando ho iniziato a fare il grafico vent’anni fa, più i colori erano compatti, sintetici, elettronici, più piacevano. L’esplosione di Photoshop all’inizio degli Anni ’90 amplifica qualcosa che era iniziata con l’aerografo all’inizio degli Anni ’80, la sfumatura perfetta, la cromatura brillante.
Passano poi pochissimi anni ed esplode un altro tipo di gusto, il rovinato e il destrutturato, e diventa una star uno come David Carson, che è stato il maestro della grafica sporca. (...)

D - Nel libro insisti molto sul fatto che noi desideriamo un colore perché ci ricolleghiamo all’idea che quel colore esprime. La moda, che hai già chiamato in causa, che ruolo ha in questo meccanismo? (...)

R - (…) Il potere della moda arriva quando alcuni designer o brand riescono a imporre una singola tinta o un insieme di tinte che si trasformano in un immaginario. Dietro c’è sicuramente uno studio di cui parlo anche in Cromorama: ci sono persone che studiano cosa è andato di moda, quello che è passato, quello che potrebbe piacere, sebbene poi ogni anno vengano messi in commercio un’infinità di colori nuovi.
Quello che poi vince, a mio parere, è ciò che darwinianamente, per ragioni anche imperscrutabili, finisce per affermarsi e viene poi molto imitato. Più che di singole tinte mi viene da dire che quello che finisce per andare di moda è un sistema di tinte.

D - In Cromorama insisti molto sul ruolo dell’industria nel creare degli standard percettivi che si sono oramai imposti come veri e propri archetipi: un esempio su tutti, la matita gialla, che vende di più rispetto a quelle in altri colori. Eppure, il discorso at large sul design – a partire dal mobile ma non solo – continua a porre l’accento sull’artigianalità come possibilità di deviazione dal prodotto seriale. Come convivono secondo te questi due livelli quando parliamo di colore?

R - La ricerca sulla deviazione dal seriale esiste, ma rimane in ambito di élite, destinata a quei pochi che vantano una fortissima vocazione artistica. Non dico che non sia interessante, ma non è quello che cambia le carte in tavola.
Piuttosto, l’industria ha la possibilità di prendere delle forme inventate trenta, quarant’anni fa e di trasformarle in un altro contesto, contribuendo a plasmare il gusto del grande pubblico.
Questo meccanismo, a tratti perverso, è senz’altro affascinante: dispiace però che il pubblico si scordi chi ha realmente inventato quelle cose, come ad esempio quando ci troviamo di fronte un’ennesima derivazione di una sedia degli Eames, ora trasformata in un’altra cosa. Del resto il nostro sguardo si è abituato alla commistione tra generi e forme diverse, che tendiamo a mettere sullo stesso piano.

D - (…) Come è possibile rieducare lo sguardo per vedere i colori come poteva fare un bizantino o un uomo del Rinascimento?

R - In generale è impossibile, si può però fare uno sforzo di razionalizzazione, ma solo a scuola. Non credo che esista un luogo altro deputato a questa analisi. Il libro si chiude dicendo che noi insegniamo ai bambini che puoi fare il verde mischiando il giallo con il blu, ma questa non è una verità. Diciamo allora che è un invito: l’unica cosa che possiamo fare per educare al design e all’arte è la scuola.

D - Tra i molti esempi che citi nel libro c’è anche quello di una Madonna lignea conservata nel museo di Liegi che nel corso della sua storia è stata ridipinta quattro volte, da nero, a blu lapislazzulo, a oro, a bianco dell’Immacolata, a seconda dei valori che questi colori hanno incarnato nel tempo. Se dovesse essere nuovamente ridipinta oggi, di che colore sarebbe?

R - (…) Probabilmente oggi non avrebbe un unico colore, perché in fondo l’immagine della Madonna è sempre stata un gadget, anche quando i gadget non esistevano. I primi santini sono della metà del ‘500 e oggi tu puoi avere i santini in più colori, a scelta del devoto. >>

RICCARDO FALCINELLI

sabato 4 gennaio 2025

Il problema delle Migrazioni

Il post di oggi ritorna sul problema dell'immigrazione di massa, vista come una tendenza ormai irreversibile a livello mondiale, e cerca di analizzare le conseguenze di questo fenomeno sia dal punto di vita demografico che da quello sociale.
LUMEN


ASPIRAZIONI SOCIALI
Prendiamo un immigrato. Diciamo che proviene da un paese poverissimo. Se proviene da un paese veramente povero, sara’ disposto a fare lavori umili e sottopagati.
La prima domanda che dobbiamo porci e’: per quanto tempo e’ disposto a farlo?
Voglio dire, se prendiamo un ventenne e lo mettiamo sui campi a sgobbare probabilmente per i primi anni riuscira’ a sopportare l’iniquita’. Magari vivendo in condizioni disumane riuscira’ pure a mandare a casa qualcosa: quando si e’ molto giovani, si fanno cosencredibili.
Ma poi si cresce, e ad un certo punto il nostro giovane desidera, che so io, avere una casa. Una vita. Persino una famiglia.
Morale della storia: l’immigrato non e’ una costante, un oggetto che si usa finche’ non si rompe; come ogni essere umano e’ soggetto ad una storia che lo porta, alla fine, a desiderare una vita.
Sulle prime, la differenza tra un massacro genocida e una catapecchia con un lavoro da pochi euro fa sembrare sopportabile la vita misera in Italia. Ma, mano a mano che il ricordo del massacro passa, iniziano a farsi avanti le aspirazioni, i desideri, la voglia di vivere.
Tutte le situazioni di estrema indigenza prodotte dall’immigrazione clandestina, in definitiva, sono destinate ad esplodere in questo modo.
URIEL FANELLI


ITALIA E MIGRAZIONI
Non c’è alcuni dubbio che gli “italiani”, in senso di persone le cui famiglie vivono in Italia da generazioni e che condividono tra loro alcune caratteristiche anche genetiche, stanno diminuendo di numero, e che il loro posto viene preso da persone provenienti da altri paesi, anche molto lontani.
Questa non è una teoria del complotto, è un dato di fatto.
Le domande semmai da porsi sono: è un fenomeno voluto da qualcuno, e se sì, da chi? È evitabile o inevitabile? È positivo o negativo? Le persone sono fondamentalmente equivalenti, oppure diverse? Una popolazione vale o non vale l’altra?
E se c’è qualcosa che ci distingue, cos’è? È l’aspetto, la lingua dei genitori, la cultura, o qualcos’altro ancora? (…) Le persone sono prestatrici di manodopera, o portatrici di identità e storie? Cos’è la cittadinanza, e su quale basi va data?
Ancora: è “sostituzione etnica” quando avviene internamente, da una regione all’altra del paese? È più autoctono un siciliano che viene a vivere a Udine, o uno sloveno che si trasferisce in Friuli o a Trieste a pochi chilometri da dov’è nato?
Gli italiani (...) hanno di loro una grandissima varietà genetica, pari quasi a quella dell’Europa nel suo insieme. [Ma] si tratta di una varietà sedimentata nei millenni e divisa per regioni, come è evidente anche solo guardandoci. 
Questo è diverso dall’immigrazione in tempi molto rapidi da persone da qualsiasi angolo del mondo.
GAIA BARACETTI


ITALIA E POPOLAZIONE
La popolazione italiana mostra, mese dopo mese, un calo naturale, compensato, alle volte insufficientemente e alle volte sovrabbondantemente, dall’immigrazione dall’estero.
Questo a me fa stare molto male, ma non per questioni di sangue o di essere meglio degli altri, semmai perché vorrei vedere il nostro paese spopolarsi nella maniera più rapida e indolore possibile, e invece continua ad arrivare gente e non se ne può più.
E prima che inorridiate all’idea dell’Italia che si spopola, sottolineo che l’Italia ha oltre venti volte la densità di popolazione della Norvegia, e dieci volte quella della Finlandia, il “paese più felice del mondo”, e della Nuova Zelanda, un paese paragonabile per area e clima; non mi sembra siano posti in cui si vive male.
Siamo noi semmai che non ce la facciamo più, e il sovraffollamento non aiuta.
GAIA BARACETTI


MIGRAZIONE E LAVORO
La lezione sugli immigrati ci viene da Platone (Le Leggi) in cui scrive che gli immigrati, dopo un certo numero di anni, dovevano prendere la loro roba e andarsene.
Platone aveva presente il pericolo che gli immigrati ponessero radici e pretendessero poi di diventare cittadini portando ad una sostituzione etnica degli ateniesi. L'immigrazione doveva avvenire a rotazione. (...)
Altra lezione ci viene da Marx quando scriveva che i capitalisti avevano interesse a sfrutttare la mano d'opera con bassi salari. Si trattava del famoso "esercito di riserva" dei disoccupati.
Oggi questo esercito di riserva è composto da immigrati che la scellerata politica della falsa sinistra, traditrice di Marx, ha fatto entrare favorendo lo sfruttamento di mano d'opera degli immigrati, anche clandestini, e impedendo in questo modo che gli stessi lavori potessero essere fatti dagli italiani senza essere sfruttati.
PIETRO MELIS