venerdì 31 gennaio 2020

I giudici e la modernità

Da quando gli uomini vivono in società organizzate, e quindi il loro comportamento è regolato da norme e leggi, è diventata indispensabile la figura del giudice, che quelle norme deve interpretare ed applicare ai casi di specie.
Un tempo, quando il sovrano assoluto assommava a sé tutti i poteri, il monarca si occupava non solo di promulgare le leggi e di farle rispettare dai sudditi, ma fungeva anche da giudice nei casi di controversia.
Oggi, per fortuna, abbiamo conquistato la divisione dei poteri, per cui un organo fa le leggi (il parlamento), un altro le applica (il governo tramite la pubblica amministrazione) ed un altro dirime le controversie (i giudici che compongono la magistratura). Ma ovviamente, come ognuno può facilmente vedere, i problemi non sono per nulla finiti.
E proprio alle particolari difficoltà che la magistratura sta attraversando nel nostro paese, nonché al mutato ruolo sociale del giudice, è dedicato questo pezzo di Aldo Giannuli, pubblicato sul suo blog nella scorsa estate.
LUMEN


<< Luciano Violante ha detto, fra l’attonito e lo scandalizzato, che mai ci sono stati tanti magistrati inquisiti per ipotesi di reato piuttosto degradanti. (…) Vedremo cosa viene fuori, qui dobbiamo capire le questioni di fondo. E la questione delle questioni è il fallimento del modello costituzionale italiano in tema di “autogoverno della magistratura”.

Siamo l’unico paese che affida tutte le questioni ordinamentali dell’ordine giudiziario (nomine, disciplina, trasferimenti, reclutamento eccetera) ad un organismo composto maggioritariamente da eletti della stessa magistratura. Appunto: l’autogoverno della Magistratura, il che comprende anche alcuni clamorosi conflitti di interesse. (…)

L’aspetto disciplinare è quello più evidente e basti vedere quanto siano rari i casi di magistrati effettivamente sanzionati: una decina di anni fa ricordo che una statistica attestava che i procedimenti che si concludevano con la condanna erano poco più dell’1%. Non credo che le cose siano granché cambiate. E la ragione si capisce subito: l’eventuale inquisito gode subito della difesa dei membri togati della corrente cui appartiene. Poi sarà compito di questi trovare i voti necessari pescandoli fra i membri laici politicamente affini e scambiando con le altre correnti il proscioglimento del proprio con quello di qualche altra corrente. Vi sembra una cosa seria?

E che dire delle norme sul reclutamento? Ma quanti sono i figli, generi, nipoti, mogli di magistrati in servizio che vincono i concorsi? E non temiamo conto di amanti e affini vari. Poi dovremmo fare un discorsino sulle scuole che, dietro profumato compenso, preparano al concorso e che sono regolarmente rette da qualche ex magistrato, magari dirigente di qualche corrente. Capita che spesso qualcuna di queste scuole faccia una parte speciale del corso che coincide esattamente con una delle due tracce concorsuali. Vi sembra una cosa seria?

E, naturalmente, le nomine nei vari uffici sono un mercato permanente. (…) Poi gli uffici si “pesano” non solo in funzione del peso della città, ma del potere che ciascuno ha. (…) E che dire delle sezioni fallimentari? Capite che un tribunale come quello di Trieste (dove hanno sede le Assicurazioni Generali ed un porto di rilevanza strategica) conta decisamente di più di Bari o Bologna. Insomma gli uffici giudiziari non si contano ma si pesano e, in una situazione del genere, non volete darvi un apposito “manuale Cencelli”?

L’Assemblea Costituente aveva ancora un piede nell’Ottocento ed immaginava i magistrati come un ceto notabilare di galantuomini, per cui mai sarebbero scesi a certi mercati, e pensò che per garantire l’autonomia della Magistratura dal potere politico (obiettivo sacrosanto) fosse opportuno affidare il governo dell’ordine agli stessi magistrati. Ma quel mondo non c’è più.

La modernizzazione comporta (per usare le categorie di Ruth Benedict) il passaggio dalle società della vergogna a quelle della colpa. Cioè dalle società dove la “pubblica estimazione” (come si legge nei rapporti di polizia) era un elemento decisivo della vita sociale e, pertanto, c’erano, appunto, i “galantuomini”.

La considerazione della stima goduta era un elemento rilevantissimo per concedere un prestito bancario, per decidere l’affidamento di una carica pubblica, per valutare la credibilità di un teste eccetera. Ma questo presupponeva città relativamente piccole, ambienti professionali in cui tutti conoscono tutti, il peso delle grandi organizzazioni (non importa se politiche o economiche) è limitato se non sconosciuto e la presenza di codici morali condivisi.

Nella società contemporanea siamo tutti più o meno avvolti nell’anonimato metropolitano, l’appoggio di una determinata organizzazione (magari criminale) pesa molto di più della considerazione sociale, i codici morali sono differenziati e c’è un diffuso amoralismo, per cui quello che conta (e sino a un certo punto) è il limite legale. Appunto, il passaggio dalla società della vergogna, a quello della colpa legale.

Voglio fare un esempio tratto da miei ricordi personali. Negli anni cinquanta e sessanta, mia madre era una modista molto apprezzata in città, con una clientela abbastanza scelta. Un giorno dei primissimi sessanta, la moglie di un magistrato acquistò a credito due capi piuttosto costosi; mia madre segnò sul quadernetto la somma e senza neppure la firma della cliente (all’epoca non usava).

Il giorno dopo, il marito si presentò al negozio e saldò l’intera cifra. A mia madre, che diceva che non c’era bisogno perché la signora godeva di piena stima, il magistrato replicò che era necessario perché “Domani lei potrebbe avere una causa di cui io mi trovi a fare il giudice e io non devo avere nessuna pendenza economica che possa fare anche solo sospettare una mia preferenza per una parte”.

Negli anni Novanta ricordo il caso di un noto magistrato che, per ristrutturare la sua lussuosa villa contrasse un forte mutuo (500 milioni del tempo, se la memoria non mi inganna) con una banca compresa nel suo distretto giudiziario. Ed il CSM trovò la cosa perfettamente normale.

In questo contesto, il magistrato non è più il notabile “Galantuomo” che gode di “generale estimazione” ed esercita una delicata funzione sociale, ma un qualsiasi dipendente pubblico, investito di un potere da usare più o meno discrezionalmente. Se poi, su tutto questo, ci caliamo sopra il peso di correnti che, da tendenze culturali, diventano macchine di potere, le “porte girevoli” che portano da una Procura o la Presidenza di una Corte d’Appello ad un seggio parlamentare e, per giunta, la tendenza a regolare i conti politici nelle aule di giustizia, credo che non ci si possa meravigliare più di nulla.

Allora riformare il CSM con il sorteggio? Come curare una polmonite con l’aspirina. E’ arrivato il momento di ripensare tutta l’architettura del sistema, abbandonando il principio dell’autogoverno della magistratura o riducendolo al massimo ad una presenza elettiva di non più del 10% sul totale. Certo non per affidare la materia al potere politico, che sarebbe un disastro ancora peggiore. Ma le soluzioni possono essere diverse. >>

ALDO GIANNULI

venerdì 24 gennaio 2020

Ex Voto (commedia in 3 atti)

Diceva un noto uomo politico (Andreotti, mi pare), che contro i nemici le leggi si applicano, mentre per gli amici si interpretano.
Questo vale, a maggior ragione, per le regole ed i precetti religiosi, che essendo (inevitabilmente) tutti finti, consentono il massimo della elasticità e del ribaltamento.
Ce lo dimostra in modo esemplare (e contro le stesse intenzioni dell'autore), la ben nota vicenda del 'voto di castità' della povera Lucia, narrato dal Manzoni nei Promessi Sposi.
LUMEN


Atto I - Lucia prigioniera

<< Ma in quel momento, [Lucia] si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata.

Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero: che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacchè, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio.

S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: “o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata, voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, o Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra.”

Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel “domattina” ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione.

I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri; e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo. >>


Atto II - Lucia liberata

<< Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l’animo, andava intanto assettandosi, per un’abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita s’intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d’improvviso, e vi comparve chiara e distinta.

Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: “oh povera me, cos’ho fatto!”

Ma non appena l’ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto, l’angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve un’ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella preghiera; e s’affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo.

Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse concessa la forza d’adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e l’occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo.

La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell’uno la ragione d’esser contenta dell’altro. E dietro a quel pensiero, s’andava figurando ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l’opera, saprebbe trovar la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più...

Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch’era andata a cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s’alzò, se ci si passa quest’espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso. >>


Atto III - Lucia redenta

<< Lucia si voltò, s’alzò precipitosamente e andò incontro al vecchio, gridando: “oh chi vedo! O padre Cristoforo!”
Ebbene, Lucia! da quante angustie v’ha liberata il Signore! Dovete esser ben contenta d’aver sempre sperato in Lui.”

Oh sì! Ma lei, padre? Povera me, come è cambiato! Come sta? dica: come sta?”
Come Dio vuole, e come, per sua grazia, voglio anch’io,” rispose, con volto sereno, il frate. E, tiratala in un canto, soggiunse: “sentite: io non posso rimaner qui che pochi momenti. Siete voi disposta a confidarvi in me, come altre volte?”

Oh! non è lei sempre il mio padre?”
Figliuola, dunque; cos’è codesto voto che m’ha detto Renzo?”

È un voto che ho fatto alla Madonna... oh! in una gran tribolazione!... di non maritarmi.”
Poverina! Ma avete pensato allora, ch’eravate legata da una promessa?”

Trattandosi del Signore e della Madonna!... non ci ho pensato.”
Il Signore, figliuola, gradisce i sagrifizi, l’offerte, quando le facciamo del nostro. È il cuore che vuole, è la volontà: ma voi non potevate offrirgli la volontà d’un altro, al quale v’eravate già obbligata.”

Ho fatto male?”
No, poverina, non pensate a questo: io credo anzi che la Vergine santa avrà gradita l’intenzione del vostro cuore afflitto, e l’avrà offerta a Dio per voi. Ma ditemi; non vi siete mai consigliata con nessuno su questa cosa?”

Io non pensavo che fosse male, da dovermene confessare: e quel poco bene che si può fare, si sa che non bisogna raccontarlo.”
Non avete nessun altro motivo che vi trattenga dal mantener la promessa che avete fatta a Renzo?”

In quanto a questo... per me... che motivo...? Non potrei proprio dire...” rispose Lucia, con un’esitazione che indicava tutt’altro che un’incertezza del pensiero; e il suo viso ancora scolorito dalla malattia, fiorì tutt’a un tratto del più vivo rossore.
Credete voi,” riprese il vecchio, abbassando gli occhi, “che Dio ha data alla sua Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere, secondo che torni in maggior bene, i debiti e gli obblighi che gli uomini possono aver contratti con Lui?”

Sì, che lo credo.”
Ora sappiate che noi, deputati alla cura dell’anime in questo luogo, abbiamo, per tutti quelli che ricorrono a noi, le più ampie facoltà della Chiesa; e che per conseguenza, io posso, quando voi lo chiediate, sciogliervi dall’obbligo, qualunque sia, che possiate aver contratto a cagion di codesto voto.”

Ma non è peccato tornare indietro, pentirsi d’una promessa fatta alla Madonna? Io allora l’ho fatta proprio di cuore...” disse Lucia, violentemente agitata dall’assalto d’una tale inaspettata, bisogna pur dire speranza, e dall’insorgere opposto d’un terrore fortificato da tutti i pensieri che, da tanto tempo, eran la principale occupazione dell’animo suo.

Peccato, figliuola?” disse il padre: “peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell’autorità che ha ricevuto da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; e, certo, se mai m’è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli: ora non vedo perchè Dio v’abbia a voler separati. E lo benedico che m’abbia dato, indegno come sono, il potere di parlare in suo nome, e di rendervi la vostra parola. E se voi mi chiedete ch’io vi dichiari sciolta da codesto voto, io non esiterò a farlo; e desidero anzi che me lo chiediate.”

Allora...! allora...! lo chiedo;” disse Lucia, con un volto non turbato più che di pudore.
Il frate chiamò con un cenno il giovine [Renzo], il quale se ne stava nel cantuccio il più lontano, guardando (giacchè non poteva far altro) fisso fisso al dialogo in cui era tanto interessato; e, quando quello fu lì, disse, a voce più alta, a Lucia: “con l’autorità che ho dalla Chiesa, vi dichiaro sciolta dal voto di verginità, annullando ciò che ci potè essere d’inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione che poteste averne contratta.” >>

ALESSANDRO MANZONI

venerdì 17 gennaio 2020

Tra violenza ed empatia

Quando, nel 1886, Robert L. Stevenson pubblicò il suo fortunato romanzo “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, l’antropologia era ancora una scienza giovane e incompleta, ma era già ben chiaro a tutti che nella mente umana si agitano, scontrandosi e sopraffacendosi secondo le circostanze, il principio dell’empatia e quello della violenza.
Oggi abbiamo sicuramente le idee più chiare, grazie anche agli sviluppi delle neuro-scienze, ma l’argomento continua a meritare riflessioni ed approfondimenti, come quello di Marco Pierfranceschi, a cui è dedicato il post di oggi e che ho tratto dal suo eccellente blog, Mammifero Bipede.
LUMEN


<< Di tanto in tanto, inciampo in questioni che non riesco a gestire con le chiavi di lettura fornite dalla narrazione corrente. Nel caso specifico, le esplosioni di violenza incontrollata. E l’esercizio della violenza appare vieppiù biasimevole ed incomprensibile quando avviene nei confronti di soggetti deboli, di norma donne e bambini. (…).

Ancora una volta mi sono rifatto al pensiero di Darwin: cosa è un vantaggio, e cosa uno svantaggio, in termini evolutivi? Il comportamento sociale, quindi l’empatia, la capacità di comprendere, interpretare e fare proprie le emozioni altrui, è evidentemente un vantaggio: consente di formare gruppi, la cui efficacia in termini di sopravvivenza e riproduzione è superiore a quella del singolo individuo.

Ma se la cooperazione è un fattore chiave del nostro successo come specie, la competizione lo è altrettanto perché consente, all’individuo ed al gruppo, di difendersi dalle aggressioni, di sottomettere i ‘competitors’ ed in ultima istanza di accedere ad una maggior quantità di risorse.

Ma, e qui è il punto, come gestire queste due necessità tra loro conflittuali? Come passare dalla cura e l’affetto per il proprio gruppo/tribù alla necessità di combattere senza pietà tribù rivali e potenziali aggressori? Come passare dal ruolo di genitore affettuoso a quella di guerriero spietato?

La spiegazione che mi sono dato è che queste due nature fanno entrambe parte del nostro essere umani, separate da un confine che può essere, a volte, molto sottile. Sia la capacità di provare empatia che quella di non provarne fanno parte del successo evolutivo della nostra specie. E la gestione di questa profonda contraddizione risiede in meccanismi mentali, sviluppati ad-hoc, che possono occasionalmente incepparsi.

Così, per fare un esempio, possiamo essere profondamente empatici con alcune specie animali ‘da compagnia’, e parimenti non-empatici con altre specie animali di cui invece ci nutriamo. Non è raro, nel mondo contadino, che la stessa persona che al mattino gioca con il proprio cane, il pomeriggio sgozzi a mani nude un maiale: entrambi questi comportamenti sono funzionali al suo benessere ed alla sua sopravvivenza.

Se, pertanto, entrambi i comportamenti, empatico e psicopatico, sono vantaggiosi per la specie (o lo sono stati in un passato non troppo lontano, dato che il genoma umano è sostanzialmente immutato da diverse decine di migliaia di anni), la mia personale conclusione è che disporre della capacità di passare dall’uno all’altro rappresenti anch’essa un vantaggio.

Quindi dobbiamo abituarci a ragionare gli esseri umani come individui necessariamente dotati di questa doppia natura, empatica ed an-empatica, in grado di passare senza soluzione di continuità dall’una all’altra se posti in condizioni di forte stress.

Questo significa che chiunque di noi può, in un determinato momento, ‘perdere il lume della ragione’. Perdere, cioè, la capacità di percepire gli altri come simili a sé, finendo col comportarsi da perfetto psicopatico per un ristretto arco temporale. L’assunzione di sostanze psicotrope (droghe o alcol) facilita questa transizione di stato mentale.

Essendo tale capacità, nel contesto odierno caratterizzato da una diffusa socialità, potenzialmente dannoso non solo per l’oggetto della violenza ma anche per il soggetto che la esprima, l’unico suggerimento che si può dare ai singoli è quello di evitare, ove possibile, le situazioni capaci di generare stress elevati. Obiettivo che, di fondo, rappresenta la finalità di molte antiche filosofie orientali, in cui la ricerca della pace interiore attraverso forme di meditazione non ha altro intento se non la riduzione dell’accumulo di stress psicologico.

Dal punto di vista della collettività, se la tesi suesposta dovesse essere confermata da evidenze sperimentali, dovremmo darci modo di diagnosticare la potenziale fragilità di questo confine psichico in specifici individui, per indirizzarli verso stili di vita ‘a basso rischio’. Allo stesso modo i partner dovrebbero poter accedere a queste informazioni cliniche, in modo da poter agire di conseguenza.

Purtroppo la società attuale va in direzione diametralmente opposta, promuovendo forme di insoddisfazione (e quindi di stress) come motore dello sviluppo sociale, alimentando bisogni indotti e generando in forma diffusa situazioni esasperanti, non ultima la guida prolungata di veicoli a motore. Queste condizioni di ‘stress sociale’ si scaricano, in ultima istanza, all’interno dell’unità minima, la coppia o la famiglia.

Non è un caso se le culture a capitalismo avanzato, che più spingono sull’accelerazione di questi fattori di stress, siano anche quelle dove l’uso di sostanze psicotrope sia più elevato, e le esplosioni di violenza irragionevole avvengano su più larga scala.

L’esperimento sociale in cui viviamo immersi da decenni ormai, consistente nell’inurbazione forzata di masse crescenti di individui e nella competizione economica tra diverse nazioni pur in assenza di conflitti espliciti tra le stesse (le guerre), finisce con lo scaricare la distruttività accumulata ed inespressa sugli elementi più deboli della catena: i singoli individui, finendo con l’innescare esplosioni di violenza incontrollata ed insensata proprio in virtù di un meccanismo che, in un lontano passato, ci ha invece aiutato a sopravvivere. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 10 gennaio 2020

Punti di vista - 15

CRUDELTA’
Leggendo Murray Bookchin ho capito questa cosa: noi diciamo che la natura è “crudele”, ma in realtà nella sua apparente crudeltà c’è misericordia, perchè i meccanismi naturali fanno sì che ogni sofferenza sia breve.
L’animale debole o malato viene predato per primo; se è un predatore la morte per fame, per quanto più lenta, arriva presto.
Noi umani, invece, con il peggio (la tortura o la prigionia) e il meglio (la medicina o l’amore) di noi, riusciamo a prolungare anche per lunghissimo tempo la sofferenza.
Forse anche per questo siamo sempre alla ricerca di un senso.
GAIA BARACETTI


NUOVI NAZIONALISMI
E’ sbagliato equiparare i nuovi nazionalismi a quelli fascisti e nazisti del '900.
Questi ultimi furono violenti, espansionistici (imperialistici) "estroflessi e offensivi", mentre gli attuali nazionalismi sono "introversi e difensivi".
I nuovi nazionalismi esprimono un profondo bisogno di sicurezza e protezione davanti alla globalizzazione sfrenata.
La nazione e lo stato nazionale vengono invocati come "rifugio", "scudo protettivo", non solo economico-sociale ma culturale e spirituale.
SOLLEVAZIONE


FORZA DI LEGGE
Da noi, di fronte a qualunque difficoltà, il Parlamento è pronto a votare una nuova legge “che risolverà una volta per tutte il problema”.
Spesso non considerando che esiste già una legge che reca le disposizioni opportune, e che sarebbe stato sufficiente applicare.
In realtà, sarebbe questa la prima cosa da capire: perché non è stata applicata? Magari rimediando poi all’errore. Semplice buon senso.
Gli italiani sono un popolo anarchico, allergico al rispetto della legge, e tuttavia hanno un’idea magica di questo strumento.
Non lo vedono come un semplice comando che avrà efficacia se gli uomini obbediscono, per loro l’unico problema della legge è la sua formulazione, la sua perfezione formale e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Se poi gli uomini non la applicano, sarà compito della magistratura punire i colpevoli. Il Parlamento ha fatto la sua parte.
GIANNI PARDO


LEGGERE A SPEZZONI
Le gravi carenze nella lettura e nella scrittura non sono affatto una novità.
Non si può dire, dunque, che la colpa sia degli smart-phone, dei messaggini o dei social network.
D’altronde, i cosiddetti «nuovi media» hanno avuto e stanno avendo un loro ruolo: quello di creare una sorta di illusione ottica, saturando l’ambiente con una miriade di micro-testi frammentari e atomizzati, sempre più asserviti alle immagini.
Anche la sconfinata disponibilità di banche dati interrogabili ha favorito l’affermarsi di una lettura per spezzoni, contribuendo a modificare almeno in parte i nostri schemi mentali.
Questa destrutturazione, rivolta a intelligenze sempre più abituate a guardare che a leggere, va di pari passo con la progressiva divaricazione tra il nostro quotidiano digitare e lo scrivere testi di una sia pur minima complessità.
GIUSEPPE ANTONELLI


TRASPORTO PUBBLICO
Se non ci fosse trasporto privato, ma solo trasporto pubblico, potremmo percorrere uno stesso tragitto in 10 minuti.
Ma siccome tutti decidono, autonomamente, di acquistare un’automobile privata, allora tra il restringimento delle carreggiate prodotto dalle auto in sosta e l’intasamento prodotto da quelle in movimento si crea una condizione di ingorgo che fa allungare i tempi di percorrenza a 40 minuti per l’auto privata ed un’ora per il mezzo pubblico (penalizzato ulteriormente dalle dimensioni delle vetture e dalla necessità di effettuare fermate).
In questa condizione non c’è modo che il trasporto pubblico venga percepito come vantaggioso, di conseguenza gli utenti continuano a calare, l’introito dell’emissione di biglietti non è più sufficiente a coprire i costi di gestione e le aziende che lo gestiscono entrano in deficit.
MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 3 gennaio 2020

La fine del contante

Della possibile abolizione del denaro contante (e non solo della sua limitazione, come ora) si parla sempre più spesso e la sensazione è che, prima o poi, gli Stati Europei provvederanno veramente a farlo.
Gli scopi dichiarati sono nobilissimi, ma il sospetto che dietro ci sia ben altro è forte.
Proprio su questo argomento ospito oggi – con molto piacere - le riflessioni dell’amico Sergio Pastore, che ci mostra tutti i rischi e le contraddizioni dell’orwelliano progetto. Buona lettura. 
LUMEN


<< “Il complotto per l’eliminazione del Contante” è il titolo di un libro di un economista tedesco, Hans-Jörg Stützle (Das Bargeld Komplott), in cui chiama alla difesa del contante. Con la sua eliminazione scomparirebbe quel che ancora resta della nostra libertà: saremmo alla mercé delle banche e dello Stato che potranno espropriaci e tassare a piacimento, ovviamente con le migliori intenzioni (per es. per salvare i posti di lavoro, per rilanciare l’economia, per far crescere i consumi, insomma: per salvare la patria).

La balla della lotta all’evasione

Innanzi tutto: esiste davvero un complotto che ha per fine l’eliminazione del contante? Come l’ha scoperto l’autore? I complottisti raramente sono noti, operano nell’ombra, all’oscuro, se no che complottisti sarebbero? Ma per quanto cauti le loro azioni non passano sempre inosservate, qualche segno della loro attività può essere avvertito da chi è attento e riflette.

Intanto tutti vediamo che è in corso una lotta aperta al contante con i più vari pretesti (mezzo di pagamento antiquato, persino poco igienico – per i batteri su banconote e monete!). Ma s’insiste soprattutto su un punto: eliminando il contante l’evasione fiscale sarebbe finalmente debellata. Infatti ogni nostra operazione col denaro elettronico sarebbe registrata, anche ordinare un caffè o un gelato! Niente più sfuggirebbe al fisco, il controllo sull’uso del denaro – e sulle nostre vite – sarebbe totale.

Ora, non tutti sanno che il contante costituisce meno del 10% di tutto il denaro circolante: oltre il 90% del circolante è costituito da moneta scritturale o contabile (che chiameremo in seguito per comodità denaro elettronico). Ora che le grandi evasioni avvengano grazie a quel 10% scarso di contante è semplicemente ridicolo.

Ma l’argomento tira e addirittura spopola, specie tra la gente semplice ovvero tra i poveri di spirito. Ma certo: basta con i pagamenti con o senza fattura dell’idraulico e del dentista, questi fior di delinquenti! Tutto sarà sotto controllo, l’evasione sarà se non proprio azzerata almeno drasticamente ridotta. A quel punto lo Stato potrebbe poi addirittura ridurre le tasse perché i miliardi una volta evasi andranno adesso a rimpinguare le sue casse. Ma se allora la lotta all’evasione tramite l’eliminazione del contante è solo un pretesto, qual è il vero motivo della lotta, quali sono le intenzioni celate dei complottisti?

Un’esperienza personale

Con mia non poca sorpresa (sono anch’io una persona semplice e povera di spirito, che non specula in borsa) ho constatato che le banche sono estremamente restie a versare denaro in contanti ai propri clienti.

Quando chiesi (per curiosità e per gioco) 200'000 franchi svizzeri in contanti [ca. 180 mila euro - NdL] fui dapprima deriso e poi minacciato! Siccome insistevo – volevo in fondo soldi miei – alla fine acconsentirono (e che altro potevano fare?), ma fui informato che non avrei poi più potuto depositare questa somma da loro. Oggi infatti le banche esigono di conoscere la provenienza di una somma consistente di denaro: non posso presentarmi allo sportello con una valigetta piena di soldi. È la nuova strategia per la lotta all’evasione (e dàlli!) e al lavaggio di denaro sporco.

Ma perché le banche non danno volentieri contante ai propri clienti? Perché il contante, per quanto costituisca una parte quasi irrisoria del circolante, è per le banche fondamentale. Tutti conosciamo il fenomeno della corsa agli sportelli in caso di crisi di una banca o in seguito a notizie allarmanti sullo sviluppo dell’economia. La gente ha paura e cerca di salvare il salvabile, i propri depositi. Ma a questo punto gli sportelli vengono chiusi e i clienti restano con un palmo di naso (in casi gravi, perderanno i propri soldi per il fallimento della banca).

Ora è chiaro che una banca non tiene in cassaforte miliardi di contante da consegnare ai clienti su loro richiesta. Il contante in cassaforte è per forza limitato, tanto che il prelievo di una consistente somma deve essere prenotato (qui in Svizzera, non so come vadano le cose in Italia). La banca deve procurarsi il contante presso la Banca nazionale o altre banche. Il fatto è che se molti clienti ritirano i propri depositi la banca va in crisi: il suo capitale si riduce. Sembra che bastino pochi punti percentuali di riduzione del capitale per compromettere l’attività della banca. Perciò il fenomeno della corsa agli sportelli è tanto temuto dalle banche.

Solo il contante è reale!

Così titolava la Neue Zürcher Zeitung un suo articolo (Nur Bares ist Wahres!). È evidente che anche il denaro elettronico è denaro vero: posso infatti comprare con esso tutto ciò di cui ho bisogno, anche case e terreni o una flotta aerea. Ma – diciamo così – il contante è in un certo senso più vero e reale di quello elettronico: non per niente le banche se ne disfano così malvolentieri! Eppure stiamo marciando verso l’eliminazione del contante senza che quasi ce ne accorgiamo, anzi persino con sollievo e piacere: ah, com’è pratico pagare con la carta di credito!

La Svezia sarà il primo paese ad aver eliminato il contante senza che nemmeno lo Stato l’abbia abolito ufficialmente (ricordiamo che il contante – banconote e monete – sono tuttora un mezzo di pagamento legale, che non può essere rifiutato da un esercente). Ma in Svezia oggi i commercianti praticano quasi tutti il “cash-free” (niente contanti). Persino le banche fanno le schizzinose se qualcuno vuol depositare o prelevare contanti. La Danimarca ha già comunicato che fra breve non stamperà più banconote. Altri paesi seguiranno. Faccio una profezia: entro il 2025 l’UE avrà abolito il contante. Per lottare contro l’evasione? Balle!

Il vero motivo dell’eliminazione del contante

Una volta sparito il contante tutto il denaro sarà elettronico e rimarrà nel sistema. I pagamenti avverranno tramite trasferimenti bancari. Nessuno più potrà prelevare contante e spenderlo come meglio gli pare senza alcun controllo, cioè liberamente. Tutto sarà sotto controllo (anche se vai a mignotte lo Stato lo saprà).

L’ingenuo o povero di spirito dice: “Ma che m’importa, io non ho niente da nascondere, sono incensurato e non temo nessun controllo o verifica.” Ma il fatto è che i miliardi di dati raccolti tramite i bonifici possono essere manipolati o incrociati in modo errato e l’incensurato risulterà o un critico del regime (“ha versato soldi a Greenpeace o a Amnesty International”, individuo sospetto) o persino un delinquente. È facile immaginare le conseguenze.

L’esproprio e le tasse

Nessuno sa cosa ci riserva l’avvenire. Alcuni parlano di una inevitabile nuova crisi peggiore di quella del 2008. Il futuro è incerto, gli esperti – che non avevano previsto la crisi del 2008 – non sono molto attendibili. Che fine faranno i nostri risparmi in caso di crisi, forse acuta e prolungata? Non pochi tengono perciò i soldi sotto il materasso o in altro luogo sicuro. A dir la verità i soldi sotto il materasso non sono così sicuri: i ladri non scioperano e un incendio potrebbe distruggere tutti i nostri soldi. Le cassette di sicurezza e l’assicurazione costano, e quei soldi non rendono e si svalutano.

Ma meglio soldi svalutati che la perdita di tutto per il fallimento della banca! Non assistiamo già adesso a un parziale esproprio con i tassi negativi (chiamati anche – incredibile - tassi punitivi!)? Punizione di cosa? Di tenere i soldi sul conto corrente invece di investirli, di far girare così l’economia? Eppure la gente tace, accetta i tassi negativi come una fatalità. Quando tutto il denaro sarà elettronico e nel sistema le banche, ma anche lo Stato, potranno prelevare con estrema facilità – qualche clic – i soldi di cui hanno bisogno: per far quadrare i bilanci, per il bene comune, per il salvataggio della patria.

Ma possiamo ancora salvare il contante?

Se lo Stato italiano o altro stato europeo abolisse oggi ufficialmente il contante con una relativa legge ci sarebbe probabilmente un sollevamento popolare, persino in Italia. Lo Stato preferisce che sia l’economia a far sparire il contante: infatti anche lo Stato è interessato alla sua eliminazione per prelevare dai conti qualche tassa straordinaria (ricordate Giuliano Amato?). La gente pian piano si rassegna a pagare tutto con la carta di credito e domani con lo smart-phone obbligatorio per tutti. La scomparsa del contante avviene progressivamente e la gente vi si rassegna, anzi trova i pagamenti con la carta di credito o lo smart-phone così pratici ed eleganti.

I giochi sono dunque fatti, inutile opporsi? Una proposta: usare meno la carta di credito, che oltre tutto induce anche ad acquisti non veramente necessari. È così facile estrarla e comprare tante scemenze che sembrano quasi gratis (invece il conto si riduce). Le banconote e le monete escono invece con attenzione e riserva dal portafoglio, proprio per la loro materialità: sono proprio vere e consistenti, dispiace separarsene! Gli Africani sembrano addirittura più avanti di noi italiani ed europei: pagano già con lo smart-phone. Anche i Cinesi sono all’avanguardia: pagano con un sorriso nello schermo (grazie alla registrazione facciale).

Il nostro autore, Hansjörg Stützle, paga anche le tasse in contanti: si presenta all’ufficio imposte col contante che gli impiegati non possono rifiutare! Passerà per pazzo o scemo, lo manderebbero volentieri al diavolo, ma intanto per il momento devono accettare il contante e fargli la ricevuta. Sarebbe tutto più facile con solo qualche clic, e invece il signor Stützle va a rompere le scatole ad impiegati chissà in che discorsi affaccendati. Diciamolo: questo signor Stützle è un sovversivo, da schedare! >>

SERGIO PASTORE