venerdì 29 gennaio 2021

I limiti del pensiero scientifico - 2

Torno a parlare (dopo poche settimane) dei limiti del pensiero scientifico, il quale, con la sua fredda oggettività, non può competere con le consolazioni offerte dal pensiero ideologico (e religioso in particolare).

Il testo riporta alcune ulteriori considerazioni di Marco Pierfranceschi, sempre tratte dal suo blog, 'Mammifero Bipede'.

LUMEN


<< In una realtà primitiva, la spiegazione più semplice all’esistenza del mondo è immaginare entità sovrumane che, dopo aver creato e modellato l’Universo, amministrano la giustizia e comminano premi e punizioni. La religione nasce per offrire un fondamentale rinforzo dell’istinto di sopravvivenza attraverso l’idea di una vita dopo la morte.

Essa ha la doppia funzione da un lato di disincentivare il suicidio, dall’altro di codificare ed obbligarci ad ottemperare ai comportamenti più idonei al successo del gruppo sociale cui apparteniamo, ivi incluso, ove necessario, il sacrificio di sé per il bene comune.

Con l’avvento della scrittura, nel terzo millennio avanti Cristo, tutte queste complesse teologie finirono nella redazione dei testi sacri, formalizzando un ventaglio completo, seppur variegato, di risposte ai dilemmi umani.

I testi sacri sono la pietra angolare di qualsiasi pensiero religioso. Essendo, per comune consenso, ispirati direttamente dalla divinità, il loro contenuto non è questionabile. I principali sono sopravvissuti fino ai giorni nostri, e le indicazioni da essi fornite sono risultate talmente efficaci da aver accompagnato l’umanità attraverso i lunghi millenni di sviluppo delle civiltà.

Il problema è sorto quando diversi intellettuali, nell’arco di alcuni secoli, hanno iniziato a sviluppare il pensiero scientifico, mettendo in discussione l’attendibilità dei testi sacri. Con molta evidenza, il massimo sapere di culture dell’età del bronzo non poté competere con le conoscenze ed i nuovi strumenti tecnologici sviluppati nell’arco di secoli.

Dapprima Galileo, con l’invenzione del telescopio, dimostrò l’inattendibilità della Bibbia sulle materie astronomiche. In seguito Newton sostituì la narrazione teologica del cosmo con un asettico formalismo matematico, capace di dar conto dei movimenti dei corpi celesti grazie a poche semplici equazioni. Da ultimo Darwin, che spiegò ‘l’origine delle specie’ togliendo alla divinità anche il merito della varietà delle forme viventi.

Il problema, per i religiosi, è che i Testi Sacri devono, per definizione, essere infallibili, essendo emanazione stessa della divinità. Se quanto affermato in un Testo Sacro non risulta coerente con la realtà fattuale, si pongono due eventualità, entrambe spiacevoli: o la divinità ha scelto di mentire all’umanità, il che aprirebbe a scenari poco rassicuranti, o il testo non è emanazione della divinità, e a questo punto risulta delegittimato nella sua interezza.

Il risultato dello scardinamento prodotto dal pensiero scientifico sulle società umane appare drammatico.

Da un lato abbiamo l’affermazione di un pensiero laico, freddo, lucido ed oggettivo, capace di leggere la realtà attraverso strumenti meccanici e non più per mezzo di interpretazioni culturali. Dall’altro si registra il progressivo smantellamento delle credenze religiose, che trascina con se il valore di collante sociale e la ‘stampella psichica’ rappresentata dai modelli culturali veicolati dalle fedi.

Il pensiero scientifico, del suo, non è in grado di svolgere le funzioni di rinforzo degli istinti di sopravvivenza e di collante sociale, per gruppi e comunità, che le architetture cognitive del pensiero religioso avevano fino ad allora espletato. L’istinto di sopravvivenza, come pure le esigenze relazionali, di cui tutti abbiamo bisogno per non soccombere alle difficoltà della vita, non possono essere validate da un’oggettività scientifica, ma unicamente descritte in termini di strutture cognitive.

Ridotto il discorso ai minimi termini: se la fede è in grado di far sentire una persona importante, utile, desiderata, di dargli una collocazione nel cosmo e delle finalità da perseguire, per la scienza quella stesso individuo è solo un generico essere vivente, appartenente ad una specie fra le tante che popolano un habitat qualsiasi, la cui sopravvivenza individuale è totalmente irrilevante. Nulla che possa essere di alcuna utilità al superamento di difficoltà esistenziali oggettive.

Per questo una significativa parte di umanità ha istintivamente rifiutato le conclusioni filosofiche prodotte dalla scienza: finché c’è da approfittare di una nuova macchina o un nuovo strumento sono tutti concordi sulla sua utilità, ma quando si deve affrontare il baratro di un’esistenza finita e priva di significato la mente umana, istintivamente, si tira indietro.

Nel corso del processo mai realmente completato, anch’esso in qualche modo ‘di sostituzione’, del pensiero religioso con quello scientifico, accadono eventi collaterali degni di nota. Il primo è che il pensiero scientifico viene inevitabilmente veicolato per mezzo delle strutture linguistiche preesistenti, intrise di pensiero magico e religioso. Gli scienziati sono obbligati a riutilizzare termini, figure retoriche, esempi e paralleli che rimandano ognuno alle rispettive radici culturali, e risultano per loro natura impropri ed imprecisi.

Il linguaggio della scienza è fatto di formalismi matematici, di relazioni geometriche, di simmetrie, che il linguaggio corrente non è in grado di restituire con efficacia, perché le sue radici affondano nell’esperienza umana e nell’emotività. Nel migliore dei casi si produce una comprensione mediata dall’area linguistica del cervello, e da essa inevitabilmente distorta, nel peggiore dei casi si hanno veri e propri fraintendimenti.

Il secondo effetto, conseguente al primo, è l’originarsi di una serie di ideologie non religiose, che lavorano ad incasellare il pensiero scientifico in una matrice fideistica non esplicita. Tali ideologie rimuovono la figura taumaturgica della divinità sostituendola con ‘ideali’ astratti, un riflesso culturalmente elaborato di alcuni dei nostri istinti primitivi, di fatto mimando le architetture cognitive di tipo religioso non più disponibili a causa della delegittimazione dei Testi Sacri.

Le funzioni delle ideologie, religiose o meno, sono principalmente tre: motivare la nostra esistenza, orientare le nostre azioni e renderci parte di un gruppo sociale solidale. Funzioni essenziali alla nostra sopravvivenza individuale e di conseguenza al nostro successo riproduttivo. Rispetto a ciò, l’aderenza ad una visione oggettiva della realtà appare come una semplice alternativa fra tante, in sé del tutto priva di funzioni sociali e pertanto del tutto accessoria. (…)

[In particolare], una delle componenti chiave dell’efficacia del pensiero religioso, quella legata al sollievo dalla sofferenza psichica causata dal pensiero della morte, non poté in alcun modo essere soddisfatta dalle ideologie laiche, cosa che impedì loro di soppiantare del tutto le fedi preesistenti.

Dovendo scegliere tra una visione laica, priva di una componente umanamente essenziale, e la fede nel sovrannaturale, in molti hanno preferito scegliere di rinunciare all’aderenza alla realtà fattuale professata dal pensiero scientifico.

Non è probabilmente un caso se la corrente religiosa ad aver avuto maggior successo e diffusione, nell’arco temporale seguito alla rivoluzione scientifica, sia stata il cristianesimo protestante, la cui totale decentralizzazione, unita al forte spirito individualista, ha saputo trovare più facilmente un equilibrio con le nuove ideologie filo-scientifiche ed accogliere più facilmente quelle idee ed innovazioni che le grandi religioni organizzate andavano aspramente combattendo. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 22 gennaio 2021

Del celibato ecclesiastico

Qualche tempo fa circolava sul web questa simpatica battuta: “Come si chiama un uomo che sposa un altro uomo ? Prete.”

Oggi, dopo le aperture di legge sulle unioni civili, le cose sono molto cambiate in materia di libertà sessuale, ma il celibato ecclesiastico è rimasto un punto fermo della Chiesa Cattolica.

Il post di oggi è dedicato appunto a questo argomento, che a mio parere, anche solo per motivi culturali, continua a coinvolgere tutta la società nel suo complesso.

Il testo, fortemente critico, è di Antonio Lombatti ed è tratto dal sito dell'UAAR. 

LUMEN


<< La Chiesa cattolica apostolica romana è ancora una monarchia medievale maschile. I vescovi e i cardinali rispondono solo al papa. Sono isolati dalle influenze esterne e provenienti dal basso. Non sono educati alla trasparenza e al processo decisionale, alla discussione dei problemi all’interno delle diocesi o alla consultazione di esperti laici.

Resta molto viva, ancora oggi, la convinzione che il clero costituisca un’élite speciale, sopraordinata alla gente comune in virtù dei poteri discendenti dal ministero sacramentale.

Il Vaticano ha sempre risposto che i propri preti non possono sposarsi perché questa è la tradizione della Chiesa. Ma non è così. Il primo papa, Pietro, era sposato. Sono noti gli apostoli e i fratelli di Gesù con le loro mogli, diaconesse e donne prete, sacerdoti e vescovi coniugati per secoli e, illegalmente, per oltre un millennio. Si conoscono pontefici e le loro mogli o, più spesso, le loro amanti.

Il celibato obbligatorio sacerdotale, istituito nel XII secolo in modo tale da non fare ereditare i beni della Chiesa a mogli e figli del clero, ha conferito ai preti, nel corso dei secoli, un’altissima funzione sociale.

Esso ha determinato complesse dinamiche nei rapporti umani per cui si è creata una vera e propria frattura tra laici e religiosi. Solamente preti, vescovi e cardinali possono diffondere il messaggio di Gesù e, soprattutto, mediare la presenza di Dio tra i fedeli o guidare una persona verso la salvezza eterna.

Quindi, il cattolicesimo ha costruito nei secoli un modello di assoluta dipendenza del credente dal suo prete. Attraverso i secoli, il sacerdote è stato percepito non solo come un’autorità, ma come un essere intoccabile: superiore alla legge degli uomini e non punibile dai tribunali civili.

I credenti si sono sempre sentiti inadeguati verso i preti, incompetenti, intellettualmente e moralmente inferiori. Attorniati da un’aura di prestigio, presbiteri e vescovi sono stati trattati per generazioni e generazioni come agenti speciali di Dio, mediatori tra i comuni esseri mortali e il divino.

Il celibato, infine, ha conferito ai preti un alone magico di potere e spiritualità. I sacerdoti non sposati non erano uomini comuni. (...).

Il celibato obbligatorio nella Chiesa non è un dogma, ma una norma. Infatti, si possono ordinare preti sposati provenienti dalla Chiesa anglicana o in quella cattolica di rito orientale. L’autorità è rappresentata da maschi celibi che parlano di sesso e famiglia, ma si devono comportare contro natura e non avere mogli, figli, né provare amore per una donna.

È importante sottolineare che ogni singolo documento della Chiesa su questioni legate alla sessualità umana è stato scritto da uomini celibi. Perciò, nello scrivere o parlare di sessualità, i preti cattolici devono essere osservatori incorporei. Vivendo in mezzo a persone immerse in relazioni affettive, che sono sposate o convivono, i sacerdoti guardano ciò che gli altri fanno, reprimendo gli impulsi biologici del loro corpo e della loro mente.

Come osservatori incorporei – occhi senza viso – i preti valutano ciò che nelle relazioni sociali è buono o malvagio senza averne la minima esperienza, senza conoscere ciò che stanno giudicando. Non possono capire come la sessualità, il matrimonio o l’avere dei figli aumenti positivamente le relazioni umane e il vivere quotidiano.

Già nel Medioevo, alcuni chierici eruditi, come Pier Damiani, si erano resi conto che negare una moglie ad un sacerdote o impedirgli di vivere la pienezza della vita famigliare portavano al concubinato, alla sodomia, ad abusi su ragazzini e relazioni incestuose. Era solo un’intuizione. Ma san Pier Damiani aveva anticipato i tempi.

E l’incessante legislazione ecclesiastica sugli abusi sessuali del clero dimostra come sia stato un problema diffuso già a partire dal Medioevo.

I documenti provano come la Chiesa abbia cercato di fronteggiare questa piaga. Le citazioni in documenti ufficiali degli abusi sessuali, delle concubine o della sodomia sono la prova inconfutabile dell’esistenza del problema. È, quindi, proprio la legislazione della Chiesa a tradire la vastità del fenomeno.

A dispetto di quasi duemila anni di prove documentate sulle violazioni del celibato ecclesiastico e a fronte di continui, ma infruttuosi e inutili, tentativi ufficiali di debellare il fenomeno, il papato si è opposto anche con Giovanni Paolo II alla riconsiderazione del celibato obbligatorio. (...)

La base scientifica e quella teologica per gli insegnamenti della Chiesa su celibato e sesso sono inadeguate e false.

Qui non si vuole attaccare l’istituto del celibato nel suo complesso. Ci sono persone davvero virtuose pronte a fare scelte difficili e a rispettarle, come quella dell’astinenza dai rapporti sessuali. Ma questa deve restare una libera opzione e non un’imposizione a persone psicologicamente fragili e sessualmente immature.

Come hanno dimostrato gli studi psicologici sul clero di Richard Sipe, i sacerdoti che raggiungono un celibato pieno sono solo circa il 10%.

La Chiesa, purtroppo, continua ancora oggi ad usare la Bibbia, come in epoca pre-
copernicana, per illustrare la sua etica sulla sessualità umana. Ma usare le sacre scritture come base per spiegare celibato e rapporti intimi è come prendere a modello la Genesi per spiegare la formazione dell’universo.

La Chiesa ha riabilitato Galileo, ma non sembra voler ripensare la questione del celibato. >>

ANTONIO LOMBATTI


venerdì 15 gennaio 2021

Conosci Te Stesso

La locuzione «Conosci te stesso» (in greco 'gnōthi sautón'; in latino 'nosce te ipsum') è una delle massime più famose che ci sono pervenute dalla Grecia classica.

L'esortazione viene collegata al dio Apollo, anche se la leggenda non è univoca nell'indicare la sua origine, che potrebbe essere la sacerdotessa Pizia, oppure uno dei 'sette savi' (Talete, Chilone o Biante), oppure un 'oracolo delfico' (quindi Apollo stesso per interposta persona); oppure ancora una scritta riportata sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi, dopo la sua ricostruizione.

Gli studiosi concordano comunque sul significato di questa sentenza, con la quale si ritiene che Apollo volesse intimare agli uomini di «riconoscere la propria limitatezza e finitezza».

Ma il precetto “conosci te stesso” - inteso in un significato più intimo e soggettivo - è un suggerimento prezioso anche in campo psicologico, perchè ci aiuta ad affrontare la vita con più serenità. 

E proprio a questo aspetto è dedicato il post di oggi, tratto dal sito Guida-Psicologi. LUMEN


<< Conoscere se stessi è faticoso e, in alcuni casi, un po’ doloroso, ma solamente così possiamo prendere in mano le redini della nostra vita.

«Prima di pensare a cambiare il mondo, fare le rivoluzioni, meditare nuove costituzioni, stabilire un nuovo ordine, scendete prima di tutto nel vostro cuore, fatevi regnare l'ordine, l'armonia e la pace. Soltanto dopo, cercate delle anime che vi assomigliano e passate all’azione», Platone.

Cosa vedi quando ti guardi allo specchio? Sei contento di ciò che vedi, non solo a livello fisico, oppure ti piacerebbe essere una persona completamente diversa? Sei consapevole di come sei? Conosci te stesso?

Non è così facile rispondere a queste domande, non sempre ci conosciamo abbastanza. Tuttavia, tendere ad una maggiore autocosapevolezza è importante, perché essa porta a migliorare ciò che non ci piace di noi, consentendoci di essere più soddisfatti.

Cosa vuol dire conoscere se stessi?

Vuol dire sapersi fermare, nonostante il ritmo frenetico della vita quotidiana, ed imparare ad ascoltarsi, a leggere dei meandri della propria anima, colei che sa chi siamo, colei che cela i nostri desideri, colei che può indicare il cammino da percorrere.

Anima, psiche, cuore, non importa qual è il nome che attribuisci al nucleo di fondo che ti caratterizza, purché tu possa fermarti e farne intima conoscenza. A volte crediamo di conoscerci, ma ciò che di noi vediamo è solo il riflesso di quello che gli altri pensano e dicono di noi.

Se questo è perfettamente normale nell’infanzia, nell’età adulta è necessario fare i conti con ciò che siamo davvero, guardando cosa si cela veramente dentro di noi o rischieremo di agire per compiacere gli altri, regalando a loro la nostra vita.

«Scopri chi sei e non avere paura di esserlo», Mahatma Gandhi.

La necessità impellente di cambiare può celarsi in un momento faticoso, quando le cose non girano, quando ci sentiamo paralizzati. È questa l’occasione per guardare dentro di sé, evitando di sfuggire all’introspezione, gettandosi su altre attività oppure arenandosi  seguendo i consigli altrui, imitandone le scelte.

Prendersi in mano, avviare una profonda amicizia con se stessi, darsi il tempo di approfondire la conoscenza del proprio nucleo di fondo, operazione faticosa e, in alcuni casi, dolorosa, ma solo così possiamo prendere in mano le redini della nostra vita e imboccare percorsi evolutivi.

«Conoscere la propria oscurità è il metodo migliore per affrontare le tenebre degli altri», Carl Gustav Jung.

Secondo Tasha Eurich, psicologa e autrice del libro “Insight”, quando qualcosa non va per il verso giusto, la maggior parte di noi si pone la domanda sbagliata (“perché”), mentre la domanda che aiuta a fare un passo in avanti è: “che cosa?”.

Invece di chiederci “perché non sono felice a lavoro?”, proviamo a chiederci “cosa posso fare per esserlo?”. In queso modo, saremo in grado non solo di scoprire più elementi su noi stessi ma anche di conoscere le nostre capacità.

Conoscere meglio se stessi vuol dire avere in cambio benefici reali. Quali sono i principali?

Ve li elenchiamo di seguito: sapere con più certezza cosa vogliamo; avere maggior potere decisionale; avere la possibilità di essere più creativi; essere in grado di individuare con più facilità le cause del nostro malessere; migliorare la nostra autostima; migliorare la qualità delle nostre relazioni sociali e personali.

«Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia», Sun Tzu. >>

LUISA GHIANDA

venerdì 8 gennaio 2021

I limiti del pensiero scientifico

Sembra provato che la natura, nel corso dell’evoluzione, ci abbia dotato di una predisposizione agli errori di valutazione, perchè, in certe situazioni (soprattutto ancestrali), ciò determinava un vantaggio evolutivo. Un secondo livello di errori è derivato dalle manipolazioni culturali messe in atto in campo sociale per assicurare il funzionamento della collettività.

Questi limiti nella comprensione del mondo, che restavano evidenti, vennero indagati nei secoli dai filosofi e dai pensatori, in un processo intellettuale culminato nel c.d. ‘pensiero scientifico’. Il quale, però, mentre da una parte facilitava la comprensione oggettiva del mondo, generava una serie di problemi culturali di non facile soluzione.

Di queste contraddizioni ci parla Marco Pierfranceschi nel post di oggi, tratto dal suo blog Mammifero Bipede. 

LUMEN


<< Descritto in maniera rudimentale, il pensiero scientifico afferma che, una volta definiti con precisione tutti gli elementi di un esperimento, questo può essere riprodotto ed il risultato deve essere indipendente dall’osservatore che vi assiste. Questo processo ha lo scopo di individuare gli elementi propri della ‘realtà oggettiva’, separandoli dalle interpretazioni soggettive, arbitrarie e fallaci.

Il pensiero scientifico ha dimostrato una straordinaria efficacia nel consentirci di approfondire la conoscenza del mondo, ed ha favorito un incredibile sviluppo tecnologico. Tuttavia, in quanto pensiero razionale, mal si concilia con l’ambito dell’irrazionale che ancora permea le organizzazioni sociali umane.

Se infatti si possono individuare facilmente meccanismi di causa-effetto nel mondo fisico, altrettanto non è possibile per le scienze umane, perché gli imperativi biologici non hanno né una necessità né un fondamento razionale.

I corpi celesti si muovono in orbite definite dalla propria massa e velocità relative, e non possono fare altrimenti perché regolati unicamente da relazioni fisiche di natura meccanico-gravitazionale. Per contro, l’istinto di sopravvivenza degli esseri viventi non risponde ad alcun obbligo di natura fisico-meccanica, ma discende unicamente dal fatto che i processi evolutivi, e la stessa sopravvivenza, hanno avuto efficacia solo sugli individui che erano portatori di tale istinto.

Il pensiero scientifico può maneggiare con facilità processi fisico-meccanici che hanno cause ed effetti facilmente individuabili, non altrettanto i processi legati alle attività degli organismi biologici, in cui le cause (reali e percepite), gli effetti (desiderati e praticati) e il processo mentale stesso, sfuggono ad un’analisi puntuale.

O, per dirla in altri termini, le informazioni necessarie e a riprodurre l’esperimento sono moltissime ed in larga parte indisponibili ed irriproducibili.

In conseguenza di ciò, mentre abbiamo modelli della materia sufficientemente affidabili da consentirci di costruire macchine straordinarie (pensiamo ai microprocessori, che da strumenti di calcolo e comunicazione sono diventati in pratica estensioni di noi stessi), non abbiamo modelli del comportamento umano tali da consentirci di anticipare le risposte delle diverse collettività all’introduzione di nuovi elementi di natura sociale e culturale.

Per questo manca anche un modello ‘scientifico’ di organizzazione politica condiviso e collettivamente accettato dalle diverse culture umane, ed ogni gruppo sociale sviluppa al proprio interno consuetudini, abitudini e relazioni, di norma mantenendo una piattaforma condivisa per quanto riguarda i comportamenti da tenere in pubblico (il corpus legislativo), e lasciando maggior libertà per quanto avviene nell’ambito privato.

Come già detto, mettere in discussione la cultura di una società umana non è impossibile: si possono ragionare le incongruenze, risalire alle relazioni di causa-effetto e ridefinirle. E tuttavia, più si procede in questa direzione, più ci si allontana dal pensiero collettivamente condiviso, col risultato che diventa vieppiù difficile trasferire ad altri questo tipo di comprensione, perché i nuovi pezzi di ragionamento proposti non si incastrano nelle vecchie architetture cognitive.

Un esempio estremo di questo tipo di situazione è rappresentato dallo sviluppo del pensiero scientifico. Quando Galileo tolse la Terra dal centro dell’Universo, la Chiesa si vide ridimensionata l’importanza della creazione divina (e mise lo scienziato sotto processo).

Quando Isaac Newton descrisse il moto dei corpi celesti in termini di equazioni e campi gravitazionali, sollevò Dio dalla necessità di provvedere al moto della sfera celeste (Newton, per sua fortuna, viveva in Inghilterra). Quando Darwin illustrò i meccanismi biologici che portano le specie viventi a trasformarsi nel corso del tempo, l’intervento divino non apparve più necessario per dar vita alla varietà del ‘creato’.

Togliere a Dio queste incombenze significò rimettere in discussione anche tutte le altre, per non dire la credibilità della Bibbia.

Le evidenze prodotte dagli scienziati sollevarono una domanda scomoda per chi, fino a quel momento, aveva posto Dio al centro dell’Universo, creatore ed artefice dei destini del mondo: se non c’è più nulla che richieda l’intervento divino, a che serve Dio? La chiesa aggiornò l’ambito di competenza della divinità al mondo ultraterreno, nondimeno per gli individui animati da uno spirito religioso questo rappresentò un grosso scossone.

L’avvento del pensiero scientifico obbligò buona parte dell’umanità a ragionare la realtà in maniera completamente diversa da come era stata descritta per secoli dal pensiero religioso. Impose relazioni di causa-effetto al posto dell’arbitrio divino, eliminò ogni tesi a supporto dell’esistenza di una vita oltre la morte, fece tabula rasa di buona parte dell’autorità della casta sacerdotale e del potere, anche temporale, di cui quest’ultima godeva. (...)

Ma non è possibile una reale comprensione reciproca tra persone che non condividono un sufficiente background. Più ci si allontana da quella che è la base culturale condivisa, più faticoso e spesso infruttuoso diventa trasferire nozioni e descrizioni sistemiche a persone che non hanno le strutture mentali adatte ad accogliere ed integrare tali informazioni. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 1 gennaio 2021

Esegesi Biblica – 2

Si conclude qui il post di Ugo Bardi sull'episodio biblico di Tamar e Giuda (seconda e ultima parte). Lumen


<< Questa storia [vedi post precedente - NdL] ha dei buchi di logica così grandi che ci potrebbe passare attraverso una carovana di cento cammelli. Vediamo di spiegare.

In primo luogo, l'idea che una prostituta aspetti i clienti in "un luogo aperto" è già strana. Le prostitute tendono a frequentare luoghi affollati e che una di loro si sieda e aspetti i clienti in un luogo aperto sarebbe pericoloso se incontrasse un cliente disonesto o violento. Nei tempi antichi, le prostitute operavano principalmente nei templi come "ierodule".

Ciò ha dato origine alla leggenda che Tamar fosse una prostituta sacra di qualche culto. Ma le ierodule non erano sacerdotesse, erano solo un servizio fornito dal tempio che garantiva anche la loro sicurezza e che venissero pagate. Lo descrivo in un post precedente. Questo è principalmente un dettaglio, ma uno dei tanti punti deboli dell'intera storia

Secondo, ci viene detto che Giuda "pensava che fosse una prostituta, perché si era coperta il viso". Questo è totalmente assurdo. Nei tempi antichi, le prostitute non si velavano la faccia. Quello era un no-no. Punto. Ecco come discuto questo punto in un post precedente

Secondo Michael Astur (1966), a una ierodula babilonese era severamente vietato indossare un velo e, se lo faceva, era punita severamente. Quindi, come poteva Giuda scambiare una donna velata per una prostituta? Astour, qui, compie un salto di logica davvero acrobatico, notando prima che una donna potrebbe abbandonare il suo status di ierodula e sposarsi e, in questo caso, le sarebbe stato permesso di indossare un velo.
Quindi, supponendo che Tamar fosse stata una ierodula prima di sposarsi, il fatto che lei indossasse un velo poteva essere "un privilegio evidentemente esteso alla vedovanza". Anche se dovessimo concordare su questa pericolosa catena di ipotesi, la spiegazione non ha senso lo stesso. Come poteva Giuda sapere che la donna velata che aveva incontrato era un'ex prostituta quando invece il suo aspetto era quello di una donna sposata?

Terzo, ci viene chiesto di credere che Judah abbia rapporti sessuali con sua nuora che vive nella sua famiglia da almeno alcuni anni e che non la riconosce perché porta il velo (!!).

Ora, questo mi ricorda come Luisa Lane nelle nostre storie di "Superman" è così stupida che non riesce a riconoscere che il suo fidanzato Clark Kent e Superman sono la stessa persona, solo perché Kent porta gli occhiali. Forse Judah non era il paio di forbici più affilate nella cassetta degli attrezzi del tosatore, ma non può essere stato così stupido. Secondo alcune fonti, ha detto che era ubriaco. Sicuro. Proprio.....

Infine, c'è la storia che la presunta prostituta chiede a Giuda un pegno sotto forma del "sigillo, braccialetti e bastone". Questo è un altro no-no: fin dai primi giorni della storia monetaria, le prostitute sono state pagate in contanti. È impensabile che Giuda andasse al mercato di Timnat senza portare con sé almeno un po 'd'argento.

Era lì per tosare le sue pecore, e con cosa avrebbe pagato i tosatori? Quell'argento avrebbe potuto anche essere usato per pagare tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno mentre era lì, compresi i servizi di una prostituta. Che la presunta prostituta, Tamar, avesse chiesto a Judah un tale grado di impegno da lasciare qualcosa che lo rendesse riconoscibile era quantomeno strano, alquanto sospetto.

Allora, come si spiega questa serie di contraddizioni apparentemente irrisolvibili ? (…)

Torniamo all'impasse iniziale: Giuda non vuole dare Tamar a Shelah ma non vuole nemmeno rimandarla dalla sua famiglia. Nel frattempo la moglie di Giuda muore e all'improvviso appare una soluzione ovvia per Giuda: prendere Tamar come moglie. Una buona idea che tiene i soldi a casa e dà comunque a Tamar la possibilità di avere un erede alla famiglia di Giuda.

Inoltre, non è difficile immaginare che una donna in piena fioritura, come Tamar, sarebbe stata attraente per un vedovo, come Giuda. Ma sposarla è legalmente impossibile: Tamar è la promessa sposa di Shelah e per Giuda questo sarebbe visto come adulterio, un peccato grave, punibile anche con la morte.

Ma immaginiamo che Giuda e Tamar abbiano una relazione ben prima della storia di Timnath. Quindi, immaginiamo che Tamar rimanga incinta. Ahia! Grosso problema: ora sono adulteri, peccatori ed entrambi punibili dalla legge. Ovviamente Giuda potrebbe negare di essere il padre del figlio di Tamar, ma ciò condannerebbe Tamar a morte come una prostituta e provocherebbe l'ira della famiglia di Tamar.

Quindi, prima che la gravidanza di Tamar diventi ovvia, viene organizzata una rappresentazione teatrale. Tamar non ha nemmeno bisogno di andare a Timnath travestita da prostituta. Giuda riappare da Timnah senza il suo sigillo, braccialetti e bastone personale, ma nessuno gli chiede cosa ne ha fatto.

Poi c'è la rappresentazione teatrale di inviare un amico a Timnath con una capra per pagare una prostituta, ma ben sapendo che non ce n'è mai stata una nel posto dove si sarebbe dovuta trovare. Quando lo scandalo esplode, il bastone di Giuda e tutto il resto ricompaiono miracolosamente nelle mani di Tamar, dando sostanza a una storia altrimenti incredibile.

Vedete come funziona tutta la storiella? Tamar si è comportata male, ma suo suocero non può punirla perché lei porta suo figlio (in realtà, figli, nasceranno gemelli). Allora Giuda non è un adultero perché non sapeva che stava facendo sesso con sua nuora (ah, già, era ubriaco!!).

I parenti di Tamar, quindi, sono felici perché i figli di Tamar erediteranno la ricchezza di Giuda. E tutti sono talmente felici che nessuno fa caso alle tante incongruenze della storia. L'unico che potrebbe non essere così felice è Shelah, che ha perso il privilegio di essere il figlio maggiore di Giuda perché i figli di Tamar saranno considerati eredi del defunto Er. Ma così è la vita e non puoi avere tutto.

Vedete quanti dettagli si agganciano fra di loro in questa storia affascinante. È così affascinante perché descrive la situazione di persone normali che non erano preoccupate per le grandi cose come la casa di David, ma per la propria sopravvivenza in un momento difficile. E possiamo capire loro e la loro situazione, anche millenni dopo.

Ma il dettaglio più affascinante della storia è il ruolo svolto dal velo. Se non ci fosse stato l'uso per le donne di indossare il velo, Giuda non avrebbe potuto sostenere che non sapeva con chi stava facendo sesso. Il velo ha letteralmente salvato la vita di Tamar e ha assicurato che i suoi figli sarebbero diventati i fondatori della linea davidica della tribù di Giuda. >>

UGO BARDI