mercoledì 28 settembre 2016

L’altro Gesù – 1

Pochi personaggi storici sono sfuggenti ed indecifrabili come Gesù Cristo. Quello che segue è il Gesù ‘alternativo’ di Baigent, Leigh e Lincoln, così come descritto nel famoso e controverso saggio “Il Santo Graal”. Una ricostruzione forse discutibile, ma senza dubbio affascinante. (Il testo, data la lunghezza, è stato suddiviso per argomenti, e verrà postato in tempi diversi). Lumen


<< La vita di Gesù si svolse approssimativamente durante i primi trentacinque anni di una fase di inquietudini, disordini e rivolte che si estese per centoquaranta anni. I disordini non finirono con la sua morte, anzi continuarono per un altro secolo, e generarono il clima psicologico e culturale che accompagna inevitabilmente una sfida prolungata contro un oppressore [l’Impero Romano].

Di questo clima psicologico faceva parte la speranza dell'avvento di un Messia che liberasse il suo popolo dal giogo tirannico (…) Agli occhi dei contemporanei di Gesù, un Messia non sarebbe apparso divino. Per loro, anzi, l'idea di un Messia divino sarebbe stata assurda, se non impensabile.

La parola greca per Messia è Christos, « Cristo ». Il termine, sia in greco che in ebraico, significava semplicemente « l'unto », e in genere si riferiva a un re. Quindi Davide, quando fu unto re come narra l'Antico Testamento, divenne esplicitamente un « Messia » o un « Cristo ». E ogni successivo re ebreo della casa di Davide venne chiamato con lo stesso appellativo. >>


Lo stato civile di Gesù

<< Nei Vangeli vi sono indizi, diretti o indiretti, che facciano pensare che Gesù era sposato? Naturalmente, non vi è mai affermato esplicitamente che lo fosse. D'altra parte, non è mai affermato esplicitamente che non lo fosse: e questo è più curioso e significativo di quanto potrebbe apparire a prima vista.

Come osserva il dottor Geza Vermes dell'Università di Oxford: « Nei Vangeli c'è un silenzio totale per quanto riguarda la stato civile di Gesù. E questo è abbastanza insolito, nell'antico mondo ebraico, per suggerire indagini più approfondite ».

I Vangeli dicono che molti dei discepoli, ad esempio Pietro, erano sposati. E Gesù non predica mai il celibato. Al contrario, nel Vangelo di Matteo egli dichiara: « Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina... Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? » (19:4-5).

Difficilmente questa affermazione si può conciliare con l'imposizione del celibato. E se Gesù non predicava il celibato, non vi è neppure motivo di supporre che lo praticasse. Secondo il costume ebraico del tempo, era non soltanto usuale, ma quasi obbligatorio, che un uomo si sposasse. Se si escludono certe comunità essene, il celibato era vigorosamente riprovato da tutti.

Verso la fine del I secolo, un autore ebreo paragonò addirittura il celibato volontario all'omicidio; e sembra che non fosse il solo a sostenere tale punto di vista. Per un padre ebreo, trovare una moglie al proprio figlio era obbligatorio quanto provvedere a farlo circoncidere.

Se Gesù non fosse stato sposato, questo fatto avrebbe suscitato un notevole scalpore. Avrebbe attirato l'attenzione, e sarebbe stato usato per caratterizzarlo e identificarlo. Lo avrebbe distinto, in modo significativo, dai suoi contemporanei. Se fosse stato così, sicuramente almeno uno dei Vangeli avrebbe fatto cenno a una deviazione tanto netta dalla normale consuetudine.

Se Gesù era davvero celibe come sostiene la tradizione successiva, è straordinario che non vi siano accenni alla cosa. L'assenza di riferimenti in proposito indicherebbe che Gesù, per quanto riguardava il celibato, seguisse le convenzioni dei suoi tempi e della sua cultura: indicherebbe, insomma, che era sposato. Solo questo potrebbe spiegare in modo soddisfacente il silenzio dei Vangeli al riguardo.(…)

Se Gesù si fosse ostinato a rimanere celibe, la cosa avrebbe destato scalpore, una reazione che avrebbe lasciato qualche traccia. Perciò il fatto che nei Vangeli non si parli del matrimonio di Gesù è un valido argomento, non già contro l'ipotesi del matrimonio, bensì a suo favore, poiché la pratica o la propugnazione del celibato volontario, nel contesto del mondo ebraico di quel tempo, sarebbe stata tanto eccezionale da attirare l'attenzione e suscitare commenti.

L'ipotesi del matrimonio diviene ancora più sostenibile grazie al titolo di « Rabbi », « Maestro », che nei Vangeli viene spesso dato a Gesù. È possibile, naturalmente, che questo termine sia impiegato nel senso più ampio, e indichi semplicemente un maestro autonominatosi tale. Ma la cultura dimostrata da Gesù, ad esempio nel dibattito con i dottori nel Tempio, indica che fosse ben più di un sedicente maestro; indica che ebbe una regolare istruzione rabbinica e che era riconosciuto ufficialmente come rabbi.

E questo sarebbe conforme alla tradizione, che presenta Gesù come rabbi nel senso più completo della parola. Ma se Gesù era un rabbi in questo senso completo, il suo matrimonio sarebbe non soltanto verosimile, ma virtualmente certo. La Legge Mishnaica degli Ebrei è esplicita in proposito: « Un uomo non sposato non può essere un maestro ».

Nel Quarto Vangelo c'è un episodio relato a un matrimonio che potrebbe essere appunto quello di Gesù. È l'episodio delle nozze di Cana, decisamente molto noto. Tuttavia, pone certi problemi salienti che meritano un'attenta considerazione.

Secondo il racconto del Quarto Vangelo, le nozze di Cana sembrerebbero una modesta cerimonia locale, un tipico matrimonio di paese, e la sposa e lo sposo restano anonimi. A queste nozze Gesù è specificatamente « invitato », il che è un po' strano, forse, perché non aveva ancora iniziato il suo magistero. Ancora più strano, però, è il fatto che c'era anche sua madre; e la presenza della madre sembra data per scontata. Di certo, non viene spiegata in nessun modo.

Ma c'è di più. È Maria che non soltanto suggerisce al figlio di provvedere ad altro vino ma praticamente glielo, ordina. Si comporta esattamente come se fosse la padrona di casa: « Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù
gli disse: "Non hanno più vino". E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora" » (Giovanni 2:3-4).

Maria, però, per nulla turbata, non bada alla protesta del figlio: « La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà" ». I servitori obbediscono prontamente, come se fossero abituati a ricevere ordini da Maria e Gesù. Sebbene Gesù cerchi di eludere la sua richiesta, Maria ottiene ciò che desidera: Gesù compie il suo primo grande
miracolo, la trasmutazione dell'acqua in vino.

A quanto ci fanno sapere i Vangeli, in precedenza non ha mai mostrato i suoi poteri; e Maria non avrebbe neppure motivo di presumere che li possieda. Ma anche se lo sapesse, perché quei doni, unici e sacri, dovrebbero venire usati per uno scopo tanto banale? Perché Maria dovrebbe rivolgere al figlio una richiesta del genere?

E soprattutto perché due « ospiti » invitati a un matrimonio dovrebbero assumersi la responsabilità di provvedere al necessario, una responsabilità che per tradizione spetta ai padroni di casa? A meno che, naturalmente, le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. In tal caso, sarebbe stato suo compito fornire il vino.

C'è un altro indizio che induce a pensare che le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. Subito dopo il miracolo, « il maestro di tavola chiamò la sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono ». (Giovanni 2:9-10)

Queste parole sembrerebbero chiaramente rivolte a Gesù. Secondo il Vangelo, tuttavia, sono rivolte allo « sposo ». Una conclusione ovvia è che Gesù e Io « sposo » siano la stessa persona. >>

BAIGENT, LEIGH E LINCOLN

mercoledì 21 settembre 2016

Abbiamo trasmesso

Seconda intervista virtuale con il giornalista e politologo Giovanni Sartori, con il quale parleremo di quel grande ed invadente media che è la Televisione, e delle sue potenziali conseguenze antropologiche.
Sull’argomento, Sartori ha scritto un libro molto interessante, intitolato ‘Homo Videns. Televisione e post pensiero”, che è stato così recensito: << Un saggio polemico ed estremamente intelligente, che rivendica la complessità della parola a fronte della video-banalità, della conoscenza a fronte della mera informazione. La domanda di fondo intorno alla quale riflette Giovanni Sartori non può essere elusa: davvero il tele-vedere cambia la natura umana? >> . 
LUMEN


LUMEN – Professor Sartori, anzitutto bentornato.
SARTORI – Grazie.

LUMEN – La televisione fa parte integrante della nostra vita quotidiana, in modo ormai irrinunciabile. Ma pare che abbia un effetto profondo, e potenzialmente pericoloso, sull’uomo. E’ vero ?
SARTORI – Sicuramente sì. La televisione modifica radicalmente ed impoverisce l'apparato cognitivo dell'homo sapiens. Il video sta trasformando l'homo sapiens prodotto dalla cultura scritta in un homo-videns, nel quale la parola è spodestata dall'immagine. Tutto diventa visualizzato.

LUMEN - Della tv ci si lamenta che incoraggia la violenza, oppure che informa poco e male, oppure che è culturalmente regressiva
SARTORI – Verissimo, ma non è solo questo il punto: è che il tele-vedere sta cambiando la natura stessa dell'uomo. Si parte già dai video-bambini. Siamo nel pieno primato dell'immagine.

LUMEN – E dire che le civiltà si sono sviluppate con la scrittura, cioè con il passaggio dalla comunicazione orale, a suo modo visiva, alla parola scritta, simbolica.
SARTORI – Ed infatti la rottura di questo processo, avviene a metà del ‘900, proprio con la televisione.

LUMEN – In che modo ?
SARTORI - Televisione vuol dire vedere da lontano (tele). Il vedere prevale sul parlare, la voce sta in funzione di un'immagine, la commenta. La capacità simbolica distanzia l'homo sapiens dall'animale, il vedere lo riavvicina alle sue capacità ancestrali. Fino all'avvento della TV l'uomo si era potenziato in due direzioni per quanto riguarda il "vedere": sapevamo ingrandire il piccolissimo e sapevamo vedere da lontano. La TV ci consente di vedere tutto senza andarlo a vedere.

LUMEN – Sembra tutto molto bello, facile e comodo.
SARTORI – Sembra, infatti. La TV però sta producendo una permutazione, una metamorfosi che investe la natura stessa dell'homo sapiens. Essa non è solo strumento di comunicazione, ma anche di formazione, uno strumento antropo-genetico, un medium che genera un nuovo ànthropos, un nuovo tipo di essere umano.

LUMEN – Addirittura ?
SARTORI - I nostri bambini guardano la tv per ore e ore prima di imparare a leggere e scrivere. La sua prima scuola è la TV. Il bimbo è una spugna che assorbe e registra indiscriminatamente tutto quel che vede.

LUMEN – Questo è vero.
SARTORI - Gli stimoli ai quali continuerà a rispondere da grande sono quasi soltanto audio-visivi. Si parla di una cultura dell'incultura, un'atrofia e una povertà culturale. Se il costo di una cultura di tutti è il declassamento in una sotto cultura che è poi qualitativamente incultura, allora l'operazione è soltanto in perdita. Un miglioramento che sia soltanto quantitativo non è di per sé un miglioramento.

LUMEN – Senza dubbio.
SARTORI – Certo, la TV svaga e diverte. L'homo ludens, come animale giocoso, non è mai stato tanto accontentato e gratificato in tutta la sua storia; ma questo ovviamente non basta, anzi.

LUMEN – In effetti la quantità di emittenti televisive è in continuo aumento e tutte trasmettono senza sosta 24 ore su 24. Un flusso televisivo di proporzioni spaventose.
SARTORI - L'homo sapiens deve tutto il suo sapere alla sua capacità di astrazione. Quasi tutto il nostro vocabolario conoscitivo e teoretico consiste di parole astratte che non hanno nessun preciso corrispettivo in cose visibili. La natura dell'uomo si impernia su un pensare per concetti, che sono entità invisibili e inesistenti concretamente.

LUMEN – Ma fondamentali, per il progresso.
SARTORI – Infatti, i cosiddetti primitivi avevano un linguaggio in cui primeggiavano le parole concrete. Mentre i popoli avanzati sono tali perché hanno acquisito un linguaggio astratto, un linguaggio a costruzione logica. Tutto il sapere dell'homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis, il mondo dei concetti, che non è in alcun modo il mundus sensibilis, il mondo percepito dai sensi.

LUMEN – La TV invece rischia di riportarci indietro.
SARTORI – Proprio così. La televisione inverte il progredire dal sensibile all'intellegibile e lo rovescia nel cosiddetto “ictu oculi”, in un ritorno al puro e semplice vedere.

LUMEN – Ci rende intellettualmente pigri.
SARTORI – Direi di più: atrofizza la nostra capacità di astrazione. L'idea, scriveva Kant, è un concetto necessario della ragione, al quale non può essere dato nei sensi nessun oggetto adeguato. Quel che noi concretamente vediamo o percepiamo non produce idee, ma si inserisce in idee che lo inquadrano e lo significano. L'homo sapiens con la TV viene quindi soppiantato dall'homo videns. Il linguaggio concettuale viene sostituito dal linguaggio percettivo, che è infinitamente più povero.

LUMEN – Quindi non un passo avanti, ma un passo indietro.
SARTORI – Esattamente. L'uomo che legge è in rapida diminuzione, sia per i libri, sia per i giornali. Non c'è quindi integrazione ma sottrazione.

LUMEN – E le nuove tecnologie informatiche ? Potranno invertire il processo innescato dalla TV ?
SARTORI – Non credo. Le nuove frontiere sono internet e il ciberspazio. Il mondo multimediale, in effetti, è un mondo interattivo e polivalente, ad utilizzazione multipla; ma non c'è ragione di supporre che la TV verrà soppiantata da internet.

LUMEN – Quindi niente potrà fermare la deriva ?
SARTORI – Al momento non mi pare. Un'utilizzazione educativo culturale Internet produce prodotti su misura, ma anche la TV si sta adeguando e frammentando per audience particolari. Il bambino di 3/4 anni comincia comunque con la TV; pertanto quando arriva a internet il suo interesse cognitivo non è sensibilizzato in chiave astraente. L'homo videns è già tale quando si imbatte nella rete.

LUMEN – Questo però non varrà per tutti.
SARTORI – No certo. I veri studiosi continueranno a leggere libri e useranno internet per i riempitivi, per le bibliografie e le informazioni che prima trovavano nei dizionari o nelle enciclopedie. Ma il grosso degli utenti di internet non sarà di questo tipo: continuerà ad essere un homo videns o qualcosa di molto simile ad esso.

LUMEN – In conclusione: televisione sì, ma con (molto) juicio.
SARTORI – Precisamente.

LUMEN - Grazie professore.

mercoledì 14 settembre 2016

Trappola per topi

Ma, per l’umanità, la rivoluzione agricola è stata la scoperta di un mondo nuovo, ricco di benessere e di grandi opportunità, o una trappola senza via d’uscita ?
Juval Harari, l’eccellente storico e saggista israeliano, propende decisamente per la seconda opzione. Ed anche qui, guarda caso, entra in ballo l’aumento incontrollato della popolazione. Da leggere e meditare.
LUMEN


<< Una volta gli studiosi sostenevano che la Rivoluzione agricola rappresentò un grande balzo in avanti per l’umanità. Parlavano del progresso alimentato dalle capacità del cervello umano. Gradualmente, l’evoluzione aveva prodotto individui sempre più intelligenti. Alla fine, gli uomini erano diventati così intelligenti che si sentirono in grado di decifrare i segreti della natura, riuscendo a domesticare le pecore ed a coltivare il frumento.

Appena avvenuto questo, avevano gioiosamente abbandonato la dura, pericolosa e spesso spartana vita del cacciatore-raccoglitore, creando insediamenti stabili per godere la piacevole e saziante esistenza dell’agricoltore.

Pura fantasia. Non c’è alcuna prova che le persone siano diventate più intelligenti col passare del tempo. I cacciatori-raccoglitori conoscevano i segreti della natura molto prima che arrivasse la Rivoluzione agricola, poiché la loro sopravvivenza dipendeva da un’intima conoscenza degli animali che cacciavano e delle piante che raccoglievano.

Invece di annunciare una nuova era di agi, la Rivoluzione agricola fece sì che gli agricoltori avessero un’esistenza generalmente più difficile e meno soddisfacente di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi passavano il loro tempo in modi più stimolanti e variati, e correvano meno rischi di patire la fame e le malattie.

La Rivoluzione agricola certamente ampliò la somma totale di cibo a disposizione dell’umanità, ma le derrate supplementari non si tradussero in una dieta migliore o in una vita più comoda. Piuttosto, si tradusse in esplosioni demografiche e nella creazione di élite viziate. L’agricoltore medio lavorava più duramente del cacciatore-raccoglitore medio, e per di più aveva una dieta peggiore. La Rivoluzione agricola è stata la più grande impostura della storia.

Chi ne fu responsabile? Né re, né preti, né mercanti. I colpevoli furono una manciata di specie vegetali, compreso il frumento, il riso e le patate. Furono queste piante a domesticare l’Homo sapiens, non viceversa.

Si pensi per un momento alla Rivoluzione agricola dal punto di vista del frumento. Diecimila anni fa, il frumento era un’erba selvaggia, confinata in una zona piuttosto limitata del Medio Oriente. Improvvisamente, nel giro di qualche millennio, esso cresceva in tutto il mondo. Secondo i princìpi evoluzionistici basilari di sopravvivenza e di riproduzione, il frumento è diventato una delle piante di maggior successo nella storia della Terra. (…) Come fu che quest’erba diventò, da insignificante, a ubiqua ?

Il frumento ci riuscì manipolando l’Homo sapiens a proprio vantaggio. Questa scimmia, diecimila anni fa, stava vivendo una vita tutto sommato confortevole, cacciando e raccogliendo; ma poi cominciò a investire sempre più impegno a coltivare il frumento. Nel giro di un paio di millenni, in numerose parti del mondo, gli umani, dall’alba al tramonto, ormai facevano poco altro, a parte prendersi cura delle piante di frumento.

Non era una cosa facile. Il frumento richiedeva che fossero in tanti a occuparsene. Il frumento non amava i sassi e il pietrisco, così i Sapiens si spezzarono la schiena a ripulire campi. Il frumento non amava spartire con altre piante il suo spazio, la sua acqua, le sue sostanze nutritive, così gli uomini e le donne lavoravano durante lunghe giornate, sarchiando il suolo sotto il sole bruciante.

Quando il frumento si ammalava, i Sapiens dovevano stare attenti a tener lontane larve ed epidemie. Il frumento era senza difesa da altri organismi che amavano mangiarlo, dai conigli agli sciami di locuste, così gli agricoltori dovevano tenerlo sotto osservazione e proteggerlo. Il frumento aveva sete, così gli umani fecero scorrere l’acqua dalle fonti e dai ruscelli per abbeverarlo. La sua fame costrinse inoltre i Sapiens a raccogliere le feci animali per nutrire il terreno in cui cresceva.

Il corpo dell’Homo sapiens dovette evolversi in funzione di questi compiti. Si era adattato a salire sugli alberi di melo e a correre dietro alle gazzelle, non a raschiare i sassi dal terreno e a portare secchi d’acqua. Ne pagarono il prezzo la spina dorsale, le ginocchia, il collo, le arcate dei piedi. Gli studi condotti sugli antichi scheletri indicano che il passaggio all’agricoltura produsse una quantità non indifferente di malanni, come l’ernia del disco, le artriti e le ernie inguinali.

Inoltre, le nuove incombenze imposte dall’agricoltura richiedevano così tanto tempo da costringere la gente a sistemarsi permanentemente vicino ai propri campi di frumento. Questo trasformò completamente i modi di vita. Non fummo noi a domesticare il frumento. Fu lui che domesticò noi. Il termine “domesticare” viene dal latino domus, cioè “casa”. Chi vive nella casa? Non il frumento. È il Sapiens.

Come fece il frumento a convincere l’Homo sapiens a cambiare un tipo di vita piuttosto buono con un’esistenza più miserabile? Cosa offrì in cambio? Una dieta migliore, no di certo. Gli umani, va ricordato, sono scimmie onnivore, a proprio agio con un’ampia varietà di cibi. Prima della Rivoluzione agricola, le granaglie provvedevano solo a una piccola frazione della dieta umana. Una dieta basata sui cereali è povera di minerali e di vitamine, comporta una difficile digestione ed è deleteria per i denti e per le gengive.

Il frumento non conferì sicurezza economica alla gente. La vita dei contadini è meno sicura di quella dei cacciatori-raccoglitori. Questi ultimi, per sopravvivere, potevano contare su decine di specie, e superare quindi gli anni difficili anche senza scorte di cibo. Se si riduceva la disponibilità di una data specie, potevano raccoglierne e cacciarne tante altre.

Fino a tempi molto recenti, le società agricole si affidavano a una varietà assai modesta di piante domesticate per la maggior parte delle calorie da assumere. In molte zone potevano contare su un singolo prodotto, come il frumento, le patate o il riso. Se non cadevano le piogge, se arrivava uno sciame di locuste o se un fungo infettava quel dato prodotto, i contadini morivano a migliaia e a milioni.

Il frumento non servì neanche ad allontanare le guerre. I primi agricoltori furono altrettanto violenti dei loro antenati cacciatori-raccoglitori, se non di più. Gli agricoltori dovevano possedere più cose e avevano bisogno di terra. La perdita di un pascolo preso da vicini incursori poteva costituire la differenza tra la sussistenza e la fame nera, ragion per cui non c’era molto spazio per il compromesso.

Quando un gruppo di cacciatori-raccoglitori subiva dure pressioni da un gruppo rivale più forte, di solito andava via. Era una cosa difficile e pericolosa, ma era fattibile. Quando un nemico temibile minacciava un insediamento agricolo, la ritirata voleva dire rinunciare a campi, abitazioni e granai. In molti casi, ciò condannava i profughi alla fame. Gli agricoltori, quindi, cercavano a tutti costi di restare ai loro posti e di combattere fino all’ultimo.

Molti studi antropologici e archeologici dimostrano che nelle rozze società agricole senza strutture politiche, al di là del villaggio e della tribù, la violenza umana era responsabile del 15 per cento circa delle morti. (…) Col tempo, la violenza umana venne posta sotto controllo attraverso lo sviluppo di strutture sociali più ampie, le città, i regni, gli stati. Ma ci vollero migliaia di anni per creare tali enormi ed efficienti strutture politiche.

Certamente, la vita di villaggio portò ai primi agricoltori alcuni benefici immediati, come una migliore protezione contro gli animali selvaggi, la pioggia e il freddo. Ma per l’individuo medio, gli svantaggi probabilmente superavano i vantaggi. Per le società prospere di oggi, è una cosa difficile da capire.

Poiché noi godiamo di opulenza e di sicurezza, e poiché queste ultime sono costruite sulle fondamenta gettate dalla Rivoluzione agricola, tendiamo a presumere che la tale rivoluzione abbia costituito un miglioramento meraviglioso. Tuttavia è sbagliato giudicare migliaia di anni di storia dalla prospettiva di oggi. (…)

Cosa offrì dunque il frumento agli agricoltori ? (…) Non offrì nulla ai singoli individui, ma assegnò qualcosa all’Homo sapiens come specie. Coltivare frumento consentì di disporre di più cibo per unità di territorio, e quindi consentì all’Homo sapiens di moltiplicarsi in misura esponenziale.

Intorno al 13.000 a.c., quando gli umani si cibavano raccogliendo piante selvagge e cacciando animali selvaggi, l’area intorno all’oasi di Gerico, in Palestina, poteva ospitare, al meglio, un gruppo itinerante di circa cento persone, relativamente in salute e ben nutrite. Intorno all’8.500 a.c., quando le piante selvagge lasciarono il posto ai campi di grano, l’oasi ospitava un ampio ma affollato villaggio di mille persone, che dovevano fare i conti con malattie e malnutrizione.

L’evoluzione non bada né alla fame né alla sofferenza, ma solo a quante eliche del DNA riesce a replicare. Allo stesso modo in cui il successo economico di un’azienda viene misurato solo dalla quantità di dollari nel suo conto corrente e non dalla felicità degli impiegati, così il successo evoluzionistico di una specie si misura col numero delle copie del suo DNA.

Se non restano più copie del DNA, la specie è estinta, così come l’azienda senza soldi fallisce. Se una specie vanta molte repliche del DNA, questo è un successo e la specie prospera. Guardando la cosa da questa prospettiva, mille copie del DNA sono meglio di cento copie. Sta qui l’essenza della Rivoluzione agricola: la capacità di mantenere in vita più gente in condizioni peggiori.

Ma perché gli individui dovrebbero badare a questi calcoli sul meccanismo dell’evoluzione ? Perché mai una persona sana di mente vorrebbe abbassare la propria qualità di vita giusto per moltiplicare il numero di copie del genoma dell’Homo sapiens ? A queste condizioni nessuno sarebbe stato d’accordo: la Rivoluzione agricola fu una trappola. > >

JUVAL HARARI

mercoledì 7 settembre 2016

Pensierini – XXVI

MORALE ED EVOLUZIONE
Anche se le regole morali derivano – in linea generale – dalle convenzioni culturali delle singole società umane, l'evoluzione è riuscita ad inserire nei nostri circuiti neurali alcuni principi basilari che dovrebbero valere per tutti.
Si tratta, da quello che ho letto, della compassione per la sofferenza altrui (soprattutto di familiari e vicini), del senso di giustizia (equità negli scambi) e del principio di reciprocità sociale (punizione per i comportamenti scorretti).
Purtroppo anche questi valori, pur essendo in dotazione alla grande maggioranza delle persone, non sono per tutti.
Ne sono privi, infatti - per una serie di motivi che solo la neuro-chimica può spiegarci - i cosiddetti sociopatici, i quali possono pertanto dedicarsi ad attività criminali o a comportamenti crudeli, senza nessuna remora.
LUMEN


AUTOSTIMA
Tra le cose importanti per vivere bene c’è anche, indubbiamente, l'autostima, che ci consente di avere una buona opinione di noi stessi.
L’autostima, però, si poggia sul raggiungimento dell'eccellenza, e l'eccellenza, per definizione, non può essere raggiunta da tutti,
Come si può fare, allora ? Si può provare con l’eccellenza selettiva.
Ci si concentra su una attività specifica, che sia in sintonia con i propri interessi (quindi anche un hobby va bene), la si approfondisce sino a diventarne padroni, e poi la si usa come fonte di autostima.
In questo modo, l’autostima non rimane un privilegio di pochi, ma un obiettivo che può essere alla portata di (quasi) tutti.
LUMEN


PAGARE IL DEBITO
Si sente spesso dire, quando un reo viene scarcerato per fine pena, che quel tale è ritornato un uomo libero, un comune cittadino, in quanto “ha pagato il proprio debito con la società”.
La frase, lì per lì, suona bene, ma ad esaminarla in profondità fa venire i brividi.
Sarebbe come dire che se uno è disposto a farsi tot anni di carcere, per ciò stesso ha acquisito il diritto di commettere quel certo reato.
Una specie di ‘do ut des’, un pari e patta, dopo il quale sono tutti contenti (salvo forse la vittima).
Il debito lo si paga nelle controversie civili, dopo di che, giustamente, tutto è finito. Ma il diritto penale è una cosa diversa, molto diversa.
LUMEN


PROVA ONTOLOGICA
Uno dei più celebre argomenti per dimostrare “a priori” l'esistenza di Dio è la cosiddetta “prova ontologica” di Sant’Anselmo d'Aosta.
Anche chi nega l'esistenza di Dio - dice Anselmo - ammette che Dio sia l'ente del quale non è dato pensare un ente maggiore.
Ma di conseguenza si deve ammettere anche la sua esistenza, perché altrimenti si potrebbe pensare un ente che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza; questo ente sarebbe pertanto maggiore di Dio, il che non è possibile.
Il ragionamento ha un certo fascino, ma si scontra con la dura realtà che ci insegna che tutto ciò che esiste è necessariamente imperfetto, quindi non “superiore”, ma bensì “inferiore” a ciò che non esiste.
Ergo, se Dio è l’essere supremo perfettissimo, necessariamente non può esistere.
LUMEN


SISTEMA FINANZIARIO
Nella categoria dei sistemi complessi, il sistema finanziario è uno dei più facilmente inclini al collasso.
Dice Ugo Bardi: << Molti sistemi biologici e sociali hanno sistemi interni per gestire le emergenze e contrastare le perturbazioni esterne che potrebbero mandare il sistema fuori equilibrio.Nei sistemi biologici abbiamo, per esempio, il sistema immunitario. Nei sistemi sociali abbiamo l'esercito, i pompieri ed altri. Ma il sistema finanziario non ne ha nessuno, perlomeno nessuno che sia integrato nel sistema. >>
Aggiunge C.H. Smith: << Gli economisti convenzionali sono completamente ciechi rispetto alla fragilità del sistema. Non c'è alcuna formula econometrica del culto keynesiano che misuri la fragilità sistemica, quindi semplicemente è qualcosa che non esiste all'interno dell'economia convenzionale. >>
Ne consegue che la stabilità del sistema è solo provvisoria e la sua caduta può essere molto rovinosa.
LUMEN