sabato 30 giugno 2018

Il pianeta malato

La vittima di questa intervista virtuale è il sociologo ed ambientalista Bruno Sebastiani, che ci parlerà del suo ultimo libro “Il cancro del Pianeta”, edito da Armando Editore.
Le affermazioni di Sebastiani, così come le domande, sono tratte (con modestissime variazioni) dal blog Veritas Vincit. 
LUMEN


LUMEN – Dottor Sebastiani, qual è l’idea fondamentale del vostro libro ?
SEBASTIANI – La teoria centrale su cui si fonda il mio saggio è che la Terra è ammalata di cancro e che noi uomini siamo le cellule impazzite di questo tumore. L’origine della malattia risiede nelle nostre accresciute capacità cerebrali che nel corso dei secoli ci hanno spinti a depredare il pianeta in modo sempre più violento.

LUMEN - Non vi sembra un po’ esagerato definire la specie umana “cancro del Pianeta” ?
SEBASTIANI - Indubbiamente l’affermazione è un po’ forte. In un passo del libro, a pag. 25, scrivo: “Il paragone è assolutamente forzato per tutta una serie di elementi che non mi metto neppure ad elencare, tanto sono di per sé evidenti. Ma ciononostante, come vedremo, anche le analogie sono veramente tante, al punto da meritare una seria riflessione su ciò che stiamo facendo e su dove stiamo andando.” Ecco, la definizione che dà il titolo al libro va presa proprio in questi termini: forse noi, io, lei e tutta l’umanità, non siamo cellule tumorali stricto sensu, ma l’analogia, fondata su tutta una serie di similitudini analiticamente descritte nel testo, giustifica la denominazione, la quale, oltretutto, ha il pregio di avere un forte impatto mediatico e di attirare l’attenzione del lettore.

LUMEN – Senza dubbio.
SEBASTIANI - Questo è proprio l’obiettivo che mi ero prefisso nello scrivere il saggio: attirare l’attenzione dell’uomo comune sugli squilibri che la nostra specie ha provocato in un tempo brevissimo ai danni di un ecosistema planetario stabile da centinaia di milioni di anni. E, rispetto al pensiero di tanti altri che hanno denunciato l’opera nefasta dell’uomo, io ho tentato anche di individuare l’origine della “malattia”, la cosiddetta “carcinogenesi”: per me essa risiede nell’abnorme evoluzione subìta dal nostro cervello nella notte dei tempi. Poco alla volta, senza che nessuno lo volesse, il nostro “organo di comando” ha preso a crescere, sia dimensionalmente sia quanto a “potenza elaborativa”, sino a quando è stato in grado di contravvenire alle leggi di natura, di farci assumere comportamenti “artificiali”. Abbiamo addomesticato il fuoco, abbiamo cominciato a mangiare cibi cotti, a lavorare le pietre e così via, sino a partorire le invenzioni che hanno reso possibili la rivoluzione industriale e la nascita dell’informatica, dei computer, di internet e così via. Il tutto ai danni degli altri esseri viventi, piante e animali, che abbiamo sottomesso brutalmente proprio come fanno le cellule tumorali nei confronti delle cellule sane nel corpo dell’ammalato. E non è un’attività tumorale questa?

LUMEN - Se il genere umano è simile a una cellula tumorale, come la si può curare ? E non è solo la stessa umanità che può curare sé stessa ?
SEBASTIANI - Non ogni strada imboccata dall’evoluzione è favorevole al mantenimento della vita. E quando la natura innesca – per motivi a noi ignoti, forse unicamente dipendenti dal caso – un processo “destabilizzante”, prima o poi tende a neutralizzarlo. In pratica attiva meccanismi simili a quelli degli anticorpi che entrano in azione negli organismi viventi per bloccare le aggressioni di virus e agenti patogeni esterni. Ma in questo caso la lotta insorge tra organismi contrapposti. Ciò che è accaduto alla nostra specie è diverso. Ci siamo lentamente evoluti in modo tale da assumere comportamenti in contrasto con quelli suggeriti dalla natura e, ciò che è peggio, della nostra superiorità intellettuale abbiamo fatto un vanto, il maggior vanto della nostra specie. Abbiamo persino scomodato presunti esseri superiori per accreditare la legittimità del nostro predominio sull’intero orbe terracqueo.

LUMEN – Già, ci siamo inventati anche gli dei e la religione.
SEBASTIANI – Ora mi chiedete: posto che noi si sia cellule tumorali, chi può curarci se non noi stessi? Potrei risponderle affermativamente, ma è la premessa il punto debole della domanda. Io sono convinto che l’uomo sia il cancro del pianeta, parecchi altri lo sono, ma la gran parte dell’umanità non lo è. Come si può immaginare che l’uomo modifichi i propri atteggiamenti distruttivi nei confronti dell’ambiente se in gran maggioranza approva tali comportamenti e gode dei vantaggi che gli procurano? Ecco dunque che il primo passo da compiere è quello di rendere l’essere umano consapevole della sua opera nefasta nei confronti della Natura. A tal fine ho già scritto un secondo saggio, ancora inedito, dal titolo provvisorio de “Il Cancro del Pianeta Consapevole”.

LUMEN – Certo, la consapevolezza è importante e rappresenta, senza dubbio, il primo passo da compiere.
SEBASTIANI – Ma, mi chiedo, se per un improbabile evento miracoloso l’intera umanità si rendesse conto che il tanto decantato progresso l’ha sospinta in un vicolo cieco, allora sarebbe possibile porre in atto opportuni rimedi ? Qui il discorso si fa complesso. L’uomo dovrebbe ammettere che la sua superiorità intellettuale gli ha consentito di scardinare i delicati equilibri della natura, ma non è tale da consentirgli di ricrearli. Nel frattempo egli ha fatto tabula rasa del vecchio stato di cose ed ha costruito un Impero basato sul dominio della tecnica, che presto diverrà insostenibile per le risorse del pianeta. Anche di fronte ad una consapevolezza globale della gravità della situazione (del tutto ipotetica) sarebbe assai difficile trovare la cura efficace. A tale argomento mi sto dedicando in questi mesi nel terzo saggio che ho iniziato a scrivere (titolo provvisorio: “L’Impero del Cancro del Pianeta”).

LUMEN - Il suo libro vuole essere uno choc, un pugno nello stomaco per la grande maggioranza inerte e consumista della popolazione, ma l’uomo può essere solo un cancro o può riuscire a salvare da se stesso il nostro pianeta?
SEBASTIANI - Credo di aver già risposto in parte a questa domanda. La situazione è estremamente aggrovigliata. Noi, uomini occidentali del ventunesimo secolo, viviamo oggi all’apice della storia. Godiamo di immensi privilegi. Ma cominciano le avvisaglie che la festa sta per finire. Sulle nostre coste sbarca un esercito di diseredati che reclama anche per sé quel benessere che ostentiamo spudoratamente dai teleschermi. Per secoli abbiamo soggiogato non solo la natura, ma, con lo schiavismo e il colonialismo, anche i nostri consimili, che ora vorrebbero por termine a questo stato di cose. Dall’altra parte del mondo una nazione immensa e sovrappopolata, la Cina, si è incamminata anch’essa a passi rapidi sulla via dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali e del consumismo. Come si può pensare che il nostro pianeta possa sopportare ancora a lungo un depauperamento così intensivo della natura, livelli di inquinamento sempre crescenti, cambiamenti climatici e surriscaldamento indotti in modo forsennato dalle attività antropiche?

LUMEN – Ma è possibile modificare questo stato di cose ?
SEBASTIANI - L’intelligenza umana, che ci ha condotto all’apice della storia ma anche sull’orlo del baratro, potrà salvare la vita sul pianeta ? I fautori del progresso a tutti costi, che negano l’emergenzialità della situazione (i cosiddetti “negazionisti”), vogliono far credere che nuove scoperte, nuove invenzioni, ci consentiranno di mantenere e di migliorare il nostro tenore di vita (e poco importa se ciò avverrà ai danni della natura e degli altri esseri viventi del pianeta, in gran parte già estinti a causa nostra). La mia visione è opposta. L’uomo gode delle distruzioni effettuate esattamente come le cellule cancerogene di un tumore maligno possono godere del male arrecato alle parti sane dell’organismo in cui vivono, sino a che l’organismo defunge e con esso anche le cellule malate. Ecco, alla fine di tutto il pianeta resterà senza forme di vita superiori, poi lentamente si riprenderà.

LUMEN – Questo lo penso anch’io.
SEBASTIANI - Se le condizioni ambientali poco alla volta, milione di anni dopo milione di anni, torneranno ad essere favorevoli allo sviluppo della vita, questa lentamente rinascerà, non sappiamo quando e in che forma. Non sarà il nostro mondo, che avremo rovinato per sempre. Ma non dobbiamo ritenerci tanto importanti e potenti da essere in grado di impedire alla natura di riprendere il suo corso, e chissà che la prossima volta si guardi bene da innescare quel processo maligno che ha fatto del nostro cervello l’origine di tutti i mali.

LUMEN – Grazie per la chiacchierata.
SEBASTIANI – Grazie e voi.

sabato 23 giugno 2018

Ascesa e caduta degli imperi

Alcune interessanti considerazioni di Amedeo Maddaluno sull’ascesa e la caduta dei grandi imperi, tratte dal sito di Aldo Giannuli. 
LUMEN


<< Non sarà Donald Trump a causare la caduta dell’Impero Americano, come non furono Commodo o Massimino il Trace a causare la caduta di quello Romano o ancora Gorbacev a causare quella dell’Impero Sovietico. Non da soli, almeno. Per quanto singole scelte errate di singoli governanti fungano da facilitatori, catalizzatori e acceleratori di processi storici, questi ultimi sono dati da prospettive assai più lunghe, complesse, strutturali e non congiunturali.

Nella fattispecie – per quanto riguarda cioè gli imperi e le forme statuali di natura “imperiale” – la caduta (o, più propriamente nel caso degli Stati Uniti, il declino) è causato da alcuni fattori che la storiografia, l’economia e la scienza strategica individuano ormai con buona approssimazione.

Per fare un sunto della letteratura degli ultimi decenni sul tema, a partire dal fondamentale saggio “Ascesa e declino delle grandi potenze” di Paul Kennedy, gli studi di economisti della scuola di economia istituzionalista contemporanea (per citare un autore tra i tanti, Daron Acemoglu), di polemologi come Edward Luttwak ma anche di ottimi studiosi italiani come Giovanni Arrighi (…), il declino delle grandi potenze si può ricondurre alla problematica della “sovra-estensione”. (…)

Gli imperi sono condannati ad espandersi dalla loro stessa natura: e la loro crescita li porta in contatto con nemici, avversari e concorrenti sempre nuovi con cui bisogna battersi, ora per ragioni difensive e di sicurezza ora per velleità di conquista.

L’economia imperiale stessa si regge sulla guerra, sulle conquiste, la potenza della moneta dell’impero (dalla quantità d’oro razziato o ottenuto coi commerci in un vastissimo spazio che i romani potevano fondere, al dollaro come moneta globale) si basa sulla sua potenza militare che a propria volta si fonda sulla ricchezza dell’impero.

Un impero non può scegliere coscientemente di chiudersi al mondo, pena l’asfissia: è quello che accadde all’Impero Cinese della dinastia Ming, chiusosi in un delirio ideologico reazionario per tutelare la casta dei mandarini, delirio culminato col divieto di navigazione nell’oceano – scelta che contribuì a condannare la prima economia globale del tempo ad un inarrestabile declino. (…)

Ogni impero raggiunge nel proprio ciclo storico un picco di estensione politica, militare, in definitiva geografica e strategica, oltre il quale i costi – militari, umani e finanziari – del mantenimento del regime imperiale superano i benefici, quantomeno quelli percepiti da una popolazione stanca delle continue guerre e conquistata dal benessere.

Gli immigrati, cui romani ed americani spalancano le porte, portano sì nuove energie e la necessaria fame, ma anche forti problemi di integrazione, che sono un altro contributo, sul lungo periodo, alla disgregazione sociale degli imperi stessi. La corrente economicistica spiega tutto con il classico “dilemma del burro e dei cannoni”: ad un certo punto, l’impero cessa di essere efficiente nell’allocare risorse tra l’espansione esterna e il benessere interno.

All’impero sovietico accadde dopo nemmeno un secolo di storia, a quello americano comincia forse ad accadere ora ? La corrente istituzionalista è un po’ meno determinista e pone l’accento sul degrado delle istituzioni partecipative: in tutti gli imperi si consolidano caste economiche che mirano a costituirsi come gruppo chiuso inibendo la mobilità sociale e le energie creative della società, spostando l’economia da produttiva ad estrattiva/speculativa (quello che successe agli imperi mercantili veneziano e britannico).

In tutto questo (…) Trump è un effetto e non una causa: un effetto della stanchezza imperiale della classe lavoratrice e operaia e della classe media bianca (spesso coincidenti nel paese) per lo sforzo bellico sostenuto dalle precedenti presidenze Clinton e Bush e per la percepita perdita di potere, influenza e peso demografico a causa degli immigrati e della popolazione nera.

Le amministrazioni Clinton e Busch sono però l’architrave della nostra riflessione: “l’arroganza unipolare” americana, l’illusione della fine della storia e dell’eternità della condizione di unica potenza hanno condotto gli Stati Uniti ad una serie di avventure militari espansive teoricamente sensate dal punto di vista geopolitico – occupazione di bacini petroliferi, chiusura della Russia nei margini nordici dell’Eurasia – ma disastrosi nel conseguente dispendio umano e finanziario nonché nella rottura di consolidati equilibri strategici.

Oggi l’America si ritrova con una Russia risorgente e compattata al proprio interno dalle mosse americane in Ucraina e nell’ex-Jugoslavija, un Iran quasi padrone del Medio Oriente e una Cina in compiuta ascesa, nonché con gli alleati europei e turchi sempre più insofferenti all’interventismo a stelle e strisce.

Il disastro finale per il paese di George Washington sarebbe però solo uno: la perdita del dollaro come valuta globale, quel che non si vede all’orizzonte, per l’insipienza europea nel gestire la crisi dell’Euro e per la non ancora completa affermazione dello Yuan cinese.

I cinesi hanno appreso bene la lezione americana, sono riluttanti a cadere nella trappola della sovra-espansione e a giocare un più assertivo ed espansivo ruolo internazionale. Preferiscono la penetrazione mercantile a quella militare e politica, quel che potrebbe forse rallentare ma forse non inibire un futuro ruolo se non di predominio dello Yuan quantomeno di sua pari dignità col dollaro. Il declino relativo dell’Impero Americano è un fatto cui assistiamo già oggi: gli USA non sono più i signori incontrastati del pianeta.

La Caduta dell’Impero americano non è però un fatto prevedibile nel medio termine, giacché questi mantengono due enormi vantaggi. In primis quello tecnologico (…); in secundis, quello geopolitico. Già, la geografia e la geopolitica, troppo spesso ignorate da economisti e sociologi ma ben note ai militari e a molti storici (soprattutto quelli della scuola francese!).

L’America è un’isola, e non ha nemici via terra. Può dedicare le proprie risorse tecnologiche e militari non al controllo di un territorio, ma delle infrastrutture di collegamento tra i territori: i mari (con la flotta militare più potente della storia umana), lo spazio (in cui mantiene un importante vantaggio tecnologico) e le reti di comunicazione cibernetiche (l’America le ha inventate, ma sono il settore in cui i cambiamenti sono più rapidi e in cui cinesi ed anche i russi hanno fatto i più rapidi progressi).

New York resta sul podio delle piazze finanziarie globali – prima sotto alcuni indicatori. Le imprese tecnologiche americane hanno capacità finanziaria (e un domani forza politica?) incomparabile e sono quasi monopoliste in interi ambiti di attività (da Google a Facebook). Lo stesso deficit commerciale americano alimenta la dimensione globale del dollaro.

L’America è la potenza talassocratica ed infrastrutturale più forte della storia, laddove i russi – e i tedeschi – sono potenze prive del controllo dei mari (ma dipendenti dalle esportazioni!) ed i cinesi soffrono della doppia vulnerabilità: dal mare, circondati da anelli di potenze ostili o comunque non alleate, nonché dalla flotta americana stessa, e da terra, tenuti lontani dai mercati europei da grandi distanze, spazi aridi e montuosi e dall’instabilità della “faglia islamica”, composta da stati collassati, poveri, instabili, da guerre, guerriglie e terrorismo.

Guarda caso, la faglia in cui gli americani hanno concentrato e concentrano gli sforzi per aumentare il tasso di caos e di instabilità. Il declino americano è solo relativo. La partita del caos è apertissima. >>

AMEDEO MADDALUNO

sabato 16 giugno 2018

Pensierini – XXXVIII

SOLDI E IDEOLOGIE
Tutti i movimenti ideologici - dai partiti politici alle religioni – vivono e prosperano grazie alla propaganda, e la propaganda ha bisogno di soldi.
Quindi, quando vediamo uno di questi movimenti entrare in crisi, dobbiamo chiederci, come prima cosa: non saranno finiti i soldi ?
E, subito dopo: perché sono finiti ?
Sono convinto che una risposta 'azzeccata' a queste due domande possa essere più illuminante e chiarificatrice di qualsiasi analisi sociologica.
Certo, è possibile che i “soldi” finiscano dopo, come conseguenza della crisi sopravvenuta, ma credo proprio che il rapporto giusto sia quello inverso.
LUMEN


CURVA DELLA FERTILITA’
Sono convinto che la curva della fertilità umana dipenda in modo significativo dal tasso di mortalità atteso.
Se questo tasso è alto (per guerre, malattie, povertà) anche la curva si alza.
Se invece questo tasso cala, la curva della fertilità dovrebbe scendere.
Però, se anche scende, lo fa sempre con molto (troppo ) ritardo.
Ed è questo disallineamento cronologico che rompe l'equilibrio potenziale che, in qualche modo, si era creato.
Con le conseguenze che tutti vediamo.
LUMEN


SUPERARE I LIMITI
E’ molto diffusa la convinzione che bisogna sempre impegnarsi allo spasimo per (cercare di) superare i propri limiti, perché solo così un essere umano può davvero realizzarsi.
A parte le perplessità dovute alla mia innata pigrizia, a me sembra che questo approccio sia figlio di una sottile illusione: i limiti non possono mai essere superati, per definizione, perché altrimenti non sarebbero limiti.
E se, qualche volta, si va oltre le aspettative è solo perché i limiti a suo tempo presupposti erano sbagliati.
Quindi non si tratta di eroismo, ma, molto più semplicemente, di un errore di valutazione.
LUMEN


BLOG
Attualmente in Italia ci sono oltre un migliaio di blog attivi, quasi tutti (o forse proprio tutti) abbastanza inutili.
Né la storia, né la cultura, né la civiltà passano da lì.
Però, per chi li scrive, sono un piccolo divertimento e ve lo posso confermare per la mia esperienza personale.
Diciamo che si apre un blog sostanzialmente per 2 motivi: per narcisismo, per poter diffondere quello che pensiamo, e per curiosità, per vedere cosa pensano gli altri delle nostre idee.
Difetti - tutto sommato - non ne vedo, visto che sono gratuiti, consentono l'anonimato e possono essere ignorati facilmente.
Qualche pregio invece lo possiamo trovare nel consentire amicizie virtuali tra persone anche distanti, che si trovano ad avere comunanza di pensiero, ma che, per motivi logistici, non avrebbero potuto incontrarsi.
Quindi, tutto sommato, meglio avere migliaia di blog inutili che non averne nessuno.
LUMEN


RELIGIONE E SOFFERENZA
Guardando alla storia passata, viene il sospetto che le dottrine religiose che funzionano meglio, cioè che hanno più fedeli e durano nel tempo, sono quelle che impegnano e fanno soffrire la gente, non quelle buoniste.
Nei periodi di massimo splendore, il cattolicesimo era vincente perché la gente faceva una vita ingrata, lavorava con fatica per edificare le cattedrali, dava ricchezze alla chiesa in cambio di nulla e moriva terrorizzata dal pensiero dell'inferno.
Eppure erano credenti convinti e non avrebbero rinunciato alla loro fede per nulla al mondo.
Oggi invece la chiesa buonista non attrae più nessuno.
A volte penso che la religione, in molti casi, finisca per soddisfare la parte più instabile, contorta e violenta del nostro subconscio, che può essere anche quella sadica (per gli inquisitori) o quella masochista (per i martiri).
LUMEN


sabato 9 giugno 2018

La favola di Gesù

Da Wikipedia: << Il “mito di Gesù” è l'insieme di ipotesi che sostengono l'inesistenza storica del Gesù di Nazareth di tradizione cristiana e in parte musulmana.
I sostenitori di questa posizione affermano che Gesù sarebbe un personaggio fittizio, mitico o mitologico, creato dalla comunità cristiana primitiva e che quindi non sia mai esistito.
La tesi secondo cui Gesù sarebbe un mito nasce nel secolo XVIII ed è in larga parte figlia delle controversie sulla data da assegnare alla redazione dei vangeli.
Questa tesi non è oggi accolta nel mondo accademico. (…)
Essa è stata tuttavia riproposta anche in tempi recenti da saggisti e opinionisti, come, per esempio, Michel Onfray nel suo ‘Trattato di ateologia’. >>
Sulla stessa posizione si pone il meno noto, ma altrettanto convincente, Luigi Cascioli (di cui ho già parlato in questo blog), che alla questione ha dedicato un interessante libro dal titolo “La favola di Cristo”.
Ecco le sue considerazioni sull’argomento.
LUMEN


<< Quello che si impone di rimarcare, a questo punto, è che nell’anno 70 n.e. – da quanto risulta inconfutabilmente dai fatti e dalla stessa ‘Apocalisse’ – gli esseni, come tutti gli ebrei, erano ancora in attesa del messia.

Facendo un riepilogo dei fatti accaduti durante l’era messianica, [era] che va dall’anno 6 n.e. al 70 n.e., cioè dalla sostituzione di Archelao con Coponio sul trono di Gerusalemme (che realizzò la profezia di Giacobbe) [sino] alla fine della guerra giudaica, rimarchiamo che nessun passo storico riporta l’esistenza del messia dei cristiani, che le sacre scritture affermano essere stato crocefisso nell’anno 33 n.e., e sotto Ponzio Pilato.

[La profezia di Giacobbe, contenuta nel Genesi, prevedeva che il Messia degli ebrei, da intendersi come il condottiero che li avrebbe guidati alla riscossa, sarebbe giunto dopo la perdita del trono di Gerusalemme, ovvero l’arrivo di un sovrano non ebreo, qual era appunto il romano Coponio - NdL]

Non troviamo nessuna menzione di Gesú in Giuseppe Flavio, che, in qualità di storico, fu incaricato da Roma di raccontare i fatti accaduti in Palestina durante l’era messianica di cui era stato testimone.

Parimenti non ne fa parola Plutarco, che visse in Palestina negli anni 65-66 n.e., né tutti gli altri, quali Seneca, istitutore di Nerone, e Tacito, Marziale, Cassio Dione e Svetonio, i quali, anche se successivi di qualche anno, trattarono comunque nelle loro opere questo periodo messianico, che ebbe tanta importanza sulla storia romana nel Vicino oriente.

Particolarmente significativo è poi il silenzio di Filone alessandrino, storico e filosofo ebreo, che, quale appartenente alla corrente religiosa essena, prese, sia pure indirettamente, parte all’attività del movimento rivoluzionario, tanto da recarsi nell’anno 40 n.e. presso l’imperatore Caligola per inter-cedere a favore delle comunità essene che, secondo lui, egli perseguitava in maniera esageratamente feroce.

Filone era cosí addentro alle vicende del tempo che, prima di rientrare presso la comunità essena di Alessandria di cui faceva parte, si fermò a far visita alla comunità essena di Roma, presso la quale rimase ospite per diversi giorni.

Ebbene, Filone non fa nessuna menzione né di Gesú, né dei cristiani, al contrario, dai suoi libri, scritti negli anni 40-50 n.e., si può escludere nella maniera piú categorica l’assenza (rectius la presenza - NdL) di loro e di Gesú in questo periodo, poiché egli, parlando di un lògos che deve ancora realizzare il suo avvento, un lògos per giunta essenzialmente spirituale, esclude nella maniera piú assoluta ogni forma di realizzazione messianica soprattutto in forma materiale.

Un’ulteriore smentita dell’esistenza dei cristiani nel I sec. n. e. ci viene da un certo Giusto di Tiberiade che scrisse, quale contemporaneo all’era messianica, una storia degli ebrei.

Che in questo libro, andato distrutto (e possiamo immaginare per opera di chi) non vi sia nessun riferimento a Gesú lo sappiamo da Pfotius, patriarca di Costantinopoli, che, disponendo nella sua biblioteca dell’opera di Giusto di Tiberiade, dopo averla attentamente studiata per cercare prove confermanti l’esistenza di Cristo, conclude: «in nessuna parte del libro di Giusto di Tiberiade ho trovato il più piccolo riscontro che parli della nascita di Cristo, della sua vita, degli avvenimenti e dei miracoli che lo concernono».

Che dire poi della biografia di Ponzio Pilato, scritta su incarico dello stesso Pilato, la quale, pur riportando ogni dettaglio dei fatti riguardanti il periodo in cui era stato procuratore della Giudea (26-36 n.e.), ignora nella maniera piú categorica il processo e la crocifissione di Gesú?

In quale altro modo si potrebbe spiegare questo silenzio su Gesú e sui cristiani se non riconoscendo la loro non esistenza, dal momento che tutti gli storici li ignorano?

Quegli storici che, invece, sono concordi circa le rivoluzioni, i martiri esseni, le numerose conversioni dei “pagani” all’ideologia essena, i nomi dei tanti messia che si succedettero, quali Meandro, Dosidee e tanti altri, e soprattutto nel ricordare quella stirpe di Ezechia che, quale pretendente al trono di Gerusalemme, guidò il movimento rivoluzionario con i suoi discendenti.

Perché in tutti i libri dell’epoca si parla di Giuda il galileo e dei suoi figli Giovanni, Simone, Giacomo, Giuda (Taddeo), Giacobbe, Menahem e Eleazaro, e non si fa la minima menzione di Gesú, nonostante i suoi miracoli, la sua crocifissione, la sua resurrezione e tutti quei fenomeni che l’accompagnarono? La risposta è semplice: non potevano parlare di un qualcosa che non era esistito ! >>

LUIGI CASCIOLI

domenica 3 giugno 2018

Il genio di Darwin – 5

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Quinta parte. Lumen)


<< Così non è stato [cioè, non vi è stata scarsa eco - NdL] per la seconda grande critica mossa alla teoria dell'evoluzione di stampo neo-darwinista. Questa critica, nata in sede paleontologica, è stata prevalentemente portata avanti da due grandi naturalisti come Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, ed è stata oggetto di una certa attenzione grazie anche al successo di libri scritti per il grande pubblico da quest'ultimo.

I nostri autori evidenziarono, nei tardi anni Sessanta, che se si osserva la progressione dei vari resti fossili nel tempo, si nota un fatto a prima vista sorprendente: esistono periodi piuttosto brevi in cui si accumulano moltissime variazioni evolutive e intervalli di tempo più lunghi in cui sembra, al contrario, non accadere quasi nulla. Si sono verificati quindi di tanto in tanto veri e propri terremoti evolutivi, a cui sono seguiti periodi di stasi e di assestamento.

Dalla descrizione di questo fenomeno nasce il termine saltazionismo, poiché sembra quasi che l'evoluzione «salti» da un episodio evolutivamente rilevante all'altro. Questo è uno dei due nomi con i quali è nota questa obiezione; l'altro nome, teoria degli equilibri punteggiati, fa riferimento, invece, all'impressione di un'alternanza nel tempo di lunghi periodi di equilibrio e di stasi — in cui non succede niente di clamoroso — intervallati da brevi periodi di grande cambiamento.

L'illustrazione più nota di questo stato di cose si ha con la cosiddetta «esplosione del Cambriano», un episodio evolutivo di eccezionale rilevanza, di cui si avrà ampiamente modo di riparlare. Intorno a seicento milioni di anni fa sono comparsi in una sola volta praticamente tutti i principali tipi di animali esistenti. Ciò è avvenuto quasi all'improvviso in un periodo di soli, si fa per dire, venti milioni di anni. Prima regnava una relativa quiete; poi è seguito un lungo periodo di assestamento. Ma l'evento, che ha meritato appunto l'epiteto di esplosione, è stato di proporzioni più che notevoli.

Sono comparse infatti trenta delle trentadue divisioni tassonomiche principali del regno animale, tra cui gli Artropodi e i Cordati. Come vedremo, quasi tutto quello che è oggetto di una trattazione scientifica da parte della teoria dell'evoluzione riguarda di fatto il periodo che va da quell'esplosione a oggi, anch'esso ricco di eventi. Nonostante gli enormi cambiamenti che si sono verificati in concomitanza con l'esplosione del Cambriano, ancora non erano apparsi a quello stadio gli Insetti o i Vertebrati, ma solo i loro «capostipiti»: gli Artropodi e i Cordati.

L'esplosione del Cambriano è il più imponente di questi eventi «rivoluzionari», ma non è l'unico. La paleontologia più moderna rivela infatti un'infinità di periodi di grande effervescenza evolutiva alternati ad altri di «quiescenza», cioè di relativa calma evolutiva. Se l'esplosione del Cambriano ha riguardato quasi tutto il pianeta e ha agito al livello dei tipi animali, questi altri episodi hanno avuto un'importanza prevalentemente locale restando circoscritti a certe classi o a certi ordini di animali e di piante. Ciò non toglie che molti di essi abbiano avuto notevole rilevanza.

Anche la critica saltazionista possedeva un'indiscutibile validità scientifica e non si è potuto non tenerne conto. Si è dovuto quindi prenderne atto nell'unico modo scientificamente possibile e appropriato: modificando alcuni punti, soprattutto teorici, della teoria evolutiva. Ne è scaturita una teoria più aderente alle osservazioni sperimentali e meno esposta a rilievi di carattere teorico. Possiamo dire che intorno agli anni Ottanta l'edificio dell'evoluzionismo neodarwinista si è rafforzato, anche grazie all'assimilazione dei punti essenziali delle due critiche scientifiche appena riportate. Vedremo tra un attimo di cosa si tratta, ma è a questo edificio teorico che mi sono riferito fin dall'inizio del libro.

Non si può negare però che le affermazioni del saltazionismo e il modo con cui vennero a suo tempo presentate turbarono non poco i sonni degli studiosi dell'evoluzione e furono attaccate con forza dai difensori della visione tradizionale. Dovrebbe essere chiara qual è la posta in gioco: evoluzione a salti (saltazionismo) piuttosto che graduale (gradualismo), e che procede in maniera discontinua (dis-continuismo) piuttosto che continua (continuismo).

Oggi tutto ciò ci fa un po' sorridere, ma fiumi di inchiostro sono stati versati in passato, su entrambi i fronti, da scienziati e non. Anche per motivi commerciali si è molto enfatizzato il contrasto tra i pubblicisti saltazionisti come Gould e quelli di stampo più ortodosso come Richard Dawkins.

In questa disputa mediatica Gould ha interpretato a lungo il ruolo del paladino dei grandi cambiamenti improvvisi, mentre i darwinisti più ortodossi rimanevano fedeli all'idea dei piccoli mutamenti che si susseguono con continuità. Come abbiamo visto, e ancora vedremo in seguito, tra i concetti che più hanno fatto le spese di questo conflitto teorico c'è quello di adattamento, un concetto a cui gli evoluzionisti più ortodossi, come per esempio George Williams, tendono ancor oggi ad attribuire un valore maggiore rispetto agli altri.

Ricapitolando, fra i vari geni di un organismo, soprattutto fra quelli attivi durante lo sviluppo embrionale, esiste una precisa organizzazione gerarchica. Alcuni, pochi, controllano l'attività di molti altri. Anche fra i geni regolatori ci sono delle gerarchie e una precisa disposizione spazio-temporale: prima se ne attivano alcuni in determinate regioni del corpo o dell'embrione, poi altri in zone diverse. Alla fine di questa cascata di attivazioni geniche, entrano in ballo i geni esecutori che realizzano materialmente l'opera. In fondo è tutto molto logico, ma... bisognava arrivarci.

È inutile aggiungere che quando uno di questi geni di alto livello gerarchico, e in particolare dei geni architetti, muta, sono guai grossi per l'individuo in questione. Nella grande maggioranza dei casi l'evento risulterà fatale, ma nelle rare occasioni in cui ciò non avviene può darsi che si profili all'orizzonte evolutivo una nuova forma di vita.

Queste scoperte abbastanza recenti, delle quali sono stato testimone diretto e alle quali ho personalmente contribuito, implicano almeno tre cose diverse, tutte di estrema importanza per il nostro discorso.

La prima ha a che fare con la sostanziale e sorprendente unitarietà degli esseri viventi. Già si sapeva che tutti gli organismi viventi usano un identico codice genetico: i tre nucleotidi TTT sul DNA specificano in ogni organismo l'aminoacido fenilalanina, i tre nucleotidi ATG l'aminoacido metionina e via discorrendo. Tutti i viventi sono inoltre costituiti di cellule e queste sono avvolte in una membrana cellulare di costituzione molto simile. Il macchinario che porta alla sintesi delle proteine, infine, è ovunque lo stesso. >>

EDOARDO BONCINELLI

(continua)