mercoledì 29 marzo 2017

Uno sguardo dal picco - 2

La decrescita prossima ventura secondo Jacopo Simonetta (seconda e ultima parte). Lumen


<< Ma quanta sarà la decrescita nei decenni a venire ? Le ipotesi variano da una stabilizzazione dell’economia e della popolazione a livelli addirittura superiori all’attuale (la cosiddetta “stagnazione secolare” di cui parla l’FMI), fino - all’opposto - alla completa estinzione del genere umano. Due ipotesi del tutto antitetiche che hanno in comune un punto fondamentale: portare alle estreme conseguenze una serie di fenomeni in corso o previsti a breve.

Nel primo caso si spera che la popolazione si stabilizzi per una graduale riduzione della natalità, mentre la tecnologia potrebbe trovare il modo di garantire una vita decente più o meno a tutti. Nel secondo caso, si suppone invece che il collasso dell’economia globalizzata e/o il riscaldamento del clima generino delle retroazioni capaci di sterminare completamente la più resiliente e adattabile delle specie viventi.

Entrambi gli scenari non tengono conto del fatto che i cambiamenti provocati da una retroazione in un sottosistema cambiano i rapporti di questo con il meta-sistema di cui fa parte. Ciò significa che è probabile che la forza relativa delle diverse retroazioni in azione cambino in rapporto alla dimensione della popolazione, la disponibilità di risorse, la resilienza degli ecosistemi, l’evoluzione del clima e molto altro ancora. Consideriamo quindi alcuni punti solamente.

1 - La capacità di carico fantasma.

Lasciando da parte la più fantasiosa delle due ipotesi (stabilizzazione simile all’attuale), occupiamoci della seconda. Questa si basa, infatti, su di una molto verosimile retroazione positiva fra decrescita economica → minore accesso alla risorse → decrescita della popolazione. In pratica, la decrescita comporta una riduzione della capacità di estrarre a nostro vantaggio bassa entropia dall’ambiente, il che genera ulteriore decrescita.

Questo anello spinge effettivamente verso l’estinzione, ma ne esistono contemporaneamente altri. Ad esempio: maggiore mortalità → minore pressione sulle risorse residue → riduzione dell'inquinamento → parziale recupero della biosfera → minore mortalità. Questo secondo anello tende evidentemente a contrastare il precedente. Personalmente, penso che il primo (destabilizzante) sarà predominante in questo secolo, mentre il secondo (stabilizzante) acquisterà forza man mano che la pressione antropica si ridurrà.

Nessuna previsione, naturalmente. Solo l’osservazione che, probabilmente, il sistema tenderà ad un nuovo equilibrio una volta che la popolazione e l’economia si saranno contratte in misura sufficiente. Ovviamente, al netto di altre forzanti quali, ad esempio, un eventuale evoluzione del clima del tipo “sindrome di Venere” [aumento eccessivo del calore - NdL]. Possibile, ma per ora solo un’ipotesi.

2 - Gradiente energetico.

Un altro aspetto della questione, che si interfaccia strettamente col precedente, è quello dell’energia. Dal momento che la crescita economica e demografica è dipesa interamente o quasi da disponibilità crescenti di energia “pro capite”, appare evidente che al calare di questo parametro dovrà diminuire anche la popolazione. Ma non possiamo sapere di quanto, perché giocano due ordini di fattori contrastanti ed è arduo decidere quale dei due prevarrà. Non è neanche detto che la stessa cosa debba accadere in tutte le zone del mondo.

Il primo ordine di fattori è che le tecnologie e conoscenze attuali potrebbero permettere una produttività superiore a quella registrata in passato, a parità di energia “pro capite”. Il secondo è che il degrado subìto dalle risorse riduce la produttività, sempre a parità di energia utile disponibile.

Di solito, la questione dell’energia del futuro viene discussa a colpi di valutazioni circa quello che si potrebbe estrarre, dati certi parametri che variano secondo gli autori. Cambiando i parametri (ad es. se si considera o meno l’esauribilità di determinati minerali), cambiano notevolmente le stime. Personalmente non sono in grado di verificare tali valutazioni, ma vedo una difficoltà intrinseca al tipo di energie che si voglio sfruttare.

Per fare qualunque cosa, è necessario far fluire energia lungo un gradiente: cioè da dove è più concentrata a dove lo è meno. Le energie fossili di buona qualità e l’idroelettrico posizionato bene hanno una cosa in comune: sono forme di energia che hanno il grado di concentrazione, e dunque un gradiente, ottimale. Basta prenderle e dissiparle per i nostri scopi. Un gradiente minore riduce più che proporzionalmente il rendimento, mentre un gradiente maggiore aumenta il rischio di incidente.

Viceversa, sole e vento, pur essendo quantitativamente molto più abbondanti, sono estremamente diffuse. Occorre quindi prima concentrarle (dissipando altra energia già concentrata in precedenza), per poterla poi trasportare dove serve e dissipare per fare quel che vogliamo. In pratica, un doppio passaggio, che in nessun caso potrà quindi dare gli stessi risultati del passaggio singolo permessoci dalle fonti che abbiamo prevalentemente sfruttato negli ultimi 200 anni.

Ciò non significa che sole, vento eccetera siano inutili. Anzi, proprio il fatto che l’economia industriale subirà un drastico ridimensionamento, forse un collasso, rendono preziosi degli oggetti che potranno mitigare gli effetti della decrescita almeno per alcuni decenni.

3 - La ruralizzazione.

Un altro aspetto della medesima questione è rappresentato dal tipo di insediamento umano del futuro. Man mano che l’economia industriale procederà a perdere pezzi, è probabile che una massa crescente di persone cercheranno salvezza in campagna. Un fenomeno che forse sta cominciando proprio in questi anni.

Un processo possibile, ma la densità mondiale attuale è di una persona ogni circa 2.000 mq di terreno agricolo, che [però] sta diminuendo di giorno in giorno. La media europea è analoga ed anche questa in rapido calo. Un ritorno massiccio all’agricoltura ed un riallineamento a standard di vita analoghi a quelli dei contadini poveri attuali rappresenta quindi uno scenario di decrescita possibile, ma non per tutti.

Anche in questo caso, è facile prevedere almeno alcune retroazioni, di segno opposto. Un primo anello spingerebbe verso un’accelerazione della decrescita: decrescita economica → aumento della popolazione rurale → maggiore pressione sulle aree marginali e le foreste → degrado del territorio → ulteriore decrescita economica. Molti entusiasti dell’orto domestico non condivideranno questo punto, ma l’esperienza di tutte le epoche e di tutte i paesi lo conferma.

Tuttavia, anche in questo caso, sono possibili anche anelli tendenti a stabilizzare il sistema. Per esempio: riduzione degli standard di vita → contese per il controllo delle zone migliori e dell’acqua → riduzione/scomparsa dei servizi sanitari moderni → decrescita demografica → miglioramento degli standard di vita.

Sono molti i fattori che spingerebbero per una rapida decrescita demografica, cosa che a sua volta ridurrebbe la pressione sugli ecosistemi e la competitività territoriale, oltre a mitigare la miseria. In altre parole, più rapido il declino numerico, più alto il livello di relativo equilibrio che si potrebbe raggiungere, al netto di altri fattori qui non considerati (clima, guerre, epidemie, ecc.).

Conclusioni.

(…) Cercando di essere il più razionali possibile, direi che la decrescita è inevitabile ed anzi è già cominciata, ma che difficilmente condurrà il genere umano all’estinzione. A mio avviso, le difficoltà maggiori nell’indagare la decrescita sono due: la scala spaziale e quella temporale.

Per quanto riguarda la prima, abbiamo numerosissimi precedenti storici di decrescita e anche di collasso di popoli e civiltà, ma nessuno a livello globale. In un modo costituito da un mosaico di organizzazioni scarsamente comunicanti, il collasso di una di esse può trovare mitigazione (ad es. tramite emigrazione) o aggravamento (a es. tramite invasione) dai suoi rapporti con i sistemi vicini. Ma comunque non si può verificare il simultaneo collasso dell’intera umanità.

Il fatto che il collasso attuale stia avvenendo in un contesto globalizzato cambia radicalmente i termini della questione, almeno nelle fasi di avvio. Da una parte, infatti, sta consentendo di mitigarne e rallentarne considerevolmente gli effetti. Dall’altra, rischia di portare all’inferno l’intera umanità quasi contemporaneamente.

Una seconda difficoltà inerente la scala spaziale, risiede proprio nel fatto che il principale effetto della prima fase di decrescita sarà la frammentazione del sistema globale in sotto-sistemi di varia misura. Un processo che potrebbe reiterarsi fino alle estreme conseguenze, o meno, a seconda di una miriade di fattori perlopiù locali. Dunque diversi da zona a zona.

Per quanto riguarda la dimensione temporale, il problema è che avremo due curve in calo: quella della capacità di carico e quella della popolazione.

Cioè vivremo una specie di gara di corsa in cui la popolazione tenderà a stabilizzarsi su dei livelli tanto più alti, quanto più precoce e rapido sarà il decremento. Questo perché proprio la decrescita economica e la decrescita demografica sono [elementi] forzanti che tendono a “stabilizzare” il sistema, mentre il degrado della Biosfera e l'alterazione del clima sono le principali forzanti che spingono verso l’annientamento umano. > >

JACOPO SIMONETTA

mercoledì 22 marzo 2017

Uno sguardo dal picco - 1

Un piccolo tentativo di immaginare quello che potrebbe succedere nei prossimi decenni: la decrescita prossima ventura secondo Jacopo Simonetta (da Effetto Risorse). LUMEN

 
(prima parte)

<< Tutti conoscono, o dovrebbero conoscere, “I limiti della crescita”, ma oggi credo che studiare i limiti della “decrescita” sarebbe ancor più interessante. Quasi 50 anni or sono, infatti, si cominciavano ad avvertire i primi sintomi del graduale impatto con i limiti della crescita, mentre oggi si avvertono chiaramente le avvisaglie di una decrescita che sappiamo inevitabile, ma della quale non sappiamo molto.

Sempre più gente cerca di scrutare il futuro, ma la nebbia è davvero molto fitta. Neppure il formidabile ‘Word3’ [il modello del Club di Roma – NdL] ci può aiutare molto. Se, infatti, la fase ascendente delle curve si è dimostrata molto affidabile, la fase discendente sappiamo già che non lo è affatto. Lo sappiamo perché lo dissero chiaro e tondo, fin da subito, gli autori. Per di più, il modello incorpora una teoria (la transizione demografica) che descrive efficacemente la “crescita” di una popolazione umana, mentre si è dimostrata del tutto inaffidabile nel descriverne anche solo le prime fasi del “declino”.

Dunque su cosa ci possiamo basare per fare delle ipotesi che non siano del tutto campate in aria ? Che io sappia, non esistono, ad oggi, modelli affidabili di decrescita. Esiste però una vasta conoscenza di come funzionano i sistemi complessi e su questa base si può lavorare. Non pretendo certo qui di sviscerare un problema così complicato. Sarei già molto contento di riuscire a sollevare la questione affinché se ne occupasse chi dispone dei mezzi tecnici e finanziari necessari per affrontarlo in modo approfondito.

Direi che i punti di partenza potrebbero essere i seguenti.

1 – Non abbiamo modelli di decrescita testati, ma sappiamo che il comportamento dei sistemi tende a restare costante, fintanto che le condizioni al contorno lo consentono. Quando si superano delle soglie, la medesima struttura produce effetti diversi, talvolta opposti, in ragione della diversa interazione con i sotto-sistemi a monte ed a valle.

Per fare un esempio pratico, il credito è un fattore di crescita economica fintanto che l’estrazione di risorse è facile e lo stoccaggio dei rifiuti non comporta retroazioni che danneggiano in qualche modo il sistema economico stesso. Viceversa, in un contesto in cui l’estrazione di risorse diventa difficoltosa, oppure l’inquinamento comincia a produrre “effetti collaterali” consistenti, il credito diventa un efficiente sistema per distruggere la ricchezza accumulata durante la fase di crescita.

Il fatto interessante è che miglioramenti sostanziali nelle tecnologie possono modificare in maniera importante i tempi con cui avviene questa evoluzione, ma non possono in alcun caso modificare il destino finale del sistema. Solo una sostanziale modifica nella struttura interna del medesimo potrebbe farlo.

2 - Sappiamo che la freccia del tempo è irreversibile (perlomeno a scala superiore a quella atomica). Dunque la decrescita potrà anche presentare situazioni diciamo “vintage”, ma sarà comunque un fenomeno del tutto sconosciuto e sorprendente. Certamente non sarà il film della crescita girato al contrario, poiché tutte le condizioni al contorno sono cambiate irreversibilmente.

Per fare un esempio banale, non torneremo a “vivere come i nostri nonni”, come talvolta si sente dire. Rispetto ad un secolo fa c’è il quadruplo della gente, la metà della terra fertile e delle foreste, una minima parte dell’acqua potabile, i principali banchi di pesca sono estinti, eccetera. Non ultimo, nessuno o quasi sa più fare le cose che sapevano fare loro. E se è vero che è possibile imparare, è anche vero che questo richiede tempo.

3 - Da almeno 50.000 anni, l’evoluzione tecnologica ha drasticamente modificato i rapporti fra la nostra specie ed il resto dell’eco-sistema. In pratica, abbiamo trovato il modo di superare costantemente i limiti impostici dall’ambiente tramite lo sviluppo di tecnologie più efficienti. Attenzione ! Questo è un punto fondamentale. Il fatto che la nostra popolazione continui ad aumentare viene spesso citato come prova che, in realtà, non abbiamo ancora raggiunto i limiti della crescita possibile.

Qualcuno ipotizza addirittura che non li raggiungeremo mai, perché il progresso tecnologico è un prodotto dell’inventività umana che si suppone inesauribile. Questo ragionamento è però viziato da un errore di fondo. La tecnologia consente infatti di estrarre una percentuale maggiore di risorse a nostro vantaggio, ma ciò provoca un degrado dell’ecosistema. In altre parole, la tecnologia ci consente di strizzare più forte il limone, ma non di aumentare il succo che c’è. Catton chiamava questo fenomeno “Capacità di carico fantasma”.

4 – La crescita economica e quella tecnologica sono due elementi strettamente sinergici, che formano una delle retroazioni più forti della nostra storia. Ed entrambe hanno trainato la crescita demografica. Man mano che la decrescita economica prenderà piede, questa retroazione continuerà presumibilmente a funzionare, ma non sappiamo bene in che modo.

Da un lato, infatti, ci dobbiamo aspettare che, riducendosi la ricchezza disponibile, le tecnologie più costose dovranno essere man mano abbandonate, per tornare a tecnologie meno sofisticate, ma anche più economiche e robuste. D’altronde, tecnologie meno spinte sono anche meno efficienti nell’estrazione delle risorse che, nel frattempo, si sono degradate e rarefatte.

Per fare un solo esempio, il primo pozzo di petrolio fu trivellato a Titusville [in Florida - NdL] a circa 19 metri di profondità, utilizzando una trivella estremamente rudimentale. Oggi siamo arrivati a perforare rocce a chilometri di profondità, ma ciò è stato possibile perché l’energia “facile” ci ha messi in condizione di sfruttare quella via via più difficile. Siamo così passati da pozzi profondi decine di metri, ad altri di centinaia ed infine di chilometri, senza soluzione di continuità.

Ma se la retroazione si interrompesse, ad esempio per una grave crisi economica od una guerra che comporta l’abbandono delle tecnologie d’avanguardia, non saremmo mai in grado di recuperare, semplicemente perché le risorse raggiungibili con tecnologie più semplici non esistono più.

D’altronde, le conoscenze accumulate nella fase ascendente non saranno dimenticate tanto presto. Anche a fronte di crisi estremamente gravi, una parte consistente del patrimonio scientifico e tecnico sopravvivrebbe a lungo. Diciamo che, probabilmente, siamo oggi nella fase di “picco del sapere”, ma la decrescita culturale sarà presumibilmente più graduale di quella economica, grazie all’inerzia rappresentata dalle scuole e dai libri.

Altri tipi di supporto, in particolare quelli informatici di ultima generazione, rischiano invece di svanire molto rapidamente, a fronte di un netto peggioramento nelle condizioni economiche e, dunque, nella disponibilità di energia e nella manutenzione delle reti.

5 – Il processo di decrescita avverrà presumibilmente per catastrofi di diverso ordine e grado. Questo si può arguire dal fatto che tutti gli sforzi dell’umanità sono concentrati nel mantenimento dello “status quo” e molti dei tecnocrati che se ne occupano sono persone di grandissima professionalità.

Questo tende ad irrigidire il sistema che, anziché adattarsi al mutare delle condizioni al contorno, reagisce per restare il più possibile uguale e se stresso. Ciò consente di ritardare la decrescita, ma, quando ciò non è più possibile, il processo di riequilibrio avviene in maniera rapida e solitamente traumatica. Insomma, è la storia dell’elastico che, tirato troppo, si spezza facendo male a chi lo tiene. >>

JACOPO SIMONETTA

(continua)

mercoledì 15 marzo 2017

Bufale e pappagalli

Alcune considerazioni di Alessandro Gilioli (tratte dal suo blog) sulla credibilità dell’informazione di oggi, tra le bufale del web e i pappagalli del pensiero unico. 
LUMEN


<< In un suo articolo sul Corriere della Sera, il presidente dell'Antitrust Giovanni Pitruzzella torna sulla questione della Rete che «aumenta notevolmente le possibilità che siano diffuse notizie false e bufale», essendo Internet «un sistema decentralizzato in cui chiunque può diventare produttore di informazione».

Questo, sostiene Pitruzzella, danneggia i cittadini nel loro «diritto a ricevere un'informazione corretta». Di qui la sua idea di una «istituzione specializzata terza e indipendente che rimuova in tempi rapidi i contenuti che sono palesemente falsi e illegali».

A mio avviso, questa impostazione della questione parte da un grave errore, da cui discendono quelli successivi e la drammatica conclusione, cioè la proposta di una sorta di Tribunale della Verità con poteri censori.

L'errore di partenza è pensare che, a causa di Internet, i cittadini oggi siano vittime passive di notizie false più di prima: più cioè di quando l'informazione non era decentralizzata e pochi soggetti (governi ed editori privati) avevano il controllo dell'informazione.

Nell'era dell'informazione esclusivista le notizie - comprese quelle false, che sono sempre state abbondanti e strumentali agli interessi dei governi o dei proprietari dei media - godevano infatti di una forza di impatto e di una capacità persuasiva molto maggiore di qualsiasi bufala online attuale. In altri termini: erano balle come quelle di oggi, ma più potenti. Perché provenivano da fonti considerate ufficiali.

Io ci sono cresciuto, in quel mondo lì. Anche Pitruzzella, che è pure un po' più anziano di me. Stupisce che non se lo ricordi. Stupisce che non ricordi l'era in cui frasi come "l'ha detto la televisione" o "sta scritto sul giornale" erano l'esibizione di una fonte di certezza. Benché tivù e giornali non siano mai stati pure fonti di verità, ma anche strumenti di interessi politici ed economici.

Che non si potevano contraddire, cioè di cui nessuno poteva leggere il controcanto. C'era quella versione lì - o, più spesso, quella omissione lì - e basta. Al massimo si poteva acquistare un giornale diverso per avere una versione diversa, ciò che comunque era sforzo di pochi, mentre il conformismo era del tutto senza sfumature e senza diritto di replica sul medium più facile, diffuso e popolare, la tivù.

Allora la questione non è se oggi circolano più bufale di trent'anni fa ma è se il cittadino-utente ne è più vittima rispetto a trent'anni fa.

E no, non lo è. Per almeno due motivi.

Primo, perché molto più rapida, facile ed economica è la strada per la replica, per trovare il controcanto rispetto alla bufala (o all'omissione). Lo sforzo è minimo, avviene nello stesso medium che diffonde il falso (la Rete), talvolta perfino nei commenti con link al medesimo articolo o comunque a pochi clic di distanza. Prima, invece, pervenire a qualche preziosa forma di de-bunking di una bufala (di giornale o detta in tivù) esigeva una fatica molto maggiore, ed era infatti prerogativa di pochissimi.

Secondo, prima le persone avevano mediamente meno strumenti di difesa psicologica, erano cioè meno smaliziate e meno diffidenti verso ciò che veniva immesso dai mezzi di comunicazione. Insomma, di fronte alle bufale ci cascavamo molto più facilmente.

E la diffidenza - la sana diffidenza verso ogni informazione - è il principale antidoto a ogni bufala, che sia on line o diffusa in altro modo. La crescita della diffidenza (connessa proprio con la decentralizzazione dell'informazione!) è la migliore notizia degli ultimi anni.

E siamo solo agli inizi: più la Rete, medium recente, uscirà dalla sua fase adolescenziale, più la diffidenza crescerà, più sarà prassi quotidiana di ciascuno imparare a dividere il grano dal loglio.

In altri termini: sì, circolano più balle rispetto a trent'anni fa. È ovvio, dato che è cresciuta in modo esponenziale la massa di informazioni circolanti e la massa di produttori di informazioni. Eppure le bufale sono (e soprattutto saranno) meno pervasive rispetto ad allora (e quindi creano meno conformismo) perché più facilmente contraddicibili e perché la società che le riceve ha (e avrà sempre di più) gli anticorpi per reagire, che invece erano quasi assenti tre decenni fa.

Istituire un "Tribunale della Verità" non è solo un'idea a forte rischio di liberticidio: è anche un sistema che porta a soffocare la nascita e la crescita degli anticorpi, delegando tutto a un ente superiore, riportando i cittadini-utenti a una condizione di minorità e di infanzia mentale (in cui cioè hanno bisogno di un papà che gli dice cos'è verità e che cosa favola).

Tutto questo, per parlare seriamente.

Se invece volessimo fare un po' di (fondata) ironia, verrebbe da chiedersi che cosa rimarrebbe in giro dei giornali e dei tg italiani se il tribunale della verità dovesse agire a 360 gradi, non solo sulla Rete ma su tutto il sistema della comunicazione. Nelle edicole rimarrebbero in vendita giusto i biglietti del tram. In tivù vedremmo solo il monoscopio con l'ora esatta. E nelle stazioni andrebbero censurati anche i cartelloni con gli orari di Trenitalia. >>

ALESSANDRO GILIOLI

mercoledì 8 marzo 2017

Nero come il carbone

Un breve post di Ugo Bardi (tratto dal suo blog) sull’importanza del carbone nell'Europa nell'ottocento ed il suo impatto sulla storia politica dell’Italia, con una breve digressione dalla “cronaca nera“ (nel senso di nero-carbone) alla “cronaca rosa”. 
LUMEN


<< All'inizio del XIX secolo (1800), la rivoluzione industriale era in pieno svolgimento, alimentata dalle miniere di carbone dell'Europa settentrionale, principalmente Inghilterra, Francia e Germania. Questa rivoluzione aveva creato uno squilibrio economico, rendendo i paesi settentrionali molto più ricchi e più potenti di quelli del sud.

Non era solo una questione di avere o non avere il carbone. Era questione di trasportarlo. Il carbone è pesante ed ingombrante e, a quel tempo, il solo modo pratico per trasportarlo su lunghe distanze era via mare. Le navi potevano portare il carbone ovunque nel mondo, ma, quando si trattava di portarlo nell'entroterra, servivano fiumi navigabili.

Niente fiumi navigabili, niente carbone. Niente carbone, niente rivoluzione industriale. E' stata questa la ragione dello squilibrio: i paesi dell'Europa meridionale, proprio come quelli nordafricani, non potevano avere fiumi navigabili a causa della mancanza d'acqua. Per cui, non si sono potuti industrializzare e sono rimasti economicamente e militarmente deboli.

Le sole regioni mediterranee che avevano fiumi navigabili e si sono potute industrializzare sono state Francia e Nord Italia, Piemonte in particolare.

Delle due, la Francia è stata di gran lunga la più potente e, già nel 1848 (…) aveva occupato l'Algeria, strappandola via all'Impero ottomano. Il resto della regione nordafricana era matura per essere sottomessa e persino il Regno di Napoli, nell'Italia meridionale, era militarmente ed industrialmente debole, una preda facile per qualsiasi paese industrializzato.

Cosa poteva quindi fermare i francesi dal trasformare l'intero mare Mediterraneo in un lago francese ? Questa, apparentemente, era stata l'idea di Napoleone quando ha invaso l'Egitto, nel 1798. Non ha funzionato quella volta, ma era stata un'intuizione strategica che, in seguito, i governi francesi avrebbero potuto portare avanti.

Ora, mettetevi nei panni dei britannici. Nel grande gioco strategico del XIX secolo, avevano adocchiato l'Egitto, che avrebbero poi occupato nel 1882, ma avrebbero potuto fare poco o niente per impedire alla Francia di occupare l'intera costa nordafricana, fino all'Egitto e forse oltre ad esso.

Niente di diretto, cioè, ma se avessero potuto creare un contrappeso strategico per bilanciare il potere francese ? E cosa poteva essere quel contrappeso ? L'Italia, naturalmente, se poteva essere unificata e trasformata in un unico paese, dalla pletora di staterelli che era a quel tempo.

Così, a metà del XIX secolo, i pezzi strategici del gioco mediterraneo erano tutti al loro posto, come in una enorme scacchiera. L'obbiettivo britannico era condiviso dal Piemonte: unificare l'Italia il più presto possibile e fermare l'ulteriore espansione della Francia. Dall'altro lato della scacchiera, l'obbiettivo della Francia era altrettanto chiaro: evitare ad ogni costo l'unificazione dell'Italia e prendersi quanto più Nord Africa possibile, il più presto possibile.

Chiaro, perfettamente chiaro. E facile per la Francia. Non dovevano fare quasi niente, solo tenere sotto controllo il Piemonte, cosa che potevano fare agevolmente. E' vero che il Piemonte era una piccola superpotenza industriale per i suoi tempi, ma non c'era partita per la più grande, molto più potente e vicina Francia.

Ma il presidente francese ed imperatore di quel tempo, Luigi Napoleone, o “Napoleone III”, ha fatto esattamente l'opposto, anche impegnando l'esercito francese a sostegno dell'espansione del Piemonte nell'Italia del nord in una serie di battaglie sanguinose contro gli austriaci, nel 1859.

Non che la Francia abbia aiutato il Piemonte per niente, naturalmente. In cambio, i francesi hanno ottenuto una fetta di terra sul lato occidentale delle Alpi, che prima faceva parte del Piemonte. E' stato un guadagno territoriale ma, in termini strategici, non era niente in confronto a quello che la Francia stava perdendo.

Un anno dopo aver sconfitto l'Austria con il sostegno della Francia, il Piemonte partiva per un'altra impresa strategica, questa volta con il sostegno dei britannici. Dal Piemonte, partiva un esercito condotto da Giuseppe Garibaldi ad invadere il Regno meridionale di Napoli. I napoletani hanno contrapposto una resistenza strenua ma, da soli, non potevano farcela e Napoleone III non ha mosso un dito per aiutarli.

Col collasso del Regno Meridionale, la completa unificazione dell'Italia è diventata inevitabile, nonostante un ultimo disperato tentativo da parte di Napoleone III nel 1867, quando ha mandato truppe in Italia per impedire a Garibaldi di prendere Roma.

E quindi Italia fu. Ed è ancora. La cosa curiosa è che poteva non essere. Se Napoleone avesse fermato Garibaldi nel 1860 allo stesso modo in cui lo ha fatto nel 1867, probabilmente avremmo ancora un regno di Napoli e il paese che oggi chiamiamo “Italia” sarebbe più che altro un protettorato francese. E, molto probabilmente, il francese sarebbe la lingua dominante in gran parte del paese.

Invece, la Francia aveva perso un'occasione storica per diventare la potenza dominante nel Mediterraneo. In seguito, la Francia è riuscita comunque a ritagliarsi alcuni altri pezzi di Nord Africa, occupando la Tunisia nel 1881 e il Marocco nel 1904, ma tutti gli ulteriori avanzamenti nella regione mediterranea sono stati fermati quando, nel 1911, l'Italia ha rivendicato ciò che gli italiani vedevano come la loro fetta legittima dell'Impero Ottomano in declino: la regione che oggi chiamiamo Libia.

Quindi, come mai Napoleone III ha fatto un errore strategico colossale del genere ? In un certo senso, possiamo dire che è piuttosto normale: i sovrani degli stati spesso sono terribilmente incompetenti nel loro lavoro (…). Ma, per Napoleone III, potrebbe esserci stata una ragione che va oltre la semplice incompetenza.

I francesi hanno inventato la frase “Cherchez la femme” (cercate la donna) come spiegazione di molti eventi altrimenti inspiegabili. E, nella storia dell'unificazione dell'Italia, c'è coinvolta una donna: Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione. Era la cugina del Conte di Cavour, primo ministro del Piemonte a quel tempo, ed era stata mandata a Parigi da lui, pare, con l'idea specifica di influenzare Napoleone III.

Lei era una fedele patriota italiana e capiva molto bene quello che sarebbe stato il suo ruolo come amante del presidente francese ed imperatore. Doveva convincerlo a fare qualcosa che i francesi non avrebbero mai dovuto permettere: aiutare il Piemonte ad invadere e conquistare il resto della penisola italiana.

Secondo quello che si può spesso leggere sui libri di storia, ha adempiuto al suo ruolo e, dai ritratti e dalle fotografie che abbiamo di lei, forse possiamo anche capire come. Naturalmente, possiamo legittimamente pensare che questa storia sia solo una leggenda. Ma potrebbe essere che Virginia Oldoini abbia davvero convinto Luigi Napoleone a fare quello che ha fatto ?

In questo caso, la Contessa dovrebbe essere considerata una delle donne più influenti della storia moderna. Ma non saremo mai in grado di saperlo. Ora, lei si trova dall'altra parte dello specchio, forse guardandoci da lì e ridendo di noi. > >

UGO BARDI
 

mercoledì 1 marzo 2017

Pensierini – XXXI

PATTO COL DIAVOLO - 1
Un giorno il signor Mario Rossi, stufo di una vita piena di tristezze e di tribolazioni, evocò il Diavolo, che subito gli comparve davanti.
Il Diavolo chiese: Cosa vuoi da me, misero mortale ?
Mario Rossi rispose: Voglio farti la più classica delle proposte. Sono disposto a venderti la mia anima, se tu mi renderai felice per tutta la vita.
Il Diavolo accettò la proposta e predispose il contratto, che venne regolarmente firmato da entrambe le parti.
Mario Rossi allora disse: Ecco, ho accettato di venderti l’anima. Adesso adempi al tuo impegno.
Il Diavolo rispose: Certamente. Da domani e per tutta la vita, tu ti chiamerai Felice Rossi.
E se ne andò sghignazzando.
LUMEN


PATTO COL DIAVOLO - 2
Giunto al termine della sua vita, tutta piena di tristezze e di tribolazioni, il signor Rossi ricevette la visita del Diavolo, ben deciso a prendersi quello che gli era stato promesso.
Il Diavolo disse: Il contratto parla chiaro. Io ti ho reso Felice per sempre, ora la tua anima spetta a me. E di sotto c’è l’inferno che ti attende.
Ma il signor Rossi, che aveva riflettuto a lungo sulla questione, rispose: caro il mio Diavolo, ti sbagli. Quel contratto non vale per me. Non mi riguarda.
Il Diavolo scoppiò in una fragorosa risata: Certo che ti riguarda. E’ firmato da te in calce. Proprio qui.
Ma il signor Rossi scosse la testa: Niente affatto. Il contratto è stato firmato da Mario Rossi. Ma io mi chiamo Felice Rossi.
E se ne andò sorridendo.
LUMEN


EQUILIBRIO
Appare sempre più probabile che l'attuale economia capitalista, essendo fondata sul debito e quindi sulla necessità di una crescita continua (ormai insostenibile), sia destinata a crollare, magari aiutata dalla crisi ambientale e da quella demografica, che sono già in atto.
La prospettiva è guardata (giustamente) con grande preoccupazione, perché, dopo la fine del capitalismo che conosciamo, si entrerebbe in una terra incognita, nella quale nessuno sa bene cosa potrebbe accadere.
Il problema, però, non è se l'economia troverà un nuovo punto equilibrio: lo troverà sicuramente.
L'equilibrio, infatti, (a tutti i livelli, dalla fisica in giù) è una delle poche cose che avvengono comunque da sé, senza che nessuno debba fare niente.
La tragedia è che ci piacerebbe gestire la transizione senza che nessuno si faccia troppo male, ed è questo che sarà assolutamente impossibile.
LUMEN


DENIGRARE IL PROSSIMO
Un fenotipo consapevole sa bene che l'impulso alla sopraffazione del gene egoista può portare facilmente, tra le altre cose, ad una grande quantità di commenti denigratori.
Denigrare il prossimo, infatti, fa “sentire bene” molte persone, perché rivaluta, per contrasto, quello che loro sono o possiedono.
Come reagire ad un commento denigratorio ?
La reazione migliore è sempre quella di un silenzio sorridente, ma a volte potrebbe non bastare. 
Cosa dire allora, senza abbassarsi al livello del denigratore ? 
Secondo me, basta accontentarlo e gratificarlo di una risposta fintamente accomodante del tipo: << Che ci vuoi fare ? Non possiamo essere tutti dei 'fenomeni' come te. >>
Forse la sottile ironia può disorientare il cafone di turno.
LUMEN


CAMBIARE IDEA
Ma cambiare idea è socialmente ammirevole o criticabile ?
Secondo  il giornalista Alessandro Gilioli bisogna distinguere se il cambiamento avviene per semplice convenienza o per sincero convincimento.
<< Cambiare idea a seconda della convenienza - dice Gilioli - è disdicevole, quindi è giusta causa di sbertucciamento in politica e altrove. La pratica alternativa, è al contrario saggia - sapientis est mutare consilium - e propria di chi interpreta la vita come una continua domanda.  Trattasi di pratiche diverse, spesso opposte: perché la prima ha come suo motore la convenienza a dispetto del proprio miglioramento e la seconda l'auto-miglioramento a dispetto della convenienza. Saperle distinguere bene - negli altri, ma prima di tutto in se stessi - è un lavoro quotidiano di chi ha cura del mondo. >>
Per tutto il resto - conclude ironicamente Gilioli - ci sono le assemblee di partito.
LUMEN


MURI E PONTI
Ho letto che Papa Francesco è direttamente intervenuto nella campagna presidenziale statunitense, dichiarando (dal Messico nel febbraio 2016) che “una persona che pensa di fare muri, chiunque essa sia, e non di fare ponti, non è cristiano”.
<< La cosa - commenta Piergiorgio Odifreddi - avrebbe forse avuto senso se Trump avesse parlato di muri in maniera metaforica. Ma la proposta dell’allora candidato era letterale, ed egli non ha avuto difficoltà a rimandare al mittente la critica, ricordando che il Vaticano è appunto completamente circondato da alte e solide mura, che non sono affatto metaforiche: basta provare a penetrarle alla porta canonica di Sant’Anna, o in qualunque altro punto meno canonico, per accorgersene. >>
<< E’ vero - continua Odifreddi - che a volte, nel passato, le mura del Vaticano sono servite a impedire a chi era dentro di uscire, ma in genere sono servite a impedire a chi era fuori di entrare, dai saraceni ai bersaglieri; compresi, oggi, gli immigrati clandestini, nonostante i ripetuti proclami e richiami all’accoglienza del pontefice. >>
Perchè il buonismo va bene, ma solo se viene praticato in casa d'altri.
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