lunedì 31 luglio 2017

Dawkins e il castoro – 2

Si conclude qui l’articolo di Lorenzo Casaccia sul “Fenotipo esteso” di Richard Dawkins ed i suoi sviluppi. Lumen

(seconda parte)
 
<< Sempre nel 2003, Eva Jablonka dell’Università di Tel Aviv propone una vasta estensione della teoria di Dawkins, in un saggio dal significativo titolo “The Extended Phenotype Revisited”. In esso, non si contesta il fatto che la selezione si basata sui geni, ma si cerca di erodere l’assunto che sia basata solo sui geni come unità singole.
 
In particolare, secondo Jablonka, Dawkins ha usato il gene in maniera ambigua, sia come “ciò che è selezionato” che “ciò che beneficia della selezione”. Per prima cosa, Jablonka sostiene che le mutazioni fenotipiche sono per lo più il risultato di mutazioni di un “set” di geni, non di uno solo. (…) Tutte le micro-varianti genetiche [infatti] vengano canalizzate e risolte in fenotipi di “senso compiuto”. Il singolo gene non può quindi essere l’unità del cambiamento.
 
Jablonka sostiene che negli ultimi venti anni si è ormai accettato che anche altri elementi possono essere trasmessi per generazioni senza essere basati sui geni. Tra questi Jablonka include i “memi”, unità di evoluzione e selezione culturale introdotti dallo stesso Dawkins  ( sebbene probabilmente Dawkins non sarebbe d’accordo con l’uso che Jablonka fa del concetto) e altri tratti “epigenetici”.
 
I tratti “epigenetici” sono quelli che fanno sì che diverse cellule negli organi interni dei mammiferi contengano lo stesso DNA, ma svolgano funzioni diverse. E’ questo il caso, ad esempio, di reni e fegato. Esisterebbe quindi un meccanismo di trasmissione epigenetica che fa trasmettere un certo comportamento di generazione in generazione, indipendentemente dal genotipo.
 
Sulla scorta di Lewontin, Jablonka, considera la nicchia ecologica che si auto-perpetua (per continua ricostruzione) come un meccanismo trasmissivo. Vale a dire che la nicchia ecologica trasmette informazione di generazione in generazione senza che ciò’ debba corrispondere a un rinnovamento del DNA.
 
L’autrice riconosce che questa teoria, che sostanzialmente propone una evoluzione del fenotipo che non passa attraverso variazione del genotipo, “odorava di Lamarckismo” negli anni ’80 ed allora era inaccettabile. Ma, osserva, i tempi sono cambiati. Jablonka quindi propone di abbandonare il concetto di “replicatore” di Dawkins e di adottare il concetto di “tratti visibili ereditari” (hereditary visible traits).
 
L’autrice sostiene che non vi sono problemi nell’effettuare questa sostituzione. Anzi, adottare tale modello più ampio include tutte le “proprietà” più’ efficaci del modello del replicatore.
 
Ad esempio, il modello dawkinsiano che utilizza il gene come unità ultima della selezione naturale può spiegare i comportamenti “altruistici” che risultavano inspiegabili quando si utilizzava l’individuo come replicatore. Difatti l’altruismo è apparentemente irrazionale siccome sembra “danneggiare” l’individuo; tuttavia, porta beneficio ai geni nel loro complesso, anche se sono in un altro individuo.
 
Estendere il “fenotipo esteso”, come fa Jablonka, fa sì che l’impianto di questa spiegazione si possa mantenere invariato. Ma ora possiamo includere nella spiegazione anche comportamenti sociali ereditari (ma non genetici), quali ad es.: “comportati in modo altruistico con chi si comporta in modo altruistico con te”.
 
Dawkins commenta e replica a questi saggi in un articolo del 2004 su Biology And Philosohy. L’obiezione di Dawkins è che in molti degli esempi di cui sopra il fenotipo è “troppo esteso“, sicché, a suo dire, viola una delle basi della filosofia della selezione naturale.
 
Infatti Dawkins vuole rimanere fedele a Darwin nell’affermare che la pressione selettiva si applica solo a “replicatori”, cioè a entità che siano in grado di copiare se stesse con altissima fedeltà’ da una generazione all’altra. Secondo Dawkins, un ambiente naturale nel suo complesso non è un replicatore e questa è una differenza concettuale negli assunti di importanza fondamentale. (…) Per Dawkins [infatti], solo geni e memi sono i replicatori a noi noti.
 
Il fenotipo esteso va quindi “esteso con disciplina”. La disciplina di cui parla Dawkins vuole che il fenotipo si possa considerare esteso solo se la sua estensione di manifesta in forme che influenzano la selezione naturale sui geni che hanno provocato il fenotipo esteso stesso. La diga del castoro è un fenotipo esteso, un edificio costruito da un architetto non lo è.
 
Inoltre, perché’ si possa parlare di selezione devono poter esserci alternative. Ad esempio, per i castori ci sono: esistono dighe migliori e peggiori, che presumiamo vengano da apparati genetici diversi. Su questa diversità si esercita la selezione naturale. (…).
 
C’è confusione, secondo Dawkins, tra “costruzione della nicchia” e “alterazione della nicchia”. La presenza dell’ossigeno nell’atmosfera è un controesempio. Tale presenza è una conseguenza della chimica vegetale, e gli organismi vi si devono adattare. Ma non è una costruzione intenzionale di una nicchia: l’ossigeno non è il fenotipo esteso di nulla.
 
Sulla base dell’analisi concettuale di “presenza delle alternative”, Dawkins cerca quindi di smontare l’intera filosofia biologica di Lewontin, Laland e della “niche construction theory”. Quest’ultima è ridotta da Dawkins (…) a un mero fenomeno biologico, senza rilevanza sulla selezione naturale.
 
Dawkins si sofferma sulla teoria della Jablonka e la invita ad una [maggiore] “disciplina” scientifica. Se si dimostreranno che esistono meccanismi comportamentali ereditari che non dipendono dal DNA e che si replicano fedelmente, allora potranno essere considerati come alternativi ai geni. Ma, finché ciò non viene dimostrato, e Dawkins ritiene che non lo sia, dobbiamo assumere che ci sia un qualche coinvolgimento dei geni.
 
Il coinvolgimento dei geni deve quindi essere considerato lo ‘status quo’, il punto di partenza (mentre la Jablonka non considerava sostanzialmente alcun ‘status quo’). La disciplina che Dawkins chiede è che qualsiasi altro “replicatore” che non siano i geni deve soddisfare gli stessi due principi:
- Riproduzione con copia esatta o con altissima fedeltà’
- Possibilità’ di ripetere tale copia attraverso un numero indefinito di generazioni
 
In linea di principio, quindi, Dawkins si dichiara aperto all’idea di replicatori diversi dai geni, ma, sostiene, ancora non se ne sono visti con tali caratteristiche. Dawkins non ammette che la “persistenza” di caratteristiche ambientali si possa mettere sullo stesso piano del gene/replicatore. (…)
 
I due punti di vista sono stati parzialmente riconciliati nel mondo accademico in un workshop del 2008 della European Science Foundation. Il valore esplicativo (ma non predittivo) della teoria del fenotipo esteso è stato fermamente riconosciuto, e allo stesso tempo, anche in contraddizione con le affermazioni dello stesso Dawkins, sono stati accettate le argomentazioni dei costruttivisti . (…)
 
Il dibattito filosofico resta aperto. La teoria del fenotipo esteso rimane uno dei concetti più’ influenti nella biologia e filosofia moderni. Al momento, l’ambiente come sistema è probabilmente compreso solo a livello parziale e una “grand theory”, che unisca in modo soddisfacente la selezione genetica darwiniana degli individui e le varie teorie dell’ambiente, ancora non esiste. >>
 
LORENZO CASACCIA


mercoledì 26 luglio 2017

Dawkins e il castoro – 1

La teoria del “Fenotipo esteso” è stato elaborata dal grande biologo evoluzionista Richard Dawkins ed ha ricevuto notevoli apprezzamenti, ma anche critiche e discussioni. 
Ce ne parla Lorenzo Casaccia in questo lungo articolo (tratto da Medium.com), dedicato agli appassionati di evoluzionismo e dintorni. 
LUMEN 
 
 
<< Il concetto di “fenotipo esteso” viene esposto da Richard Dawkins nel 1982. Dawkins era già noto, anche al grande pubblico, per una visione del darwinismo incentrata sul ruolo del gene (si vedano “L’orologiaio cieco” e “Il Gene egoista”). L’idea del fenotipo esteso si appoggia sostanzialmente su due principi:

1) La selezione naturale, nel senso più generale, si applica a “replicatori”, vale a dire entità che sono in grado di copiare se stesse con grandissima precisione. Per gli organismi del mondo che conosciamo, questa entità è il gene. Il gene è quindi, per Dawkins, l’unità principe su cui si esercita l’evoluzione.

2) Il “fenotipo esteso” è la manifestazione dell’organismo al di fuori dell’immediato confine fisico dell’organismo stesso. Ad esempio: la diga è parte del fenotipo esteso del castoro, la ragnatela è parte del fenotipo esteso del ragno, e così via.

Il fenotipo esteso è quindi una delle espressioni del replicatore (cioè del gene). Come noto, i replicatori non vengono selezionati direttamente, ma vengono selezionati sulla base del loro effetto fenotipico. Dawkins quindi mostra come la pressione selettiva agisce sul fenotipo esteso (e non solo sul fenotipo), così da influenzare la scelta del genotipo. La qualità della diga, per tornare all’esempio di cui sopra, è un fattore che influenza la selezione naturale dei castori. Il fenotipo esteso diventa quindi un esempio di azione genetica a distanza.

Il dibattito filosofico/biologico più interessante tra la teoria del fenotipo esteso e le altre branche del darwinismo si è avuto riguardo alla relazione di esso con la teoria della “niche construction” anche detta NCT.

Tale teoria prese le mosse da Richard Lewontin che già dagli anni Settanta poneva l’attenzione sul fatto che gli organismi influenzano l’ambiente circostante, ognuno in modo specifico, così che ogni specie finisce per costruire una sorta di “nicchia” per se stessa. Non esiste quindi un ambiente “fisso”, che filtra gli organismi secondo i meccanismi della selezione naturale. Al contrario, organismi e ambiente co-evolvono: (…) l’evoluzione dell’organismo è una funzione dell’ambiente e dell’organismo stesso; l’evoluzione dell’ambiente è una funzione degli organismi e dell’ambiente stesso. (…)

Siccome, per ammissione stessa di Dawkins, la parte della teoria del fenotipo esteso che è stata più’ studiata e osservata è quella che riguarda la costruzione di artefatti animali (come appunto le dighe dei castori), c’è stata accesa discussione rispetto a “quanto si estende il fenotipo esteso”. Quest’ultima domanda, lungi dall’essere un gioco di parole, è la chiave interpretativa per il dibattito biologico-filosofico di questi ultimi venti anni.

In opposizione alla versione “classica” o “sintetica” della teoria dell’evoluzione, che prevede un ambiente sostanzialmente statico, i fautori della NCT sostengono che gli organismi possono modificare l’ambiente in maniera collettiva, e così’ facendo modificare la pressione selettiva sia su di sé che sugli altri organismi che non hanno partecipato a tale modificazione. Le dighe dei castori, quindi, eserciterebbero una influenza indiretta di più lungo raggio, andando a modificare i meccanismi selettivi di specie “altre” dai castori, secondo meccanismi che sarebbero ancora da comprendere pienamente.

I promotori della NCT sostengono che questi meccanismi affiancano “alla pari” la selezione naturale su base genetica. L’assunto concettuale alla base di questa visione è che esista anche una selezione naturale degli ambienti, cioè che il meccanismo darwiniano si applichi ad un ambiente nella sua globalità. Questo indirettamente significherebbe che esistono altri replicatori oltre ai geni, e questo è l’aspetto più profondamente controverso rispetto a Dawkins.

Nel 2003, Scott Turner (…) pubblica un saggio dal titolo “Extended Phenotypes e Extended Organisms”. Turner sostiene una visione profondamente opposta a Dawkins (pur sempre nell’ambito del darwinismo). Considerare solo il gene come unità riproduttiva sarebbe un grave errore. Si dovrebbe invece risalire alle basi concettuali della teoria di Darwin e da lì ripensare la natura dei replicatori.

Ad esempio, Turner discute nel dettaglio il caso delle macro-termiti e del loro termitaio come fenotipo esteso di un pool di geni che viene sia dalle termiti, che dai funghi presenti nel termitaio (i quali garantiscono l’equilibrio metabolico). Si ha quindi un fenotipo esteso (il termitaio) che deriva da un genotipo “misto” (termiti più funghi). Abbiamo quindi una relazione complessa: il successo del termitaio sembra influenzare nella stessa misura due specie differenti, e quindi due pool di geni differenti.

Turner poi si chiede “perché i geni sono i replicatori ?”. La risposta che si da’ è che sono le entità nel “sistema” che durano di più, vale a dire conservano la stessa informazione per più’ tempo degli altri elementi. Egli però trova dei contro-esempi per indicare che alcune modifiche del fenotipo, in certi casi, possono “durare di più” (ad es. certe modifiche indotte nelle ciglia di alcuni batteri che poi si propagano). In tal caso il meccanismo di selezione si sposterebbe, secondo Turner, sul fenotipo, il che costituirebbe una nozione a suo modo rivoluzionaria (…). 

In sostanza, Turner sostiene che la teoria del fenotipo esteso, se sviluppata, porta a risultati opposti a quelli desiderati da Dawkins. Anziché sancire la centralità del gene, riporta l’attenzione su fatto che in natura esista un meccanismo di selezione “variabile”. A seconda dell’elemento che “dura di più” (nel genotipo o fenotipo), si ha selezione basata sui geni, mista o sull’omeostasi [fenotipo]. Ciò facendo, Turner ritiene di avere “riportato l’organismo sulla scena”, dopo settanta anni di centralità del gene. 

Nello stesso anno, Kevin Laland pubblica un altro saggio fondamentale “Extending the Extended Phenotype”, dove ribadisce che la NCT (niche construction theory) è essa stessa parte del processo di selezione naturale, non una conseguenza. 

Per iniziare, Laland scardina la rigidità della relazione dawkinsiana tra genotipo e fenotipo: l’influenza genetica su un fenotipo è diffusa, siccome non esiste un gene singolo che caratterizza un aspetto del fenotipo, e ancor meno del fenotipo esteso. Ancor più importante è il fatto che alcuni aspetti del fenotipo esteso non sono di natura genetico-ereditaria, ma sono “appresi” e di natura “sociale”.

Laland poi torna al noto esempio dello studio di Darwin sui lombrichi: i lombrichi modificano il suolo e questo ambiente modificato si riproduce e si perpetua per ripetizione e per ereditarietà ecologica. Tale ereditarietà ecologica, in questo caso, dipende semplicemente dalla persistenza del terreno, non da una pressione selettiva su un qualche replicatore.

Un secondo esempio di Laland, altrettanto fondamentale, è quello del consumo di latticini e della capacità di alcuni uomini di tollerare il lattosio in età adulta. E’ ormai assodato che tale tolleranza è di natura genetica. Si sa anche che la prevalenza della capacità di digerire il lattosio si ha in società dove, tradizionalmente, si producono latticini. Ma i documenti storici e l’analisi genetica hanno dimostrato che l’atto di fare latticini ha preceduto la selezione di questo apparato genetico che permette di digerire il lattosio.

In questo caso quindi, alcune società hanno creato un ambiente specifico (ad esempio una organizzazione alimentare incentrata sulla pastorizia), e così facendo hanno creato una nicchia ecologica che ha poi effettuato una pressione selettiva sugli individui stessi. Questo è quindi un esempio di adattamento (o selezione naturale) dove vi è una più’ complessa interazione con l’ambiente, mediata dalle “abitudini sociali”. (…)

Kevin Laland accoglie quindi in pieno la teoria del fenotipo esteso di Dawkins, ma la sviluppa “oltre”, e la considera quindi come una sorta di “resa” di Dawkins stesso a Lewontin (NCT). >>

LORENZO CASACCIA

(continua)

mercoledì 19 luglio 2017

I giganti della fede – Il Padre Provinciale

Il capitolo XIX dei “Promessi sposi” si apre con uno dei dialoghi più famosi dell’opera: quello tra il Conte zio ed il Padre provinciale dei frati Cappuccini.
Argomento della discussione è lo scomodo padre Cristoforo, che, per aiutare Renzo e Lucia, ha osato mettersi in urto con l’arrogante Don Rodrigo.
Il confronto ci mostra, meglio di mille dissertazioni, a quali patetiche ipocrisie può abbassarsi la pratica religiosa.
LUMEN

 
<< Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: - stante l'amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d'un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz'andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d'accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c'è un padre Cristoforo da ***?

Il provinciale fece cenno di sì.
 
- Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de' padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d'oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell'ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po' numerose... c'è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po' amico de' contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que' riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più d'una volta da pensare a vostra paternità.
«Ho inteso: è un impegno, - pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna».
 
- Oh! - disse poi: - mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.
 
- Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d'una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott'occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità n'avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose... cose... Lorenzo Tramaglino!
 
«Ahi!» pensò il provinciale; e disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d'andare in cerca de' traviati, per ridurli...

- Va bene; ma la protezione de' traviati d'una certa specie...! Son cose spinose, affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant'aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perché se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so niente... e da Roma venirle...
 
- Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l'uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.
 
- Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
 

- È la gloria dell'abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest'abito...
 
- Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l'abito non fa il monaco.
 
Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l'aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
 
- Ho de' riscontri, - continuava, - ho de' contrassegni...

- Se lei sa positivamente, - disse il provinciale, - che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l'esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.
 
- Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c'è un'altra cosa disgustosa, e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C'è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.
 
- Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.

- Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato...
 
- Sarà mio dovere di prender buone informazioni d'un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall'altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato...
 
- Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d'un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?... (…)
 
Tocca a noi, - continuò, - a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d'un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C'è giusto anche l'altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po' lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s'accomoda da sé, o per dir meglio, non c'è nulla di guasto.
 
Questa conclusione, il padre provinciale se l'aspettava fino dal principio del discorso. «Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare».
 
E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, - intendo benissimo, - disse il provinciale, - quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo...
 
- È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un'iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze...
 
- Cospicue.
 
- Lei m'intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è qualche cosa. C'entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi... E poi, hanno de' parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s'estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m'obbliga a sostenere un certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto più con quell'altra circostanza... Lei sa come vanno queste cose.
 
- Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d'aver ben messo in chiaro...
 
- No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.
 
- Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c'è degli aizzatori, de' mettimale, o almeno de' curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso... L'onor dell'abito... non è cosa mia... è un deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma...
 
- Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare. - E soffiò. - In quanto ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo... noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
 
- Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest'occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d'amicizia, di riguardo... non per noi, ma per l'abito...
 
- Sicuro, sicuro; quest'è giusto... Però non c'è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso... qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s'avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c'è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po' lontana... per levar proprio ogni occasione...
 
- Mi vien chiesto per l'appunto un predicatore da Rimini; e fors'anche, senz'altro motivo, avrei potuto metter gli occhi...

- Molto a proposito, molto a proposito. E quando...?
 

- Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.
 

- Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
 
- Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l'uscio, dietro al suo vincitore.

- Abbiamo spento una favilla, - disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand'incendio. Tra buoni amici, con due parole s'accomodano di gran cose. >>

ALESSANDRO MANZONI

mercoledì 12 luglio 2017

Hiroshima mon amour - 2

Torno a parlare dell’energia nucleare, approfittando di un lungo articolo pubblicato da Effetto Risorse, dal quale ho estratto le considerazioni più prettamente economiche. 
La sensazione è che questo tipo di energia, nonostante i suoi passati splendori, abbia intrapreso un declino irreversibile, lasciando un vuoto che non sarà facile colmare. 
LUMEN


<< Le centrali nucleari statunitensi sono vecchie e in declino. Per il 2030, la generazione di energia nucleare potrebbe essere fonte di solo il 10% dell'energia elettrica, metà della produzione attuale, perché 38 reattori che producono un terzo dell'energia nucleare hanno superato i 40 anni di vita ed altri 33 reattori che producono un altro terzo di energia nucleare hanno più di 30 anni.

Anche se ad alcuni verranno rinnovati i permessi, 37 reattori che producono metà dell'energia nucleare sono a rischio di chiusura per cause economiche, guasti, inaffidabilità, lunghe interruzioni, sicurezza e costosi aggiornamenti post Fukushima (...).

Non vengono costruiti nuovi reattori perché ci vogliono anni per ottenere i permessi e devono essere raccolti dagli 8,5 ai 20 miliardi di dollari di capitale per una nuova centrale nucleare da 3.400 MW. Questo è praticamente impossibile visto che una più sicura centrale a gas da 3.400 MW può essere costruita con 2,5 miliardi di dollari in metà tempo. Quale società di servizi vuole spendere miliardi di dollari ed aspettare un decennio prima di ottenere un centesimo di introito e che venga generato un watt di elettricità ?

Negli Stati Uniti ci sono 104 centrali nucleari (in gran parte costruite negli anni 70 e 80) che contribuiscono al 19% della nostra elettricità. Anche se tutte le centrali over 40 ottenessero il rinnovo per operare per 60 anni, a partire dal 2020 è improbabile che possano ottenere il rinnovo per altri 20 anni, quindi per il 2050 quasi tutte le centrali nucleari saranno fuori mercato. (…)

I nuovi reattori nucleari sono [molto] costosi. Le recenti stime dei costi per le nuove singole centrali hanno superato i 5 miliardi. I nuovi reattori sono intrinsecamente costosi perché devono essere in grado di sopportare praticamente ogni rischio che si possa immaginare, compreso l'errore umano e i grandi disastri. (…) E dovremmo aggiungere una media di 17 centrali ogni anno, costruendo una media di 9 centrali all'anno per sostituire quelli che verranno messi in pensione, per un totale di una centrale nucleare ogni due settimane per quattro decenni; più 10 Yucca Mountain per stoccare le scorie. (…)

In generale, più si accumula energia con una data tecnologia, meno costa costruirla. Ciò è stato illustrato drammaticamente dal crollo dei costi di energia eolica e solare. Il nucleare, tuttavia, è andato in controtendenza, dimostrando invece una specie di “curva di apprendimento negativa” nel tempo.

Secondo la Union of Concerned Scientists (UCS), il costo reale di 75 dei primi reattori nucleari costruiti negli Stati Uniti hanno superato le stime iniziali di più del 200%. Più di recente, i costi hanno continuato a gonfiarsi. Sempre secondo la UCS, il prezzo di una centrale nucleare è balzato dai circa 2-4 miliardi di dollari del 2002 ai 9 miliardi di dollari nel 2008. Detto in un altro modo, il prezzo è schizzato da meno di 2.000 dollari statunitensi per kilowatt all'inizio del 2000 agli 8.000 dollari statunitensi a kilowatt nel 2008. (…)

In Europa la situazione è analoga, con un paio di esempi particolarmente clamorosi che gettano una cappa sull'industria. La costruzione di un nuovo reattore della centrale finlandese di Olkiluoto 3 è iniziata nel 2005, ma non finirà prima del 2018, nove anni in ritardo e più di 5 miliardi di dollari americani oltre il preventivo. Un reattore in Francia, dove il nucleare è la fonte principale di energia elettrica, è sei anni in ritardo rispetto al programma e più del doppio più costosa di quanto preventivato.

La storia di 60 anni o più di costruzione di reattori non offre prove che i costi scenderanno (…) Man mano che la tecnologia nucleare è maturata, i costi sono aumentati e tutte le indicazioni attuali sono che questa tendenza continuerà. Le centrali nucleari richiedono sistemi di rete enormi, visto che sono lontane dai consumatori di energia. Il Financial Times stima che questo richiederebbe l'investimento di 10.000 miliardi di dollari in tutto il mondo in sistemi elettrici nei prossimi 30 anni.

In sintesi, gli investitori non investiranno in nuovi reattori perché:

1 - Ci sono miliardi in gioco in responsabilità in caso di fusione o incidente;
2 -Potrebbe esserci uranio sufficiente soltanto per alimentari le centrali esistenti;
3 -Il costo per centrale lega il capitale troppo a lungo (possono servire 10 miliardi di dollari in 10 anni per costruire una centrale nucleare);
4 -I costi di smantellamento sono molto alti;
5 -Trattare in modo appropriato le scorie è costoso;
6 -Non c'è luogo in cui mettere le scorie (nel 2009 il Segretario all'Energia ha chiuso il sito di Yucca Mountain e non c'è sostituto in vista).

Né il governo statunitense pagherà per i reattori nucleari, dato che l'opinione pubblica è contraria: il 72% (…) non era favorevole al fatto che il governo pagasse i reattori nucleari tramite garanzie per miliardi di dollari di nuovi prestiti federali per i nuovi reattori. (…)

Ci vogliono spesso più di 10 anni per costruire una centrale nucleare perché ci vogliono anni per avere i permessi, fabbricare i componenti ed altri 4-7 anni per costruire materialmente. Questo è un tempo d'attesa troppo lungo per gli investitori, che vogliono dei ritorni molto più rapidi di questi. I tecno ottimisti possono obiettare che qualche tipo di reattore moderno potrebbe essere costruito più rapidamente.

Ma l'opinione pubblica ha paura dei reattori (giustamente), quindi è destinato a procedere lentamente, in quanto le proteste delle persone chiederanno ispezioni più severe ad ogni passo del percorso. L'opinione pubblica è preoccupata anche dai problemi di stoccaggio a lungo termine delle scorie. Quindi anche un reattore piccolo e semplice avrebbe diversi ostacoli da superare.

I mercati finanziari sono cauti ad investire in nuove centrali nucleari finché non sarà dimostrato che possano essere costruite secondo i preventivi e nei tempi stabiliti. Non sono state costruite centrali nucleari per decenni negli Stati Uniti, ma ci sono ricordi spiacevoli, perché la costruzione di alcune delle attuali centrali in opera è stata associata al superamento dei costi e a ritardi consistenti. C'è anche un divario significativo fra quando inizia la costruzione e quando si realizzano ritorni sugli investimenti.

L'energia per costruire, smantellare, trattare le scorie, ecc. potrebbe essere di più di quella che l'impianto genererà mai, un EROEI negativo. (…) Una delle principali ragioni per cui l'EROEI è basso, è a causa delle enormi quantità di energia usata per costruire le centrali nucleari, cosa che crea una grande quantità di emissioni di gas serra.

Per produrre energia nucleare sufficiente ad uguagliare l'energia che otteniamo attualmente dai combustibili fossili, si dovrebbero costruire 10.000 delle più grandi centrali nucleari possibili. Si tratta di un'iniziativi enorme e probabilmente non fattibile e a quel tasso di combustione le nostre riserve conosciute di uranio durerebbero soltanto 10 o venti anni”.

Ci sono abbastanza siti per 10.000 centrali vicino all'acqua per il raffreddamento ma non troppo in basso per evitare che l'aumento del livello dei mari le distrugga o che le siccità rimuovano le disponibilità di acqua per il raffreddamento ? >>

ALICE FRIEDMANN

mercoledì 5 luglio 2017

Avanti Savoia !

I chiaroscuri del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, in questo provocatorio (ma interessante) articolo di Giuliano Guzzo (tratto dal suo sito). LUMEN
 

<< [Nelle scuole] si continua a propagandare la storia dell’Unità d’Italia come plebiscito, come gioiosa ed applaudita passerella di garibaldini e compagni lungo la Penisola. Cosa totalmente inventata, come dimostra tutta una serie di eventi realmente accaduti durante il Risorgimento e tutt’altro che allegri.
 
Come la resistenza armata, durata sei mesi, di Federico II di Borbone. Di quei mesi molti testi scolastici riferiscono poco o nulla, ma vi furono scontri che costarono alle truppe borboniche qualcosa come 2.700 morti, 20.000 feriti e migliaia di dispersi. Un massacro dovuto – dicono gli storici – non già alla volontà del popolo italiano di unificarsi, come spesso si vuol far credere, bensì al comune rifiuto di un progetto politico che interessava, a quel tempo, appena il 2% della popolazione.
 
L’Unità d’Italia come idea estremamente elitaria, dunque, almeno all’inizio. I plebisciti di cui, in proposito, tanti libri scolatici parlano, sono pertanto colossali frottole.
 
Ma cominciamo dal principio. Tutto ebbe inizio nell’incontro segreto che, nel 1858, ebbero, a Plombières, Camillo Benso di Cavour e Napoleone III. Cavour portò con sé tre foglietti di memorie sulle questioni più urgenti da affrontare; principalmente, questioni di guerre d’annessione.
 
L’idea allora discussa, in estrema sintesi, era quella della futura tripartizione, sulla scia del modello germanico, dell’Italia: Alta Italia, Regno dell’Italia centrale e Regno di Napoli e Roma. Un’idea piuttosto interessante anche se, come sappiamo, rispetto a quelle iniziali intese le cose poi andarono molto diversamente.
 
Ma l’aspetto più inquietante, in tutto questo, fu l’atteggiamento del governo italiano o aspirante tale, disposto a cedere pezzi del proprio territorio – Nizza e Savoia – alla Francia, e a patrocinare matrimoni combinati – quello della figlia di Vittorio Emanuele II col cugino di Napoleone II – pur di farsi sostenere nel proprio progetto bellico. Progetto contrassegnato da episodi di gravità inaudita. Come quando, nell’ottobre 1860, la guerra d’invasione del Mezzogiorno e della conquista del Regno delle Due Sicilie iniziò senza nemmeno una dichiarazione formale, calpestando in pieno il diritto internazionale,
 
Il peggio, tuttavia, fu riservato alla Chiesa. E non fu un caso. Sin dal 1848, infatti, all’indomani dell’approvazione dello Statuto di Carlo Alberto, Parlamento e governo subalpino si mobilitano per ostacolare la vita ai gesuiti e agli ordini religiosi. Fanno testo, a questo riguardo, gli interventi del deputato Cesare Leopoldo Bixio, dichiarato anticlericale. Risultato: il ’48 si concluse col domicilio coatto imposto ai gesuiti e con la conversione dei loro collegi che diventarono caserme, ospedali, manicomi.
 
E quello non fu l’inizio di una persecuzione che sarebbe durata molti anni. Toccò infatti a Cavour, pochi anni dopo, attaccare le festività religiose, a suoi dire troppo numerose.
 
E solo quattro anni più tardi fu presentato in Parlamento un progetto di legge per privare di personalità giuridica gli ordini contemplativi e mendicanti. Una disposizione che coinvolse 335 case per un totale di 5.489 persone, che si ritrovarono – apparentemente senza una motivazione – bersagliati da una legge che tolse loro le proprietà donate dai fedeli, archivi e biblioteche.
 
E pensare che ancora oggi molti considerano Cavour un liberale. Con ogni probabilità senza sapere che proibì la circolazione delle encicliche di Pio IX. Chi avesse dubbi non dovrebbe fare altro che consultare quello che era il Codice penale piemontese che, all’articolo 269, puniva «severamente i sacerdoti pei peccati di parole, d’opere e di omissioni» contro il dogma liberale. Alla faccia del liberalismo.
 
Ma il personaggio che, nella memoria collettiva, gode più immeritatamente di onore e gloria è lui, Giuseppe Garibaldi. Anti-clericale d’assalto, noto massone, corsaro, trafficante di schiavi, ambientalista ante-litteram, nonché esempio per Mussolini – che riconobbe in lui il primo dittatore d’Italia -, Garibaldi gode ancora di una fama dorata.
 
Eppure ebbe una vita tormentata al punto che, per scrivere la sua storia fino a conferirgli parvenza eroica, Cavour chiamò ben quattro scrittori tra cui Alexander Dumas. Lo stesso sbarco dei Mille a Marsala fu una farsa, perché non sarebbe mai stato possibile senza il favore di due navi inglesi, “Intrepid” e “H.M.S. Argus”, lì ormeggiate.
 
Del resto, fu lo stesso Vittorio Emanuele II a ritenere Garibaldi un pericoloso criminale. Sentiamo cosa scrisse di lui a Cavour dopo lo storico “incontro di Teano”: «Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi […] questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete […] Il suo talento militare è modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di canaglie».
 
Ovviamente, il cosiddetto ”eroe dei due mondi” odiava a morte il Papa, che arrivò a definire «un metro cubo di letame». E provò, con un sonoro fallimento, ad invadere Roma. Era il settembre del 1867 e, alla guida di ottomila uomini, dopo aver espugnato Monterotondo, Garibaldi era al ponte Nomentano dove, raggiunto dalla notizia dell’arrivo di un corpo di spedizione francese, se la fece sotto e fece dietro-front.
 
Lo scontro, tuttavia, ci fu. Avvenne a Mentana e fu una catastrofe: ben 1.600 garibaldini furono fatti prigionieri ed entrarono a Roma coi francesi, acclamati dalla città come eroi e vincitori. Un episodio, questo, che la disse lunga sulla volontà dei romani di diventare italiani. Non per nulla Hübner, ambasciatore austriaco fresco di nomina, in una lettera del 5 ottobre 1867 scrisse: «I giornali italiani, moderati e rivoluzionari, mentono sfrontatamente quando parlando d’insurrezione e di insorti negli Stati del Papa. Non si vede l’ombra di un movimento. Non una città, non un villaggio si è mosso».
 
Esistono fondate ragioni per supporre che anche i veneti ed i lombardi, in realtà, fossero [poco] desiderosi di diventare subito italiani, visto e considerato che, già a quel tempo, rappresentavano un’area economicamente produttiva.
 
Per non parlare del Meridione. Il Regno delle Due Sicilie in campo economico era al primo posto in Italia e al terzo in Europa e disponeva di una eccellente marina mercantile. La Campania, poi, era addirittura la regione più industrializzata d’Europa: poteva vantare l’Opificio di Pietrarsa – dove si producevano motori a vapore, locomotive, carrozze ferroviarie e binari – e cantieri navali all’avanguardia e perennemente sommersi di ordinazioni.
 
Ma torniamo alla conquista di Roma. Che non fu affatto una pagina allegra: i bersaglieri entrarono nella Città Eterna con una cannonata, e ci furono 49 morti italiani e 19 papalini. Chi dunque pensa la Breccia di Porta Pia una marcia felice sappia che ha in mente un’immagine falsa. Come falsa è l’ormai celebre fotografia – presente in tutti i sussidiari delle elementari – che immortala i bersaglieri col fucile spianato intenti ad entrare a Roma. Fu scattata il giorno dopo, il 21 settembre, coi bersaglieri in posa propagandistica.
 
Beninteso: con queste rapide e per forza di cose imprecise incursioni storiche, non si ha certo la pretesa – né tanto meno l’intenzione – di infangare l’Italia. Tuttavia, se si considerano gli episodi sopra richiamati, forse si capiscono meglio le ragioni dell’odierna difficoltà, per gli italiani, di sentirsi nazione. >>
 
GIULIANO GUZZO