mercoledì 29 novembre 2017

L’elmo di Scipio

L’Italia unita, come noto, nacque da una serie di guerre e di battaglie (le famose guerre d’indipendenza), ma le virtù belliche degli italiani erano e rimanevano molto modeste. Ce ne parla lo storico Giordano Bruno Guerri, in questo breve passo tratto da un suo libro. Lumen


<< Il nuovo Regno d'Italia usciva dalle tre guerre d' indipendenza (nelle quali morirono «appena» 6000 uomini) con una totale mancanza di prestigio militare. I comandanti si erano rivelati divisi e incompetenti, le truppe indisciplinate e poco sensibili ai grandi appelli del patriottismo. Non era una novità.

Gli italiani avevano avuto la loro prima coscrizione obbligatoria sotto Napoleone, e non l'avevano presa bene: le diserzioni, gli imboscamenti, le richieste di esonero per i più svariati motivi erano stati moltissimi, e non si trattava solo di scarso entusiasmo per l'esercito straniero. Fino ad allora solo nel Regno di Napoli e in quello di Piemonte c'era una tradizione marziale e gli italiani non amavano il servizio militare, inteso appunto come servizio allo Stato, entità misteriosa ed estranea.
 
Di questo atteggiamento si videro gli effetti durante il Risorgimento e dopo, nelle tragiche battaglie coloniali di fine secolo e nella guerra di Libia del 1911 : «Ho sempre dovuto falsificare i bollettini degli scontri in Libia», confidò privatamente Giolitti, «per non dimostrare che si vinceva solo quando si era in dieci contro uno». Giolitti disse anche che «per due generazioni nelle famiglie italiane non si sono avviati alla carriera militate che i ragazzi di cui non si sapeva che cosa fare, i discoli e i deficienti».
 
Era in gran parte vero: per la borghesia e la nobiltà l'esercito aveva sostituito la Chiesa come sistemazione sicura e prestigiosa, ma non impegnativa. Gli ufficiali tendevano a considerare la vita militare una elegante sinecura o al più un servizio da svolgere burocraticamente, senza passione, come molti sacerdoti fino a tutto il Settecento.
 
Un altro grave problema era il disprezzo reciproco fra gli alti gradi militari e il mondo politico, che si vantavano di non sapere niente l'uno dell'altro, per «non contaminarsi». La prima guerra mondiale fece risaltare questa tragica divisione, e l'altra ancora più grave tra ufficiali e popolo.
 
Chiamati per la prima volta alla leva di massa e a un grande sforzo collettivo, gli italiani mostrarono tutta la loro debolezza militare: alle deficienze organizzative e alla mancanza di armamenti moderni e di rifornimenti si aggiunse lo scarso entusiasmo dei soldati nel battersi per uno Stato che veniva identificato con «i padroni».
 
Gli episodi di valore individuale e collettivo (poi enfatizzati fino alla nausea nella storia patria) non mancarono mai, però gli italiani hanno confermato in ogni conflitto la loro antica fama di mediocrissimi guerrieri. L'italiano è negato per la guerra, e lo si potrebbe finalmente ammettere, oggi che un lungo periodo di pace e il progresso della ragione permettono di non considerare più le guerre come un esercizio ammirevole e virile.
 
Ma, curiosamente, il valore militare viene ancora considerato patrimonio prezioso dell'onore nazionale. Grava su di noi il giudizio, tante volte ripetuto nei secoli dagli stranieri, che gli italiani «non si battono», e se lo fanno non ne sono capaci. E se avessero ragione loro?
 
Non che gli italiani siano vili o deboli - per carità - o incapaci di sacrifici, tutt'altro. La guerra però richiede organizzazione, disciplina, solidarietà. Richiede anche ferocia, fede in un ideale di Stato, certezza cieca di avere ragione e genuina capacità di odio verso altri popoli: tutte caratteristiche - buone e cattive - che ci mancano.
 
Il fenomeno ha origini antiche, si potrebbe addirittura partire dall'editto con il quale Caracalla, nel 212 e.v., affidava ai barbari la difesa della penisola. E i barbari sottomisero l'Italia.
 
La successiva civiltà comunale, se sviluppò straordinari fenomeni di cultura ed economia, non era la più idonea a creare lo spirito cavalleresco dell'onore e del sacrificio tipico delle società feudali. Per combattere, umile lavoro da barbari, Comuni e Signorie arruolavano mercenari stranieri: tutto sommato, era meglio delegare ad altri la morte in battaglia.
 
Questo atteggiamento, di per sé lodevole, nasceva da una totale mancanza di senso della collettività e la aumentava. Già Machiavelli sosteneva che solo chi sa essere un buon soldato può essere anche un buon cittadino: oggi è più giusto dire che solo un buon cittadino può essere anche un buon soldato; ma il risultato non cambia.
 
Alla mancanza di senso dello Stato si aggiunse il particolare rapporto italiani-Chiesa. Non si può dire che la Chiesa non abbia mai menato le mani (anzi fu una delle sue attività prevalenti fra il IX e il XVI secolo), però anche il papato preferiva ricorrere all'appoggio di eserciti stranieri o di mercenari.

Nel Medioevo ci fu una diatriba interminabile per decidere se la Chiesa, portatrice evangelica di pace, potesse fare o approvare guerre. Si decise che c'erano guerre «giuste» e guerre «ingiuste». Erano guerre giuste quelle approvate dal papa, ingiuste tutte le altre. Per il resto il clero diffondeva gli insegnamenti del Vangelo: uccidere non è bene; meglio porgere l'altra guancia e perdonare.
 
Fu un'educazione alla mitezza costante e idealmente meritoria, ma poco pratica in secoli nei quali la fortuna dei cittadini e degli Stati si otteneva con le armi. Per la Chiesa tutte le guerre risorgimentali furono «ingiuste». Ne derivò la mancata partecipazione al Risorgimento di tanti cattolici, l'incertezza di altri. >>

 GIORDANO BRUNO GUERRI

mercoledì 22 novembre 2017

Sogni d'oro

Il post di oggi è dedicato al sonno ed alla sua funzione, uno dei misteri scientifici più affascinanti, che continua ad impegnare strenuamente gli antropologi (ed i biologi in generale). 
In termini tecnici, il sonno può essere definito come “una temporanea, reversibile e alternante sospensione dei processi percettivi coscienti con la persistenza, a livello ridotto, degli automatismi che presiedono alla vita vegetativa”. 
Gli stadi fondamentali del sonno sono 4: leggero, medio, profondo e “paradosso”, così definito perché molto più somigliante allo stato di veglia che non a quello del sonno profondo. 
Il sonno paradosso prevede movimenti oculari rapidi (c.d. fase REM: Rapid Eye Movement) ed indica nell’uomo (ma anche in alcuni animali) lo svolgimento della fase onirica, ovvero del sogno.
Questa fase, che si ripete ad intervalli diverse volte lungo il periodo del sonno, riveste un ruolo essenziale sul benessere e sull’equilibrio psichico della persona, ed è oggetto di studi molto approfonditi da parte dei neuro-scienziati. 
Il pezzo che segue, tratto dal sito della rivista “Focus”, ci racconta le ultime novità sull’argomento.
LUMEN 

 
<< Dimenticare: [ecco] lo scopo del sonno. Dormire è il prezzo che paghiamo per avere un cervello plastico e in grado di imparare nuove cose ogni giorno: la conferma in uno studio quadriennale compiuto sui topi.
 
Di giorno le sinapsi, ossia i punti di contatto tra i neuroni, sono rafforzate da stimoli che ne aumentano numero e volume: facciamo nuove esperienze, accumuliamo ricordi e competenze. Di notte, parte di questo groviglio si disfa: le sinapsi si assottigliano di circa il 20%, i ricordi inutili sono eliminati e si fa posto a quelli del giorno che verrà.
 
La conferma del fatto che il sonno è essenziale per "fare pulizia" nella memoria umana arriva da uno studio quadriennale pubblicato su Science. La ricerca di Chiara Cirelli e Giulio Tononi, che si occupano di ricerca sul sonno presso il Wisconsin Center for Sleep and Consciousness (USA), supporta la teoria della omeostasi sinaptica, secondo la quale il sonno servirebbe a mantenere un equilibrio funzionale tra le sinapsi.
 
Quando una connessione cerebrale è ripetutamente stimolata durante la veglia, si rafforza e cresce: quella traccia di memoria si consolida, ma questa espansione deve essere a un certo punto bilanciata per evitare una saturazione dei ricordi possibili. Il processo di smaltimento può avvenire nel sonno, quando prestiamo meno attenzione al mondo esterno.
 
Per misurare i cambiamenti nelle dimensioni delle sinapsi tra il sonno e la veglia i ricercatori sono ricorsi a una tecnica chiamata microscopia elettronica in 3D. Per 4 anni hanno analizzato due aree della corteccia cerebrale di una popolazione di topi, ricostruendo 6.920 sinapsi e misurandone le dimensioni. (…)
 
Al termine della sperimentazione, quando hanno messo in relazione le misurazioni al numero di ore di riposo, gli scienziati hanno visto che un sonno di 6-8 ore era in grado di assottigliare le dimensioni delle sinapsi del 18%, in entrambe le aree analizzate e in modo proporzionale alle dimensioni delle connessioni. 

Il processo ha riguardato l'80% delle sinapsi e ha risparmiato le più grosse, coincidenti forse con i ricordi più stabili. Trasferendo il discorso all'uomo, significherebbe che ogni notte trilioni (migliaia di miliardi) di sinapsi si riducono del 20%, per lasciare spazio bianco ai nuovi ricordi.


P.S. - Il sonno perso peggiora l’umore, rallenta il pensiero, diminuisce la memoria, rende più ansiosi. 
C’è una lunga lista di conseguenze negative attribuibili alla mancanza di sonno. 
Per rendere al meglio e stare meglio, l’unica è rendersi conto che il nostro corpo ha bisogno del riposo necessario. 
Dal momento che la maggior parte di noi non può alzarsi quando vuole, l’unica soluzione è andare a letto prima la sera. 
Cosa più facile a dirsi che a farsi. 
Spesso le ore prima di coricarsi sono le uniche che possiamo dedicare a noi stessi o a fare cose per cui non c’è altro tempo durante la giornata. >>
 
FOCUS

mercoledì 15 novembre 2017

Come nasce una Costituzione

La Costituzione della Repubblica Italiana, come ci raccontano i libri di storia, venne approvata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, fu promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre ed entrò in vigore il 1º gennaio 1948. 
La sua gestazione, però, fu difficile e complicata, ed il risultato finale, per molti aspetti, criticabile. Quelle che seguono sono alcune considerazioni sull’argomento del grande storico e giornalista Indro Montanelli.
LUMEN


<< Questa Costituzione porta male gli anni da quando aveva un giorno, perché fu subito chiaro quali erano i suoi difetti. Del resto furono anche denunciati da uomini come, per esempio, Calamandrei, o come Mario Paggi.

I difetti furono soprattutto due.  

Il primo difetto fu di ripartizione dei lavori. La Costituente era formata da 600 membri eletti di passaggio. Voglio [far] notare che quella fu la prima elezione che si tenne in Italia – per la Costituente, non per il Parlamento – ma dove ci fu lo spiegamento dei partiti. Ogni partito portò i suoi candidati, cioè dei giuristi che facevano capo alla propria ideologia.

Bene, in quella prima elezione il 35% dei voti andò ai democristiani, il 21% andò ai socialisti di Nenni, il 19% ai comunisti. Quindi in quel momento... non c'era ancora il Fronte ma in quel momento i socialisti facevano premio sui comunisti. Erano di poco, ma un po' più forti dei comunisti. [...]
 
Questi 600 costituenti non potevano lavorare tutti insieme, era impossibile mandare avanti 600 persone a dibattere all'infinto le stesse cose, e allora i lavori furono devoluti a una commissione che si chiamò la Commissione dei Settantacinque, perché erano 75 membri della Costituente che venivano incaricati per le loro competenze specifiche di redigere il testo. 

 Ma anche 75 erano troppi, e allora anche i 75 si frazionarono in sotto-commissioni, ognuna delle quali lavorò per conto suo. Non ci fu un piano di insieme. Non fu un vero lavoro collettivo. Calamandrei lo disse subito: «Noi stiamo montando una macchina, che magari pezzo per pezzo sarà anche ben fatta, ma le cui giunture non coincidono con le giunture di altri pezzi». [...]
 
Fu lasciata così perché nessuno volle rinunziare al proprio elaborato, e questo è tipico degli italiani.
 
Il secondo motivo che rese questa Costituzione veramente impalatabile e nociva per il regime che ne doveva nascere, fu che i nostri costituenti partirono dal punto di vista opposto a quello da cui sarebbero partiti i costituenti tedeschi quando la Germania fu libera di elaborare una sua Costituzione. 

 Da che cosa partirono i costituenti tedeschi? Da questo ragionamento: il nazismo fu il frutto della Repubblica di Weimar. Cos'era la Repubblica di Weimar? Era l'impotenza del potere esecutivo, cioè del Governo. [...] La Germania rimase nel disordine, nel caos, nella Babele dei partiti che non riuscivano a trovare mai delle maggioranze stabili, quindi dei governi efficaci. Ecco perché Hitler vinse, perché il nazismo vinse.
 
I costituenti nostri partirono dal presupposto contrario, cioè dissero: «Cos'era il fascismo? Il fascismo era il premio dato a un potere esecutivo che governava senza i partiti, senza controlli eccetera. Quindi noi dobbiamo esautorare completamente il potere esecutivo, [negando] la possibilità di dare ai governi una stabilità, eccetera».

Per rifare che cosa? Weimar.
 

Cioè, mentre i tedeschi partivano dalla negazione di Weimar, noi arrivavamo [a Weimar] senza dirlo. Nessuno lo disse, ma questo fu il risultato. [...]
 
Non fu possibile nemmeno introdurre quella solita linea di sbarramento che invece fu introdotta in Germania, per cui i partiti che non raggiungevano non ricordo se il 5 o il 3%, non avevano diritto a una rappresentanza. No, tutti i partiti dovevano esserci e tutti avevano un potere di ricatto sulle maggioranze, che erano per forza di cose di coalizioni.

 Gli italiani non imparano niente dalla Storia, anche perché non la sanno. Non la amano, non la leggono, non se ne interessano, ma questo [fanno] anche le classi dirigenti: sono uguali, intendiamoci. (…)

Tutte le volte che si diceva «Ma qui bisogna restituire un po' di autorità al potere esecutivo, bisogna mettere i governi in condizione di governare» si diceva: «Fascista! Fascista!». Con questo ricatto qui abbiamo fatto le più grosse scempiaggini che si potesse immaginare. >>

 INDRO MONTANELLI

mercoledì 8 novembre 2017

A Sua immagine

Il vero aspetto fisico di Gesù Cristo, ovviamente, nessuno lo può conoscere. La sua attuale immagine iconografica, invece, è ben viva nella mente di tutti.
Ecco un breve excursus di Federica Senigagliesi (tratto dal sito dell'Università di Macerata) sulla nascita e l’evoluzione di questa immagine. 
LUMEN


<< A Roma, nelle Catacombe di Commodilla del IV secolo e.v., (…) compare una delle prime immagini del volto di Gesù. Racchiuso tra un'Alfa e un'Omega ("Io sono l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine", libro dell'Apocalisse, 22:13), ecco rappresentato il volto che ha segnato l'iconografia cristiana occidentale: il busto di un uomo con capelli lunghi e barba folta.

Per noi contemporanei, questa è un'immagine familiare, automatica, dogmatica: come potrebbe essere il volto di Gesù, se non così?

Quella di Commodilla [però] non è una soluzione figurativa di qualche artista particolarmente ispirato, bensì ricalca la descrizione presente in un testo apocrifo di un funzionario romano in Giudea, tale Lentulo, all'epoca della predicazione del Nazareno.

Lentulo scrive in maniera precisa e dettagliata: "E' un uomo dalla statura alta, ben proporzionata, dallo sguardo improntato a severità. I suoi capelli hanno i colori delle noci di Sorrento molto mature e discendono dritti quasi fino alle orecchie, dalle orecchie in poi sono increspati e a ricci alquanto più chiari e lucenti ondeggianti sulle spalle. La sua fronte è liscia e serenissima, il suo viso non ha né rughe né macchie ed è abbellito da un rossore. Il naso e la bocca sono perfettamente regolari. Ha la barba abbondante, dello stesso colore dei capelli: non è lunga e sul mento è biforcuta. Il suo aspetto è semplice e maturo. I suoi occhi sono azzurri, vivaci e brillanti".
 
Questo "Gesù barbuto" dall'aria seria e ieratica, si imporrà sempre di più nella cristianità fino, appunto, a diventarne l'icona definitiva. Ma il percorso e le ragioni che hanno determinato questa scelta si dipanano lungo i secoli e le vicende storiche che hanno fatto del Cristianesimo una delle religioni monoteistiche più diffuse al mondo. 

Alle origini, il linguaggio figurativo delle prime sette cristiane – che professavano il culto di nascosto, poiché gli appartenenti erano perseguitati con la condanna a morte - si affida ai simboli, proprio perchè deve restare comprensibile solo agli adepti. Cristo viene quindi espresso tramite il monogramma greco XP, o con l'uso di metafore (ad esempio, quella del pesce o dell'agnello).
 
Dopo il 313, anno dell'editto di Milano, che concede la libertà di culto anche ai cristiani e segna la fine della loro persecuzione, nasce l'esigenza di un linguaggio meno criptico e capace di condensare in sé la natura umana e quella divina di Gesù-Cristo, uomo-Dio.
 
Durante i primi secoli del Cristianesimo, quindi, si sviluppano in parallelo due differenti modi di rappresentare il Messia: quello del "divin fanciullo" e quello dell'uomo barbuto. Il primo si rifà al dio Apollo della tradizione classica pagana: pensate ai mosaici ravennati di San Vitale o di Sant'Apollinare, dove Cristo è raffigurato come un giovinetto senza barba, vestito di rosso imperiale, con le braccia allargate in atto di benedire i pani e i pesci.
 
Il secondo, invece, è la diretta traduzione del testo apocrifo, e prevarrà sul "divin fanciullo", per lo meno nel mondo occidentale, anche se ci vorranno secoli prima che ad esso si aggiunga la componente della sofferenza. Ed è proprio questo elemento – l'introduzione della passione - che farà la differenza sostanziale tra l'arte orientale e quella occidentale.
 
In linea generale, si può infatti dire che la cultura orientale-bizantina abbia privilegiato l'astrazione: pose frontali, sguardi fissi verso l'infinito, ori brillanti e rossi porpora servivano per rendere la sacralità di Cristo (sacralità che è passata per la lunga battaglia iconoclasta, che ha segnato le sorti del mondo, non solo in senso artistico). L'arte orientale è, fondamentalmente, "rivelativa", cioè rivela, tramite lo sguardo, l'essenza di Cristo come Uomo-Dio; quella occidentale è invece "narrativa", cioè è interessata a raccontare le storie di Gesù come uomo.
 
Dall'843 – con la fine dell'iconoclastia e il ripristino del culto delle immagini in Oriente – l'arte bizantina si stabilisce definitivamente sui binari dell'ortodossia: una pittura simbolica, sacra, soggetta a rigide regole figurative, che deve sollecitare la venerazione in chi le osserva. L'Oriente fa suo l'aspetto divino di Cristo, mentre l'Occidente adotta quello umano, corporeo, sensibile.
 
Quando nel Medioevo si inizia a rappresentare il tema della crocifissione - cioè quando la croce diventa simbolo non più della vittoria sulla morte (la Resurrezione) ma della Passione - il senso del tragico dirompe con tutta la sua forza: del resto, poteva la religione cristiana ignorare la morte violenta, tormentata, sofferta del suo Dio? La "Croce di Gerone" (967-976), opera lignea conservata nel Duomo di Colonia, è la prima immagine che abbiamo del nuovo Gesù sofferente: un Gesù barbuto, coi capelli lunghi e arricciolati, dal corpo stremato e appesantito.
 
Non a caso, è in periodo medievale che si diffonde la convinzione che le stigmate siano segno della grazia divina (pensiamo a San Francesco) e nascono le prime confraternite di flagellanti – ne esistono numerose sparse in tutto il mondo, ancora oggi- che si fustigano in pubblico per riviver la stessa passione del Cristo in croce. Il dolore, in definitiva, diventa il protagonista dell'arte e della cultura occidentale.
 
D'ora in poi, da Giotto a Cimabue, da Piero della Francesca a Mantegna, dai Caracci a Gauguin, Picasso e Warhol, la "divinità umanata" del Gesù barbuto diventa la chiave interpretativa dell'esperienza umana di Dio in terra. L'idealizzazione bizantina viene quasi dimenticata: il corpo è carne straziata dal dolore e così va rappresentato. La violenza, il senso del tragico – nonché del macabro - sono state espresse con tale vigoria soltanto dall'arte occidentale, coerentemente con il credo cristiano. "Non si troverà una testa mozzata in tutta la pittura non dico islamica o ebraica, ma neppure buddhista, taoista o scintonista", ha osservato Flavio Caroli (…).
 
La barba, insomma, nel nostro immaginario collettivo, appartiene, si può dire inevitabilmente, a Gesù. Non solo richiama i tratti mediorientali tipici dell'etnia cui il Gesù storicamente esistito apparteneva, ma, al contempo, denuncia la sofferenza, l'autorevolezza, il sacrificio dell'uomo più ritratto al mondo. >>  

FEDERICA SENIGAGLIESI

mercoledì 1 novembre 2017

Criminal minds

Un interessante articolo di Melissa Palumbo (tratto dal sito di Academia) sulle complesse relazioni che si sono create tra diritto e neuro-scienze, con alcune considerazioni sui possibili sviluppi futuri. 
LUMEN


<< Non è la prima volta che il “diritto” si trova ad affrontare le risultanze della ricerca scientifica: già la teoria dell’evoluzione di Darwin prima, la psicoanalisi di Freud dopo, avevano ribaltato le convinzioni comuni sulla natura e le ragioni della condotta umana. Nessuno sconvolgimento, però, ne era derivato per la costruzione giuridica. Al contrario, il sapere neuro-scientifico contemporaneo pone in crisi assunti fondamentali per l’ordinamento giuridico. (…)
 
“L’uomo scientifico” viene spiegato in base al funzionamento cerebrale, in cui la mente coincide con il substrato materiale. La coscienza come centro uniforme ed unico viene definita un’illusione, a fronte di un modello del sé frammentato, incoerente e mutevole: ne deriva una soggettività indebolita. Azioni e decisioni non sono “attribuibili” con certezza ad un individuo, dato che la maggior parte di esse è frutto di processi non controllabili.
 
Molte posizioni scientifiche riprendono e affermano un rigido nesso di causalità fisica, in cui svanisce ogni spazio di autonomia; l’individuo viene ridotto e studiato nei suoi minimi termini, esaminando patrimonio genetico e correlati neurali. La stessa “lucidità” del processo decisionale viene messa in dubbio, a causa del forte ruolo delle emozioni, risposte innate, spontanee e preriflessive. (…)
 
“L’uomo giuridico”, al contrario, ha tra i suoi presupposti la presenza di una mente autonoma (in senso funzionale) dal cervello, pur essendo questo necessario per la sua sussistenza e potendola influenzare. Ogni persona è dotata di un sé unitario e stabile, capace di discernere e guidare il suo agire. Tipicamente, il diritto concepisce le decisioni e le azioni di un soggetto come il prodotto di una rappresentazione mentale razionale, anteriore al loro compimento, e sulle quali manteniamo il controllo: in altre parole, un modello di agentività cosciente. (…)
 
Perciò, il diritto presume che ogni individuo adulto sano di mente sia libero, o meglio abbia la possibilità di scegliere tra differenti corsi di azione. La presunzione giuridica si estende anche al possesso di capacità razionali critiche verso le proprie decisioni in ogni essere umano maggiorenne. Da ciò, deriva la responsabilità personale per la propria condotta. Infine, il diritto ha la funzione caratteristica di non fermarsi a mere descrizioni dei comportamenti umani, bensì di valutarli alla luce di ciò che è lecito o illecito. (…)
 
[E’ facile] evidenziare come molti assunti del modello giuridico siano falsi e infondati, soprattutto oggi di fronte alle più recenti scoperte neuro-scientifiche. In molti, tra neuro-scienziati e giuristi, auspicano un’introduzione massiccia delle neuroscienze nel diritto ed una conseguente rivisitazione di categorie ed istituti giuridici (se non addirittura una rivoluzione dell’intero ordinamento). Il rischio, però, è di giungere a conclusioni non sufficientemente ponderate. (…)
 
Un’altra differenza fondamentale tra modello scientifico e modello giuridico dell’uomo la si trova sul piano “lessicale” e “concettuale”. Il diritto opera con concetti, quali responsabilità e imputabilità, che non appartengono alla realtà scientifica: sono costrutti strumentali di un procedimento conoscitivo volto a stabilire l’innocenza o la colpevolezza di un individuo. Un procedimento che spetta unicamente alla valutazione del giudice.
 
Il concetto di “responsabilità”, per esempio, sfugge alla comprensione delle neuro-scienze e delle scienze naturali in generale. Esse conoscono la nozione di “responsabilità” solo nell’accezione di “causazione” (ad esempio, il fattore genetico x è responsabile della predisposizione y). Tale categoria in senso giuridico, invece, va oltre; ha un’ampiezza di significato molto più vasta. (…) Il diritto richiede responsabilità in termini di “appartenenza” di certe azioni ad un determinato individuo, non solo in un senso naturalistico, ma anche in un orizzonte etico. (…)
 
Il diritto è forgiato da uomini ed è diretto a uomini, sia come singoli, sia come gruppi. Non solo: il suo scopo ultimo è e deve essere l’avvicinarsi il più possibile a “ciò che è giusto” e non fermarsi semplicemente a “ciò che è lecito”. Uno scopo, la Giustizia, che richiede inevitabilmente un ragionamento etico. (…)
 
Forse è proprio questo il punto che segna il confine invalicabile per le neuroscienze: esse non possono scoprire la sede cerebrale di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Possono descriverci cosa succede a livello neurologico quando assistiamo ad un’ingiustizia o quando la commettiamo, oppure quale regione cerebrale si attiva mentre formuliamo un giudizio. Ma sfugge dal loro orizzonte conoscitivo, dalla loro stessa terminologia, la Giustizia.
 
Un meccanismo neuronale non è giusto o sbagliato: semplicemente avviene. Sono le azioni ad essere predicabili in termini simili (teoricamente, anche i pensieri, ma il diritto deve essere rivolto ai comportamenti esterni, realizzati o anche solo tentati) (…). E il diritto possiede l’apparato terminologico e le categorie per poter esprimere un giudizio in tal senso.
 
Inoltre, proprio nell’ambito delle scienze cognitive sono state avanzate diverse ipotesi a favore di un’origine “evoluzionistica” del diritto e di un suo radicamento a livello cerebrale, (…) in una prospettiva neo-darwiniana della natura umana: le norme e i valori accolti emergono all’esito di un processo di adattamento all’ambiente naturale e, soprattutto, sociale. (…)
 
A dimostrazione di questo assunto, in biologia e in psicologia evoluzionistica si afferma che gli esseri umani, in quanto animali sociali, avrebbero la predisposizione naturale a tre regole fondamentali di comportamento: il dovere di mantenere promesse reciproche (un concetto primordiale di “contratto”); la necessaria volontarietà degli scambi reciproci (una base grezza per il diritto civile e il diritto penale); il desiderio di punire le violazioni dei due principi precedenti (una sorta di “istinto sanzionatorio”). (…)
 
I sistemi legali, [com’è noto], si sviluppano a partire da intuizioni morali generali condivise. L’inclinazione umana alla cooperazione e alla reciprocità avrebbe un'origine evoluzionistica come risposta all’ambiente: chi coopera trae vantaggio in un contesto ostile. La cooperazione, pur nascendo come mezzo, è diventata un fine in sé, a seguito della sua interiorizzazione dovuta alla forte pressione selettiva verso l’interazione sociale.
 
Anche il concetto di “sanzione” deriverebbe da meccanismi evolutivi dovuti alla selezione. Essa nasce come “punizione moralistica”, provocando un peggioramento della posizione sociale di chi viola la legge. Dapprima esercitata da singoli individui, viene poi istituzionalizzata, affidando la coercizione ai capi prima e allo Stato poi, al fine di impedirne l’utilizzo privilegiato da parte di sottogruppi.
 
Molte ricerche neuro-scientifiche sembrano indicare la naturale disponibilità delle persone a punire le violazioni di leggi (pur non ottenendone alcun vantaggio personale), ed hanno anche mostrato, con l’uso della risonanza magnetica funzionale, le regioni del cervello che si attivano quando si giudicano le punizioni per diverse violazioni.
 
È emerso che la corteccia prefrontale dorso-laterale destra, [legata alla razionalità], è l’area maggiormente coinvolta nell’assegnazione di responsabilità per i crimini; invece, l’amigdala e altre zone subcorticali, legate alle emozioni, sono correlate al grado di punizione assegnato (curiosamente, maggiore è l’attivazione, più severa è la sanzione).
 
Tuttavia, la regione corticale opera un controllo sull’amigdala, in modo tale che ad una prima risposta emotiva intervenga poi una seconda valutazione [razionale]. (…) Si può ipotizzare, dunque, che la concezione retributiva sia un istinto interiorizzato, un comportamento adattativo verso il rispetto delle norme, prodotto da meccanismi darwiniani, poi modellato dall’ambiente socio-culturale.
 
Tra le diverse linee di pensiero che si stanno formando nell’ambito del neuro-diritto, si scontrano da una parte i promotori di una modificazione dell’assetto del diritto, dall’altra coloro che sostengono fermamente che sarebbe un azzardo o, più semplicemente, una proposta irrealizzabile.
 
Tra i primi, troviamo gli scienziati cognitivi Joshua Greene e Jonathan Cohen, fermi assertori del determinismo radicale, secondo i quali ogni scelta individuale non è nient’altro che il risultato di processi cerebrali, a loro volta determinati, ed ogni azione è l’inevitabile prodotto finale dell’interazione tra geni e ambiente. A loro dire, il diritto retributivo dovrebbe lasciare il posto al “consequenzialismo”.
 
Mentre il retribuzionismo concepisce l’uomo come dotato di libero arbitrio e quindi meritevole di essere punito quando realizza un crimine, il consequenzialismo parte da presupposti contrari. Nella sua forma “pura”, di matrice utilitaristica, la prospettiva consequenzialista (…) ritiene che il criminale è privo di autonomia, razionalità e libertà di scelta, perciò la pena trova la sua giustificazione nel mero raggiungimento del suo fine, qualunque esso sia.
 
L’obiettivo devono essere gli effetti benefici futuri: la prevenzione con il deterrente della pena, la sicurezza e il conforto della società con il contenimento dei soggetti pericolosi, l’emenda del reo tramite la sanzione e la soddisfazione delle vittime. > >

MELISSA PALUMBO