sabato 24 giugno 2023

L'eredità del Fascismo – 1

Il Fascismo, avendo iniziato e concluso la sua parabola politica nella prima metà del '900, dovrebbe essere un evento ormai superato, da consegnare alla storia.
Eppure, nel suo nome, continuano periodicamente ad essere sollevate furiose polemiche, ora di fiera e rinnovata condanna, ora di parziale rilettura.
A questo apparente paradosso è dedicato il post di oggi, scritto da Uriel Fanelli per il suo blog (prima parte di due).
LUMEN


<< Il Fascismo come cultura ha [avuto] diversi aspetti. C’e’ ovviamente l’aspetto politico, ove il fascismo si distingue per lo squadrismo, la forma gerarchica dello stato e la dittatura di un personaggio carismatico. Questo aspetto e’ definitivamente tramontato, e ormai – se non altro per mancanza di carisma dei leader attuali – non rischia di tornare.

Il problema viene quando andiamo ad investigare gli aspetti che [oggi] consideriamo di sinistra. Prendiamo per esempio i sindacati. Tutti voi sarete portati a pensare che il sindacato come lo conosciamo sia una cosa “di sinistra”, ovvero che sia figlio del mondo del comunismo o dei partiti di sinistra. Questo non e’ evidentemente vero.

Nel mondo comunista o “di sinistra”, il sindacato e’ un ente in lotta, e ha lo scopo finale di espropriare la proprieta’ ed il plusvalore delle aziende – dette mezzi di produzione – a favore dei lavoratori. Esso propone una forma cooperativa di gestione, ove l’azienda e’ una cooperativa di lavoratori. E non prevede affatto alcun patronato, che e’ nemico per definizione, e contro il quale la lotta e la mobilitazione sono permanenti.

Non e’ prevista l’idea di pace o di convergenza di obiettivi tra “padroni” e “lavoratori”. L’idea di base e’ che la stessa proprieta’ dei mezzi di produzione, e l’appropriazione del plusvalore (oggi diremmo EBT) delle aziende sia un crimine contro i lavoratori, che invece meritano tutto il vantaggio economico dell’azienda. Dal momento che il sindacato e’ rivoluzionario , ovvero parte di una rivoluzione, si comporta come un ente clandestino , che ottiene i propri risultati obtorto collo, e non e’ interessato particolarmente al riconoscimento da parte dello stato, che subira’ l’immancabile rivoluzione.

Il fascismo ha una sua idea parallela. Esso riconosce l’esistenza di classi sociali, come il comunismo (per il capitalismo tutti hanno un’opportunita’ e non esistono classi ma solo merito) , ma a differenza di capitalismo e comunismo propone una societa’ pacificata.Le corporazioni, tra cui quelle dei lavoratori, esistono e devono lavorare per migliorare le condizioni di tutti, ma non devono lottare tra loro ne’ produrre tensioni sociali o lotte, tantomeno scontri.

Esse sono riconosciute dallo stato con il quale cooperano alla pacificazione sociale, e non ottengono quanto vogliono obtorto collo, bensi’ mediante un accordo corporativo con le corporazioni degli industriali, delle quali accettano la legittimita’ costituzionale. Col fascismo compaiono, come forma tipica di istituzioni pubbliche, le parti sociali. Che NON sono enti rivoluzionari, che sono riconosciute dallo stato, che svolgono una funzione riconosciuta dallo stato, e che lavorano a spegnere le tensioni sociali anziche’ alla lotta e alla rivoluzione.

Stabilito questo, appare chiara una cosa. I sindacati europei sono stati inizialmente comunisti, ovvero di sinistra, ma poi si sono “evoluti”. E quello che viene considerato un sindacalismo “moderno”, altro non e’ che l’idea fascista di sindacato. Se i sindacati moderni non parlano di rivoluzione, sono riconosciuti da leggi e costituzioni, riconoscono la controparte dei “padroni” e dialogano al fine di spegnere le tensioni, qualcuno potra’ parlare di concertazione ed altri di socialdemocrazia, ma cio’ che si sta facendo e’ di riapplicare, tale e quale, l’idea fascista di sindacato, ovvero la camera del lavoro, o corporazione che dir si voglia.

I sindacati europei moderni sono, cioe’, entita’ ideate esplicitamente dal fascismo, operano cosi’ come il fascismo le aveva pensate, e possono essere considerate entita’ fasciste a tutto tondo. Non c’e’ alcuna differenza tra il sindacato “moderno”, che agisce esattamente come pensato dal fascismo mussoliniano, e il sistema fascista, se non la struttura politica ove si inserisce.

Nella sostanza, il sindacato originale “di sinistra” appare oggi vecchio, con una terminologia obsoleta e rivoluzionaria, estremista e violento, per la semplice ragione che il sindacato moderno e’ suo naturale nemico, essendo essenzialmente un sindacato disegnato dal fascismo per pacificare la societa’. L’idea di dare legittimita’ ad ogni parte sociale chiedendo alle parti stesse di abbandonare propositi di lotta, violenza o rivoluzione per una pacificazione sociale e’ , essenzialmente, l’ideologia fascista. Tale idea nasce col fascismo ed e’ originale del fascismo stesso.

Il secondo discorso e’ quello del welfare. Checche’ se ne dica, i sistemi comunisti non hanno alcun “welfare” all’interno, per la semplice ragione che il welfare nasce – sin dal tempo romano – con l’idea di aiutare le persone in difficolta’. Che si tratti di distribuzioni di pane di fronte al Colosseo, o di ospedali pubblici o enti caritatevoli, sino agli Opifici dell’ottocento, il punto e’ che si tratta di soluzioni pensate per aiutare chi si trova in difficolta’.

Ma le difficolta’, secondo il marxismo, nascono perche’ le risorse non sono tutte di proprieta’ dello stato, che le distribuisce equalmente. Nel mondo sovietico, come in tutti i paesi comunisti, lo stato possiede tutto e lo ridistriubuisce. Questa non e’ una forma di welfare, perche’ non si tratta di un aiuto ai bisgnosi: si tratta semplicemente di appropriazione delle risorse da parte del popolo.

L’idea di welfare , ovvero di ammortizzatori sociali volti ad agire – come reazione – a favore di chi soffre di un destino peggiore e’ piu’ vecchia del fascismo, ma solo col fascismo essa diventa una forma di pacificazione sociale. E’ Mussolini il primo a pensare al welfare come ad una forma invasiva di ridistribuzione sociale su scala globale, il cui risultato e’ la pacificazione totale della societa’. Solo con Mussolini il welfare viene esteso non solo oltre l’elemosina, ovvero all’aiuto degli ultimi, ma all’intera societa’.

E’ con Mussolini che il sistema delle pensioni investe TUTTI, non solo gli anziani in difficolta’ economiche. E’ con Mussolini che improvvisamente le camere del lavoro vietano il lavoro minorile, aiutano gli studenti ad andare a scuola e premiano QUALSIASI famiglia abbia piu’ di un certo numero i figli. E’ con Mussolini che l’ideologia di welfare investe campagne , il mondo della casa, in maniera pervasiva, onniscente e senza distinzioni di classe.

Il risultato di questo e’, per la prima volta, di un welfare che senza espropriare i beni invade ogni aspetto della vita economica senza essere specifico delle classi diseredate in situazione di palese emergenza.

Se prima il welfare aiutava gli ultimi ed era indirizzato solo a loro, il welfare mussoliniano investe l’intera societa’, anche chi apparentemente ha un lavoro e non ne abbisognerebbe e’ teoricamente tutelato, e specialmente interviene laddove esistono i grandi conflitti sociali del mondo industriale, ovvero le famiglie industriali e le famiglie inurbate nelle nascenti citta’, che faticano a sostenere il peso degli anziani, per i quali viene inventato il sistema pensionistico universale.

Mussolini offre alla borghesia una societa’ pacificata dai conflitti sociali. Per fare questo, crea per la prima volta in Europa un welfare cosi’ possente da essere universale, cioe’ da coinvolgere tutti. I borghesi accettano di pagare tasse per le pensioni dei meno abbienti, perche’ sanno che questo allentera’ le pressioni sociali di quelle famiglie che non hanno piu’ un reddito agricolo sufficiente a mantenere anziani, e spegnere il crescente malcontento delle famiglie inurbate.

Chiunque, e non solo gli straccioni, beneficia di sanita’ e ammortizzatori sociali. La nascita delle camere del lavoro si occupa del problema di trovare lavoro senza per questo rivolgersi solo a disperati e barboni. >>

URIEL FANELLI

(segue)

sabato 17 giugno 2023

La settima Arte

Il post di oggi contiene la recensione di 3 film famosi, scelti fra i miei preferiti. Spero che li conosciate anche voi e che vi siano piaciuti. 
I testi sono tratti da sito di cinema 'Gli Spietati'. Buona lettura.
LUMEN


LE IDI DI MARZO

TRAMA - Le primarie democratiche in Ohio sono fissate per il 15 marzo: Stephen Meyers lavora per uno dei candidati alla presidenza, il governatore Morris, e si trova pericolosamente coinvolto negli inganni e nella corruzione che lo circondano.

<< Al quarto film da regista (...), Clooney riprende in mano il discorso sulla politica e sul potere adattando per lo schermo un'opera teatrale (...), di cui utilizza le tematiche più come fucina di elementi drammatici e come sfondo, che in una chiave di denuncia o di schieramento a favore di una tesi.

In politica, nelle campagne elettorali in particolare, quello che appare è quello che conta, il rispetto delle regole è un handicap, la contromossa – anche sporca – una cartuccia da tenere sempre a disposizione; dietro la patina immacolata si attorciglia, dunque, un groviglio di intrighi, di malaffare, di compromessi indicibili che resta sostanzialmente irrinunciabile, il prezzo da pagare per arrivare all’immagine proposta: limpida, senza increspature, icona che diventa propaganda e sostanza (...); a dire: il governatore Morris sembra un uomo affidabile, ma la sua immagine è solo la punta visibile di un iceberg sommerso.

Il film vorrebbe squarciare il velo sul dietro le quinte della strategia mediatica: il protagonista, Stephen Meyers, vero e proprio guru della comunicazione, regista della campagna che decide le tattiche, dispone le pedine in campo, muovendole secondo le esigenze, ha il compito di rendere interessanti le questioni proposte dal suo candidato, di umanizzare i dati, di fare delle statistiche un elemento attrattivo; è un uomo che ha fascino, grandi capacità, tremendamente sicuro di sé.

Ma l’eccesso di disinvoltura crea mostri: il rivale Tom Duffy, riconoscendone la bravura e la conseguente pericolosità, gli chiede di incontrarlo; ingenuamente il nostro accetta: con quel suo semplice consenso Stephen perde la partita, avendo messo in discussione, senza accorgersene, la lealtà al team al quale appartiene (Non hai fatto un errore, hai fatto una scelta).

Da quel momento la storia si complica, accumula elementi, vuole spiazzare di continuo lo spettatore dando avvio ad un’escalation che non ha battute d’arresto; fidando sulle sue ambiguità, prende strade sorprendenti, ma questa imprevedibilità diviene talmente puntuale da mostrarsi programmatica, risultando il film un thriller meccanico dalla tensione ipotetica, vittima della sua stessa metodica implacabilità.

Clooney, da parte sua, gestisce con mestiere tutti i risvolti della narrazione, i complotti e i piani cospirativi che si incrociano, ma non elabora a dovere il cambio di segno del protagonista: Stephen, provato dal suicidio della stagista-amante, messa incinta da Morris (l’aborto viene finanziato dal fondo cassa, l’eliminazione del fattaccio è del resto vitale per la riuscita della campagna) diventa improvvisamente cinico e calcolatore; da collaboratore fedele ed entusiasta, di fronte alla necessità di mettere da parte la sua fede nel candidato per le logiche impietose dei giochi di potere, avvelenato dalla politica che aveva idealizzato, si trasforma in una macchina di vendetta.

Il regista si affida a un linguaggio visivo tanto semplice quanto efficace (le silhouette di Meyers e Zara sull’enorme bandiera americana illuminata, ombre che manovrano la campagna; l’incipit e la sua eco distorta nel finale), può contare su una sceneggiatura di buon livello (i dialoghi sono il punto forte dell’opera: “Sono le puttanate che fanno i repubblicani. E sono le puttanate che li fanno vincere”), e lancia un paio di proclami veri quanto ovvi (puoi fare qualsiasi porcata, invadere un paese straniero e gettare il tuo in una crisi economica gravissima, nulla ti accadrà, ma se scopi con una stagista sei finito). (...)

E' la grande tragedia scespiriana, in cui tutti i personaggi (paradigmi contemporanei: il candidato, il portavoce, la stagista, la giornalista) possono ricoprire qualsiasi ruolo, a seconda della prospettiva che si decide di assumere, fa un lavoro sopraffino con lo scintillante cast (Gosling è un tantino granitico, ma la Tomei, in un ruolo di chiara marca maschile, come sottolineato da quell’impermeabile informe e dagli sfiguranti occhialoni, è meravigliosa).

Il risultato finale è lodevole per costruzione e freddo nell’esito, un film che resta intrappolato nella sua solida impalcatura. >> (Luca Pacilio)


CASABLANCA

TRAMA - Marocco, 1941. Rick (Humphrey Bogart), che gestisce un locale a Casablanca, incontra per caso Ilse (Ingrid Bergman), la donna da lui amata diversi anni prima e mai dimenticata, ma che ora è sposata.

<< Intreccio inverosimile (specie nello scioglimento), personaggi piatti, dialoghi pomposi, realizzazione e recitazione di solida maniera: davvero, questo film non ha nulla di speciale. Anzi, tutto. Casablanca non è solo una proverbiale variazione sul tema chiave della tradizione narrativa occidentale (il triangolo erotico), né si esaurisce nel trionfo dei suoi divini interpreti.

È un teorema sul cinema in quanto isola felice da qualche parte fra Storia e Mito, universo impermeabile ai decreti del buon senso e del buon gusto perché soggetto solo alla propria natura spudoratamente lavica. Assolutamente perfetto nella miscela di azione, umorismo, disillusione e rimpianto (tanto da risultare irritante), il film individua nell’iperbole e nell’essenzialità le proprie regole supreme.

Come dice il titolo della pièce all’origine della travagliata sceneggiatura, tutti vengono da Rick: scientifica perfidia e dissimulato eroismo sostano a pochi metri di distanza, le contraddittorie metamorfosi dell’esistenza intrecciano macabre danze fra i tavoli.

Il tempo passa ma non può nulla nei confronti di un sentimento sepolto e tutt’altro che estinto, tanto forte da rendere tremendamente plausibile il sospetto che tutto (guerra in testa) sia solo una conseguenza dell’amore (è il rombo del cannone o il battito del mio cuore?). Un’inquadratura, una battuta bastano a fissare il tono di una scena, rendendo immortale una manciata di immagini (una per tutte, Sam alle prese con la canzone proibita). Rick e Ilsa avranno sempre Parigi. E noi con loro. >> (Stefano Selleri)


TAXI DRIVER

TRAMA - Travis Bickle, ventiseienne alienato e sessualmente frustrato, reduce del Vietnam, soffre di un’insonnia cronica e lavora come tassista notturno. Affascinato da Betsy, un’assistente del senatore di New York Charles Palantine, che è candidato per le elezioni presidenziali, le dà un appuntamento.

<< Taxi Driver rappresenta uno dei punti apicali del cinema della New Hollywood. Fin dal 1967 all’interno del panorama Hollywoodiano si affermano nuovi autori, nuove modalità produttive e nuovi volti attoriali che andranno a sostituire quelli della Grande Hollywood (…) portando con sè anche un nuovo tipo di narrazione figlia dal punto di vista tematico di alcuni cruciali eventi storici e da quello formale di un diretto dialogo tra il cinema hollywoodiano e la modernità europea.

Taxi Driver si presenta come un amalgama perfettamente riuscito di tutte queste istanze. Al suo interno emergono in maniera ricorsiva, mordace le pulsioni storico/sociali che hanno contraddistinto gli Stati Uniti nella storia recente: il film di Scorsese è fondamentale anche perché riesce a farsi carico dell’onere di essere generazionale, figlio legittimo della contestazione.

La società americana mostra attraverso il film la sua ferita indelebile, la sua debolezza, la sua mancanza di speranza che vede nella morte di Kennedy la matrice generativa. I “fatti di Dallas” hanno reso debole un popolo che si sentiva invincibile, hanno creato un vuoto in un mondo dove, senza eroi, ci si sente inesorabilmente spaesati. La contestazione, la morte di JFK, ma anche il Vietnam.

Taxi Driver in fondo è anche un film sul reducismo, su un “eroe di guerra” che non riesce ad integrarsi nel mondo che ha abbandonato definitivamente dal momento che l’ha lasciato per andare in guerra, che non trova la tranquillità per addormentarsi, la cui insonnia lo trasporta in uno stato allucinatorio, che lo fa sprofondare definitivamente in uno stato d’alienazione per cui diventa normale anche far colazione con pane e whisky.

Un cinema rivoluzionario anche nell’uso del linguaggio e nei codici specifici filmici, figlio della lezione del cinema della modernità (...), che rimedia la decostruzione del montaggio grazie all’uso del 'jump cut' e del piano sequenza. (…)

I film della New Hollywood rappresentano anche una svolta del cinema americano verso il realismo ed in particolare l’attenzione per la città e il rapporto tra individuo e metropoli diventano due temi centrali, campi semantici che Taxi Driver implementa in modo esemplare:

Travis Bikle (un De Niro strepitoso, vera icona del cinema di Scorsese degli anni settanta e non solo) tassista insonne, che sia aggira di notte in una New York distrutta dalla malavita e dalla prostituzione è diventata una figura archetipica dell’immaginario americano. >> (Attilio Palmieri)



sabato 10 giugno 2023

Pensierini – LVIII

L'ESSENO E LO ZELOTA
Secondo una scuola di pensiero che ho scoperto recentemente, il Gesù Cristo raccontato dai Vangeli sarebbe la sovrapposizione di due personaggi storici, molto diversi da loro: un maestro spirituale Esseno ed un rivoluzionario Zelota.
Dal primo hanno tratto la predicazione, le guarigioni e gli altri miracoli, dal secondo la cattura, i maltrattamenti e la morte in croce, tipica di chi si opponeva violentemente all'occupazione romana.
Leggo sul Blog di Natura Mirabilis: << Le notizie in mio possesso dicono che i Vangeli sono stati scritti ad Alessandria d'Egitto, dove si erano stabiliti i Terapeuti, che altro non erano se non gli Esseni. Che sia esistito un maestro spirituale Esseno è altamente verosimile, che sulla sua figura si sia applicato il martirio di un patriota, giustiziato dai romani, forse è servito a rendere il maestro spirituale un martire, facendolo passare alla storia.
All'epoca piaceva la figura del buono che viene ucciso dai cattivi romani, occupanti di un territorio che non gli apparteneva. Gli Esseni erano guaritori; non occupandosi di politica, non hanno interferito con i piani degli occupanti romani e sono stati da questi lasciati in pace. Gli Zeloti, invece, conosciuti anche come Sicari, vedi Giuda Iscariota (Sicariota), volevano solo la libertà per la loro terra invasa dallo straniero. >>
La tesi mi piace molto e mi sembra anche convincente, perchè può dare un'ottima spiegazione di certe contraddizioni che emergono dai Vangeli, in cui il personaggio di Gesù Cristo appare ora buonista, ora violento.
Purtroppo, per quanto mi risulta, non è molto diffusa tra gli studiosi.
LUMEN


FARE IL PAPA - 1
E' piuttosto nota la battuta di George Bernard Shaw sulla stupidità associata al golf.
Volendo parafrasare il suo aforisma, ed applicarlo ad un argomento un po' più serio (anzi 'sacro'), si potrebbe dire che "non è indispensabile essere atei, per fare il Papa, però aiuta".
E la storia, secondo le malelingue, lo ha ampiamente dimostrato.
LUMEN


FARE IL PAPA - 2
Quando nel febbraio de 2013 Papa Benedetto XVI decise di (o meglio: fu costretto a) rassegnare le proprie dimissioni - evento clamoroso e [quasi] mai avvenuto nella storia del papato - avrebbero dovuto aggiornare il famoso proverbio sulla morte del Papa.
E farlo diventare così: “Sbagliato un Papa, se ne fa un altro”.
LUMEN


PERSONAGGI STORICI
Tutti i grandi personaggi che la Storia ha reso famosi erano pieni, come la gran parte delle persone, di pregi e di difetti.
Perchè allora sono diventati così famosi ?
Perchè si trovarono al posto giusto nel momento giusto, di modo che i loro pregi facessero aggio, almeno per un certo periodo, sui loro difetti.
Di molti altri personaggi simili, invece, non conosciamo neppure il nome, perchè vissero nel luogo e tempo sbagliati. Così va la storia.
LUMEN


DIALOGO TRA CITTADINI
Nelle nazioni moderne, dove non esiste più l'unità di religone (come ai tempi del 'cuius regio, eius religio'), credenti e non credenti devono per forza dialogare.
Ma devono dialogare anche i credenti A con i credenti B ed i credenti C.
Ed io mi chiedo su quale terreno comune sia davvero possibile dialogare visti i presupposti totalmente diversi su cui queste persone si basano.
Anche la Costituzione dello Stato, purtroppo, non basta, perchè per un credente i propri libri sacri vengono prima, e dicono cose molto diverse,
Si rischia di avere un dialogo sono formale, ma non costruttivo. E questo, per la coesione sociale, non è una cosa positiva.
LUMEN


RILEGGERE UN AUTORE
Può capitare che uno, da ragazzo, legga appassionatamente un certo autore e lo trovi affascinante; poi quando prova a rileggerlo in età adulta, o avanzata, lo trovi invece deludente e ci rimanga male.
Purtroppo certi ripensamenti fanno parte della vita: non sono gli autori che cambiano, perchè le loro opere sono sempre uguali; ma siamo noi che cambiamo con gli anni, ed anche molto.
Io credo che noi amiamo gli autori dai quali abbiamo l'impressione di imparare qualcosa che non sappiamo.
Ma se a un certo punto, con la maturazione, ci rendiamo conto di averli superati e di essere noi, ora, a saperne più di loro, ecco che il loro fascino scompare.
LUMEN

domenica 4 giugno 2023

Ultima Moda

Georg Simmel è stato un importante sociologo tedesco, vissuto tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, ed è considerato uno dei padri fondatori di questa disciplina.
Simmel fu tra i primi ad occuparsi dei fenomeni sociali legati ai grandi agglomerati metropolitani ed analizzò gli effetti sociali della modernizzazione con riferimento a tre temi fondamentali: la dimensione dei gruppi umani di riferimento (dal piccolo gruppo rurale al grande gruppo cittadino), la divisione del lavoro (con la conseguente frammentazione sociale) ed il dominio del denaro come espressione razionale del valore (ma anche priva di valori, in quanto impersonale).
Secondo Simmel: “I problemi più profondi della vita moderna scaturiscono dalla pretesa dell'individuo di preservare l'indipendenza e la particolarità del suo essere determinato di fronte alle forze preponderanti della società, dell'eredità storica, della cultura esteriore e della tecnica “.
Tra i vari settori della società moderna di cui si occupò Georg Simmel c'è anche il mondo della 'moda', con le sue stranezze ed i suoi apparenti paradossi.
Per Simmel, i veri protagonisti della moda sono coloro che hanno bisogno della moda come strumento di elevazione sociale. Per questo, la moda finisce per essere funzionale non tanto a chi la detta, quanto a chi la segue ed al riguardo si può parlare a buon titolo di 'moda di classe'.
A qusto interessante argomento è dedicato il post di oggi, tratto dal sito Sociologia-Tesionline.
LUMEN

 

 << Georg Simmel afferma che due sono le condizioni essenziali per la nascita e lo sviluppo della moda, in assenza di una delle quali, la moda non può esistere: il bisogno di conformità e il bisogno di distinguersi.

La moda, secondo Simmel, esprime quindi la tensione tra uniformità e differenziazione, il desiderio contraddittorio di essere parte di un gruppo e simultaneamente stare fuori del gruppo, affermando la propria individualità.

Malcom Barnard in 'Fashion as Communication' approfondisce il pensiero dell'autore, affermando che questi bisogni conflittuali sono centrali nell'analisi di Simmel, poiché rappresentano il punto focale della sua sociologia (…) e permea costantemente la sua analisi della cultura moderna: tutta la storia sociale, egli afferma, si riflette nel conflitto tra "conformismo e individualismo, unità e differenziazione". 

Gli individui sembrano sentire la necessità di essere sociali e individuali allo stesso tempo; sia la moda sia gli abiti sono modi attraverso cui questo complesso insieme di desideri e necessità vengono negoziate: “così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all'uguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione, si congiungono in un fare unitario.”

L'analisi di Simmel poggia sulla comprensione dell'esistenza di due diversi tipi di società: le società primitive e le società civilizzate. Nelle prime l'impulso a conformarsi è superiore a quello del differenziarsi, in quanto l'individualità dell'uno viene assoggettata ai valori e alle tradizioni della più ampia collettività.

Le società primitive sono governate da principi che fanno capo alla tradizione, ad antichi valori e credenze e che difficilmente vengono messi in discussione perché portatori di un'identità che vuole essere difesa nel tempo e a cui si vuole dare continuità: un'identità che si identifica con quella indiscussa del gruppo di appartenenza.

Conseguentemente, ci saranno relativamente pochi cambiamenti in ciò che le persone indossano in quanto il bisogno di esprimere la propria individualità non s'incontra con i bisogni della società.

Nelle società "civilizzate", caratterizzate dalla presenza di più numerosi gruppi sociali e quindi da una struttura sociale più complessa e articolata, il desiderio per esprimere la propria individualità viene incoraggiato dalla società stessa. Ciò che le persone indossano può essere usato per esprimere questa individualità, questa differenziazione dagli altri e da altri gruppi presenti nella società.

Moda, infatti, secondo Simmel, significa, da un lato, adesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, dall'altro, significa chiusura di questo gruppo nei confronti dei "gradi sociali" inferiori: “Il pericolo di mischiarsi e confondersi induce le "classi" dei popoli civili a differenziarsi negli abiti, nel comportamento, nei gusti…”

Oggi non parliamo più di classi sociali ma, piuttosto di stili di vita, dove [però] le dinamiche attraverso cui avviene la differenziazione non sono cambiate: continua ad esistere il bisogno di appoggiarsi ad un modello sociale (o più di uno) quale sicura piattaforma dotata di senso e il bisogno di trovare il cambiamento nell'elemento stabile, la differenziazione individuale, il distinguersi dalla generalità.

Sulla base di questi bisogni, Simmel dice, si sviluppano delle mode mediante le quali ogni gruppo accentua la propria coesione interna e la propria differenziazione verso l'esterno. L'abito alla moda, come afferma la Wilson, è usato nelle società capitalistiche occidentali per affermare sia la propria appartenenza a vari gruppi socio-culturali sia la propria personale identità, ovvero distinguendosi anche all'interno del proprio gruppo di appartenenza.

L'insistenza di Simmel nell'opposizione tra "nazioni primitive e civilizzate", quando egli si riferisce a società più o meno complesse, trova [oggi] poca fortuna e approvazione in quanto appare essere alquanto offensiva e discriminante. Egli infatti sostiene che la moda non sia possibile nelle prime, mentre trovi terreno fertile al suo sviluppo nelle seconde. >>

VALENTINA BETUOL