mercoledì 26 aprile 2017

A come Agricoltura

Ho già parlato qualche tempo fa (con un pezzo dello storico Yuval Harari) della trappola involontaria in cui si è infilato l’homo sapiens, alcuni millenni or sono, inventando l’agricoltura.
Oggi ritorno in argomento, ospitando le considerazioni di Matteo Minelli (esperto di ambiente ed ingegneria chimica presso l’università di Bologna) che ci parla dell’agricoltura, della sua origine e del suo complicato rapporto con l’ambiente.
Con qualche riflessione sulle sue prospettive future.
LUMEN


<< Un giorno ci siamo convinti di riuscire a produrre cibo meglio di come aveva sempre fatto la natura. Così nasce l’agricoltura, una storia che finirà male se non la cambiamo in fretta.

C’è un filo, per nulla sottile, che lega indissolubilmente l’agricoltura delle origini, quella delle fatiche inaudite e degli strumenti inadeguati, all’agricoltura contemporanea, in cui mezzi pesanti e fito-farmaci la fanno da padrone.

Ovviamente non si può, e non si deve, mettere sullo stesso piano l’agricoltura contadina dei nostri bisnonni, caratterizzata da una profonda conoscenza dell’ambiente e da un rapporto simbiotico con la terra, e l’agricoltura della rivoluzione verde, in cui chimica e meccanica hanno reso totalmente asettico il matrimonio tra l’uomo e la terra.

D’altro canto sarebbe un atto di cecità non comprendere che anche tra due modi così distanti di vivere una storia millenaria non vi sia un legame molto profondo e tristemente duro da spezzare.

Circa diecimila anni prima di Cristo, giorno più giorno meno, ci siamo convinti che avremmo potuto far nascere, crescere e morire numerosi tipi di vegetali meglio di come la natura aveva fatto per centinaia di milioni di anni. E da allora, vuoi per ignoranza, vuoi per necessità, vuoi per interesse, non abbiamo mai smesso di pensarla in questo modo.

Per circa duecentomila anni gli uomini sono vissuti raccogliendo i frutti che l’ambiente autonomamente decideva di offrirgli. Uno stile di vita che studi antropologici, archeologici e paleontologici hanno dimostrato essere assai più soddisfacente, da molti punti di vista, di quello che i contadini hanno potuto vantare per molti millenni in vaste parti del globo.

Qualcuno ha perfino voluto vedere nel racconto biblico della cacciata dell’uomo dall’Eden una chiara allusione del passaggio dell’umanità da una felice condizione di raccoglitori ad una sventurata di agricoltori.

Quel “tu, uomo lavorerai con dolore” pronunciato da un Dio iracondo, sicuramente lascia intendere che il futuro di Adamo non sarebbe stato roseo come il periodo passato nel Paradiso Terrestre, in cui la sua unica fatica era quella di cogliere qua e là i frutti delle piante che l’Onnipotente gli aveva gentilmente concesso. E in fondo, se deve esserci stato un peccato originale, è proprio quello dell’essersi voluti sostituire a Dio nella grande opera di pianificazione del mondo vegetale.

È un uomo nuovo quello che brandisce la zappa. Un uomo che non vuole più spostarsi, un uomo che pensa di poter far crescere in maniera indefinita la sua discendenza, un uomo che crede di poter modificare i paesaggi e decretare quali piante siano utili o dannose, accettabili o insopportabili, da conservare o da distruggere.

Un uomo che si è convinto di poter produrre in un determinato appezzamento più cibo di quello che effettivamente può offrire.

Da allora fino ai giorni nostri l’uomo, in nome dell’agricoltura, ha decretato inesorabilmente quali fossero le piante dannose e quelle utili, le piante da salvare e quelle da sacrificare. Ha disboscato le foreste perché gli serviva più spazio per le culture commestibili. Ha ucciso gli uccelli perché mangiavano i suoi semi. Ha sterminato gli insetti perché attaccavano le sue coltivazioni.

Ha selezionato le piante di cui si nutriva perché non le considerava abbastanza produttive. Ha arato, ha sarchiato e ha zappato, convinto di creare un ambiente adatto alle sue coltivazioni, mentre cercava di impedire le che altre specie vegetali vi attecchissero. Ha lasciato il suolo senza vita, come solo nelle aree desertiche accade, credendo di poter arginare il ritorno della natura negli spazi che gli aveva sottratto.

Ha fatto tutto questo fin dagli esordi della rivoluzione agricola, riscontrando impoverimento dei terreni, andamento decrescente delle rese agricole, indebolimento delle piante coltivate, erosione dei suoli. Per cercare di sopperire a questo disastro ha introdotto nel corso tempo l’agricoltura taglia e brucia, quella itinerante, l’avvicendamento e la rotazione delle culture, la fertilizzazione animale, il maggese.

Fino ad arrivare alla metà del secolo scorso quando, attraverso la chimica e la meccanica, l’uomo ha riaffermato, nella maniera più drammatica possibile, il suo ruolo di pianificatore del mondo vegetale.

I nuovi mostri legati all’agricoltura dei giorni nostri si chiamano inquinamento delle falde acquifere, dei fiumi e dei laghi, scomparsa della biodiversità, desertificazione, drastica riduzione delle risorse idriche, contaminazione dei cibi, malattie professionali per gli addetti al settore e purtroppo molto altro.

La verità è che questa agricoltura, invece di nutrire l’umanità, ha da sempre contribuito ad affamarla.

Oggi siamo quasi sette miliardi e mezzo su questa terra e purtroppo continueremo ad aumentare. Mentre la popolazione aumenta cresce la pressione sugli agricoltori affinché con sempre meno superficie e addetti facciano impennare ancora le produzioni. La combinazioni di questi due fattori finirà per acuire ancora di più tutte le conseguenze nefaste che questo modello agricolo si porta appresso.

Qual è allora l’alternativa praticabile a questo sistema?

Ovviamente, anche se lo volessimo, siamo in troppi per tornare a raccogliere il cibo che la natura ci offre liberamente. Tuttavia possiamo iniziare a praticare un nuovo tipo di agricoltura, in cui invece di essere protagonisti siamo spettatori, invece di fare impariamo a guardare, invece di togliere cominciamo a mettere.

Un’agricoltura che si porta appresso i semi di un cambiamento più grande di lei. Perché se è vero che ogni sistema economico e politico ha alla base un certo modello agricolo, allora una “agricoltura naturale” sarà il fondamento di un’altra società. > >

MATTEO MINELLI

mercoledì 19 aprile 2017

Elogio postumo

E se Gesù Cristo fosse stato un vero capo militare ? E se fosse caduto per una congiura politica ? E se Shakespeare gli avesse dedicato una delle sue tragedie ? Forse avremmo potuto leggere qualcosa del genere.
LUMEN


PIETRO - Giudei, amici, compatrioti, vogliate darmi orecchio. Io sono qui per dare sepoltura a Gesù, non già a farne le lodi. Il male fatto sopravvive agli uomini, il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia anche di Gesù.
V’ha detto il nobile Caifa che Gesù era uomo ambizioso di potere: se tale era, fu certo grave colpa, ed egli gravemente l’ha scontata.
Qui, col consenso di Caifa e degli altri - ché Caifa è uomo d’onore, come lo sono con lui gli altri - io vengo innanzi a voi a celebrare le esequie di Gesù.
Ei mi fu amico, sempre stato con me giusto e leale; ma Caifa dice ch’egli era ambizioso, e Caifa è certamente uomo d’onore.
Ha addotto a Gerusalemme molti prigionieri, Gesù, e il loro riscatto ha rimpinguato le casse dell’erario: sembrò questo in Gesù ambizione di potere?
Quando i poveri hanno pianto, Gesù ha lacrimato: l’ambizione è fatta, credo, di stoffa più ruvida; ma Caifa dice ch’egli fu ambizioso, e Caifa è uomo d’onore.
Alla Pasqua - tutti avete visto - per tre volte gli fu offerta la corona e per tre volte lui la rifiutò. Era ambizione di potere, questa? Ma Caifa dice ch’egli fu ambizioso, e, certamente, Caifa è uomo d’onore. Non sto parlando, no, per contraddire ciò che ha detto Caifa: son qui per dire quel che so di Gesù.
Tutti lo amaste, e non senza cagione, un tempo. Qual cagione vi trattiene allora dal compiangerlo? O senno, ti sei andato dunque a rifugiare nel cervello degli animali bruti, e gli uomini han perduto la ragione?
Scusatemi… il mio cuore giace là nella bara con Gesù, e mi debbo interrompere di parlare fin quando non mi sia tornato in petto.

GIUDEI - Mi sembra che ci sia molta ragione in quel che ha detto. Certo, a ripensarci, Gesù ha ricevuto grandi torti. Avete ben notato quel che ha detto? Non ha voluto accettar la corona: allora è certo, non era ambizioso. Se davvero è così, qualcuno la dovrà pagar ben cara.

GIUDEI - Pover’anima, ha gli occhi tutti rossi come il fuoco, dal piangere. Non c’è uomo più nobile di lui a Gerusalemme. Ecco, riprende a parlare.

PIETRO - Ancora ieri, la voce di Gesù avrebbe fatto sbigottire il mondo: ed ei giace ora là, e nessuno si stima tanto basso da render riverenza alla sua spoglia. Oh, amici, fosse stata mia intenzione eccitare le menti e i cuori vostri alla sollevazione ed alla rabbia, farei un torto a Caifa ed un torto ad Erode, i quali sono uomini d’onore, come tutti sapete. Non farò certo loro questo torto; preferisco recarlo a questo ucciso, a me stesso ed a voi, piuttosto che a quegli uomini onorevoli.
Ma ho qui con me una pergamena scritta, col sigillo di Gesù; l’ho rinvenuta nella sua camera: è il suo Nuovo Testamento. Se solo udisse la gente del popolo quello ch’è scritto in questo documento - che, perdonate, non intendo leggere - andrebbe a gara a baciar le ferite di questo corpo, e a immergere ciascuno i propri lini nel suo sacro sangue; e a chiedere ciascuno, per reliquia, un suo capello o un lembo del suo sudario, di cui far menzione in morte, per lasciarlo in testamento, prezioso lascito, ai suoi nipoti.

GIUDEI - Il nuovo testamento, lo vogliamo udire. Leggilo, leggilo ! Il testamento! Il testamento! Vogliamo sentire quali sono le volontà di Gesù.

PIETRO - Gentili amici, no, siate pazienti, non lo debbo leggere. Non è opportuno che voi conosciate fino a che punto Gesù vi amasse. Non siete né di legno, né di pietra, ma siete uomini, e, come uomini, sentendo quel che Gesù ha disposto, v’infiammereste, fino alla pazzia. È bene non sappiate che suoi eredi siete tutti voi, perché, se lo sapeste, oh, chi sa mai che cosa ne verrebbe!

GIUDEI - Leggi quel testamento! Vogliamo udire quel che dice. Devi leggere la sua volontà!

PIETRO - Davvero non volete pazientare? Non volete aspettare ancora un po’? Ho trasgredito a me stesso a parlarvene. Fo torto, temo, agli uomini d’onore i cui pugnali hanno trafitto Gesù.

GIUDEI - Che “uomini d’onore”? Traditori! Vogliamo il testamento! Scellerati! Assassini!… Il testamento! Leggici il testamento!

PIETRO - Mi costringete, dunque, a forza a leggerlo? Allora fate cerchio tutt’intorno al cadavere di Gesù e lasciate ch’io scopra agli occhi vostri colui che ha fatto questo testamento. Devo scendere? Me lo permettete?

GIUDEI - Vieni giù. Scendi. È questo che vogliamo. Stiamo in cerchio. Discostatevi dalla bara. Non ci accalchiamo tutti sul cadavere. Fate largo, fate largo.

PIETRO - No, no, non dovete accalcarvi intorno a me, state discosti.

GIUDEI - Indietro, gente, indietro!

PIETRO - Ora, se avete lacrime, Giudei, preparatevi a spargerle. Il mantello lo conoscete tutti: io ho, nel mio ricordo, la prima volta ch’egli l’ha indossato: nella sua tenda, una sera d’estate, il giorno stesso che sconfisse i Filistei. Guardate: in questo punto è penetrato il pugnale di Caifa; qui, vedete, che squarcio ha fatto nella sua ferocia Barabba, e per là è poi passato il pugnale del suo diletto Giuda; e quando questi ha estratto da quel varco il maledetto acciaio, ecco, osservate come il sangue di Gesù ne è uscito, quasi a precipitarsi fuor di casa per sincerarsi s’era stato Giuda, o no, che avesse così rudemente bussato alla sua porta: perché Giuda era l’angelo di Gesù, lo sapete. E voi siete testimoni di quanto caramente egli l’amasse!
Questo di tutti i colpi è stato certamente il più crudele: perché il nobile Gesù quando vide colui che lo vibrò, l’ingratitudine, più che la forza delle braccia degli altri traditori, lo soverchiò del tutto, e il suo gran cuore gli si spezzò di schianto; e, coprendosi il volto col mantello, ai piedi della statua di Mosè, che intanto s’era inondata di sangue, il grande Gesù crollò e cadde.
Oh, qual caduta, miei compatrioti, è stata quella! Tutti, in quell’istante, siamo caduti, mentre su di noi trionfava nel sangue il tradimento. Oh, ora voi piangete; e la pietà, m’accorgo, fa sentire in voi il suo morso: son generose lacrime, le vostre; e voi piangete, anime gentili, e avete visto solo sulla veste del nostro Gesù le sue ferite. Guardate qua: il suo corpo straziato dai pugnali traditori.

GIUDEI - Uh, quale scempio! Oh, magnanimo Gesù! O infausto giorno! Infami traditori! Oh, che orribile vista! Quanto sangue! Vendicarlo dobbiamo. Sì, vendetta! Vendetta! Attorno, frugate, bruciate, incendiate, uccidete, trucidate, non resti vivo un solo traditore!

GIUDEI - Silenzio, olà! Ascoltiamolo ancora. Ti ascolteremo, ti seguiremo, moriremo con te.

PIETRO - Miei buoni amici, miei cari amici, non fatemi carico d’istigarvi ad un simile improvviso flutto di ribellione. I responsabili di quest’azione sono gente d’onore. Quali private cause di rancore possano averli indotti, ahimè, a compierla, non so: essi sono saggi ed onorevoli e vi sapranno dire le ragioni.
Non son venuto, amici, a rapire per me il vostro cuore; non sono un oratore come Caifa, sono - mi conoscete - un uomo semplice che amava Gesù con cuor sincero; e questo sanno bene anche coloro che m’han concesso il loro beneplacito a parlare di lui così, in pubblico; perché io non posseggo né l’ingegno, né la facondia, né l’abilità, né il gesto, né l’accento, né la forza della parola adatta a riscaldare il sangue della gente: parlo come mi viene sulla bocca, vi dico ciò che voi stessi sapete, vi mostro le ferite del buon Gesù, povere bocche mute, e chiedo a loro di parlar per me.
S’io fossi Caifa, e Caifa fosse me, allora sì, che qui a parlare a voi vi sarebbe un uomo ben capace di riscaldare gli animi e di dar voce ad ogni sua ferita per trascinare a Gerusalemme anche le pietre alla rivolta ed all’insurrezione!

GIUDEI - E così noi faremo! Insorgeremo! Daremo fuoco alla casa di Caifa ! Via, dunque, a caccia dei cospiratori!

PIETRO - No, amici, ascoltatemi ancora. Ho ancora da parlarvi.

GIUDEI - Olà, silenzio! Sentiamo ancora quel che vuole dirci il nobilissimo.

PIETRO - Ma, amici, andate a far non sapete che cosa. Sapete perché Gesù ha tanto meritato il vostro affetto? Ahimè, m’accorgo che non lo sapete. Dunque bisognerà che ve lo dica. Il nuovo testamento di cui v’ho parlato l’avete già dimenticato?

GIUDEI - È vero! Sentiamo quel che dice il testamento.

PIETRO - Eccolo qua: col sigillo di Gesù: lascia a ciascun giudeo, cinque pani e due pesci, ciascuno moltiplicato per dieci.

GIUDEI - Gesù nobilissimo! Vendetta! Della sua morte faremo vendetta! Oh, Gesù regale!

PIETRO - Ascoltatemi ancora con pazienza.

GIUDEI - Silenzio, olà! Silenzio!

PIETRO - Inoltre vi ha lasciati tutti quanti eredi dei giardini, delle vigne e degli orti da lui fatti piantare nell’Eden recentemente: li lascia tutti a voi e ai vostri eredi, in perpetuo possesso, perché siano luoghi eterni di divertimento per passeggiate e per ricreazione. Questo era, amici, il vero Gesù. Quando ne verrà uno come lui ?

GIUDEI - Mai, mai! Venite, cremiamo il suo corpo nel luogo consacrato, e coi tizzoni accesi diamo fuoco alle case di questi traditori! Prendete su il cadavere! Avanti, andiamo, prepariamo il rogo! Fracassiamo le panche e le finestre, i sedili di legno ed ogni cosa!

PIETRO - Ora che tutto funzioni da sé. Ormai sei scatenato, o maleficio: prendi il corso che vuoi !

mercoledì 12 aprile 2017

Pro bono pacis

La parola “Pace” è un termine universalmente positivo, ma, ovviamente, c’è pace e pace.
La Pax Romana, per esempio, è passata alla storia per indicare una stabilità politica certamente lunga, ma anche figlia della tirannia. In un noto passo di Tacito, un generale nemico di Roma usò queste parole di fuoco per definire i dominatori del mondo: “Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero. Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace.”
Ovviamente, i Romani erano dei conquistatori, ma certi problemi si presentano anche in caso di semplici dittature nazionali.
Cosa si deve pensare, allora, della stabilità sociale portata dalla tirannia ? E’ più importante la pace o è più importante la libertà ? 
Quelle che seguono sono alcune considerazioni sull’argomento tratte dal sito “IL POST”.
LUMEN



<< Sul settimanale tedesco Der Spiegel, la giornalista Christine Hoffmann ha cercato di rispondere a una domanda che si è sentita spesso negli ultimi anni: i dittatori sono davvero la cosa peggiore che può capitare ad un paese ? Si tratta di un problema molto attuale [l’articolo è dell’ottobre 2014 – NdL], visto che negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla caduta di diversi regimi indubbiamente odiosi, autoritari e violenti.

Spesso i dittatori sono stati rimossi direttamente o indirettamente con l’aiuto dei paesi occidentali, con operazioni animate dalla speranza che, dopo la deposizione del dittatore di turno, arrivasse democrazia, stabilità e crescita economica. Purtroppo, spesso alla fine dei regimi autoritari è seguita l’anarchia, che in molti casi ha prodotto più morti e più sofferenza del regime precedente.

L’esempio più noto di questo fenomeno è sulle prime pagine dei giornali internazionali dall’inizio dell’estate: l’Iraq. Nel 2003 il dittatore Saddam Hussein fu deposto a seguito di un’operazione militare americana. Nei dieci anni successivi nel paese ci sono state due violente guerre civili (la seconda è ancora in corso). Tra una e l’altra, ha detto l’ex primo ministro britannico Tony Blair, ci sarebbe potuta essere la possibilità di costruire una società stabile e prospera.

Le cose però non sono andate così, e il risultato è che oggi l’Iraq – o almeno una buona parte – è di fatto un paese in guerra. Possiamo confrontare l’Iraq di oggi con quello prima del 2003 ? Secondo le stime più ampie, tra il 1979 e il 2003 il regime di Saddam causò direttamente la morte di un milione di iracheni (in gran parte a causa della guerra con l’Iran che si combatté dal 1980 al 1988, della repressione dei curdi alla fine degli anni Ottanta e di quella degli sciiti dopo la Prima guerra del Golfo).

Secondo l’“Iraq Body Count”, negli ultimi undici anni – cioè da quando è stato deposto Saddam Hussein ad oggi – circa 200 mila persone sono morte nei combattimenti e nelle violenze che ci sono stati nel paese. Il meglio che si può dire è che la caduta di Saddam Hussein non ha reso l’Iraq più sicuro.

La Libia, dopo la caduta dell’ex presidente Muammar Gheddafi, è in una situazione simile. Il governo centrale non esercita il controllo su quasi nessuna parte del suo territorio, mentre milizie più o meno indipendenti – ribelli islamisti e fazioni dell’esercito – si affrontano per il controllo del gas e del petrolio. In Siria, anche se il regime non è ancora caduto, la sua presa totalitaria sul paese si è sfaldata e da tre anni è in corso una delle più sanguinose guerre civili degli ultimi decenni.

Come scrive Hoffmann, ci sono tutti i motivi per essere felici quando un dittatore cade: in genere significa la scomparsa di un violento criminale sociopatico. E c’è la possibilità che la sua caduta apra la porta alla democrazia, alla stabilità e alla crescita economica (è quello che, almeno per ora, sembra che stia succedendo in Tunisia). Non tutto comunque è meglio di una dittatura.

Il punto, come fanno notare molti scienziati politici, è che le dittature, anche quelle più sanguinarie, sono per definizione molto abili nel mantenere l’ordine e nel conservare il monopolio della violenza. In altre parole, affinché una dittatura funzioni è necessario che abbia un’efficace forza di sicurezza.

Certamente questi poliziotti saranno impiegati per reprimere il dissenso, per rapire e probabilmente uccidere gli oppositori politici. Ma molto probabilmente saranno utilizzati anche per evitare, ad esempio, che le varie componenti etniche del paese inizino guerre civili. Un croato bosniaco spiegò così come erano riuscite a convivere le varie etnie jugoslave durante la dittatura di Tito: «Vivevamo in pace e armonia, perché ogni cento metri c’era un poliziotto, che si assicurava che ci amassimo a vicenda».

Nel libro “Il declino della violenza“, lo psicologo evoluzionista Steven Pinker ha raccolto numerose statistiche che confermano questa tesi. I paesi dove è più probabile che scoppi una sanguinosa guerra civile non sono le democrazie e nemmeno le dittature vere e proprie. Sono le vie di mezzo: stati in cui il governo non è in grado controllare il proprio territorio, dove non ci sono efficaci forze di polizia.

Secondo Hoffmann può sembrare una posizione incredibilmente cinica, ma in questi giorni sembra difficile non ammettere che una dittatura oppressiva sia a volte migliore per la popolazione che la subisce rispetto all’anarchia e al fallimento dello stato. Secondo Hoffmann, in Europa siamo oramai abituati a dare per scontato l’esistenza di uno stato funzionante (stati efficienti esistono in Europa oramai da centinaia di anni).

Il collasso dell’Unione Sovietica avrebbe rafforzato questa nostra convinzione. Negli anni Novanta, in Europa orientale, non c’è stata un’anarchia di tipo mediorientale: i vecchi regimi sono stati più o meno pacificamente sostituiti da democrazie più o meno funzionanti (con la parziale eccezione della Jugoslavia). Questo ha creato l’illusione che i dittatori fossero l’unico ostacolo sulla strada della democrazia. Eliminato il regime, libertà e prosperità sarebbero arrivate come conseguenza naturale. La storia del Medio Oriente negli ultimi dieci anni ha mostrato che non è così.

La domanda di Hoffmann quindi diventa: la stabilità è un bene di per sé? La risposta è ovviamente complicata. Non può essere un “sì” a qualunque costo, ma bisogna riconoscere che è un valore: in moltissimi casi nel corso della storia gli esseri umani hanno rinunciato a una parte delle loro libertà, proprio in cambio della stabilità.

La storia del Novecento è ricca di dittatori (Mussolini, Stalin, Hitler) arrivati al potere dopo un periodo di disordine. Il mondo occidentale deve fare molta attenzione quando decide di intervenire per rimuovere una dittatura, dice Hoffmann, sia che lo voglia fare con i bombardamenti, le sanzioni o l’appoggio alle forze d’opposizione. È fondamentale considerare cosa accadrà dopo che il regime sarà stato rimosso.

Secondo Hoffmann questo è esattamente il pensiero dietro la reticenza di Obama a impegnarsi in Siria e negli altri conflitti cominciati in Medio Oriente in questi ultimi anni: «Si tratta», ha spiegato Obama, «di una lezione che applico ogni volta che mi pongo la domanda: “Dovremmo intervenire militarmente? Abbiamo un piano per il giorno dopo?”». >>
 
IL POST

mercoledì 5 aprile 2017

Pensierini - XXXII


GLOBALIZZAZIONE
Dicono i fautori della globalizzazione che "dove non passano i beni, passano gli eserciti". Cioè: più scambi economici, meno conflitti.
Il concetto è interessante e, probabilmente, vero.
Così, tanto per fare esempio, qualcuno faceva notare che i fast-food di "Mc Donald" erano diventati un indice di pace, nel senso che le nazioni che accettavano questo tipo di locali non si facevano più la guerra tra di loro.
D'altra parte le guerre servono (soprattutto) per avere dei guadagni e, in tempo di vacche grasse (ovvero di crescita dell'economia e del benessere), è abbastanza evidente che gli affari reciproci rechino più vantaggi degli ipotetici bottini di guerra.
Tutto questo però, funziona sino a che la torta cresce.
Quando smetterà di crescere, ed inizierà invece a ridursi, non solo in assoluto, ma anche (e soprattutto) a livello “pro capite”, per il continuo aumento della popolazione, come si potrà ancora pensare ad un mondo in cui gli affari prevalgono sulla guerra ?
LUMEN


MARKETING
Si dice che le tecniche di marketing abbiano bisogno di fantasia ed inventiva, ed è vero, ma spesso è solo un problema di pensiero laterale, ovvero di saper vedere le cose in un modo diverso. Come dimostra questa storiella.
Un grosso commerciante di scarpe del Sudafrica, intenzionato ad allargare il proprio business, decise di mandare due suoi incaricati nelle regioni meno civilizzate dell’entroterra, per vedere cosa ne poteva ricavare.
Passati quindici giorni, il primo venditore tornò a riferire.
« Pessime notizie, capo – disse con voce mesta - Ho girato tutta la provincia di K., ma lì nessuno porta le scarpe. »
Il giorno dopo, si presentò anche il secondo venditore.
« Ottime notizie, capo. – disse con espressione allegra - Ho girato tutta la provincia di W., e lì nessuno porta le scarpe. »
LUMEN


DITTATORI
E’ opinione comune che i dittatori siano degli psicopatici o, quanto meno, dei sociopatici.
La cosa mi pare inevitabile, tenuto conto che, per le decisioni che amano prendere, la normale empatia degli esseri umani sarebbe un impiccio, se non addirittura un ostacolo insormontabile.
Così, tanto per fare un esempio vicino a noi, Benito Mussolini disse una volta di sé stesso: “Non posso avere amici, non ne ho. Ma non ne sento la mancanza“.
Eppure la gente di segue e spesso li adora, o comunque li apprezza.
Potenza della propaganda (e del gregarismo).
LUMEN


LONGEVITA’
I demografi fanno notare che l’aumento esponenziale della popolazione mondiale è dovuto non solo all’aumento della fertilità, ma anche alla diminuzione della mortalità ed alla progressiva longevità, due cose che non possiamo certo condannare.
Il ragionamento è corretto, ma qui entriamo nell'eterno braccio di ferro tra il “gene” e il “fenotipo”.
Noi esseri umani, in quanto fenotipi, vogliamo una vita lunga, comoda ed in salute, ed è giusto che sia così.
Ma il piccolo gene guarda più lontano, e preferisce un fenotipo dalla vita breve ma molto prolifica alla situazione inversa, visto che la durata di un gene (o di un pool genico) non è neppure paragonabile a quella di un singolo fenotipo.
Quindi cosa possiamo fare ?
1 - anzitutto essere TUTTI consapevoli di questo meccanismo.
2 - poi convenire che è preferibile accontentare il fenotipo che non il genotipo.
3 - e quindi, per logica conseguenza, godersi senza problemi la fitness e la longevità del fenotipo, ma limitando in modo drastico le nascite future.
Lo so che sembra fantascienza, ma si tratta di traguardi che, tecnicamente, sono ampiamente alla nostra portata, per cui, una volta raggiunto il punto 1, tutto il resto verrebbe per logica ed inevitabile conseguenza.
LUMEN


IGNORANZA
A proposito della figura storica e filosofica di Gesù, Arno Schmidt propone una prospettiva provocatoria, ma interessante:
<< Cosa diremmo oggi - dice Schmidt - se arrivasse un giovanotto da un qualche irrilevante stato nano delle regioni orientali; padrone di nessuna delle grandi lingue di cultura; totalmente ignaro di quanto hanno prodotto nei millenni la scienza, l'arte, la tecnica, senza contare le religioni precedenti, e si presentasse a noi con parole grosse: «Io sono la via; e la verità; e la vita» ? Ma fu precisamente questo il caso di Gesù di Nazareth: non capiva né il greco né il romano, le due lingue su cui da centinaia d'anni ogni cultura degna di nota poggiava (e poggia !). Gli erano ignoti tanto Omero e Platone quanto Fidia ed Eratostene: ciò che asserisce gente simile, è per me già in partenza inaccettabile ! >>
Viene il sospetto che la presunta sapienza e saggezza di Gesù siano solo il frutto della sua leggenda.
LUMEN