venerdì 27 novembre 2015

Procreazione assistita

GIUSEPPE - Maria, mia dolcissima fidanzata, c'è qualcosa di cui volevo parlarti.
MARIA – Dimmi, Giuseppe, mio promesso sposo.

GIUSEPPE - Sembri ingrassare attorno alla vita, e vomiti ogni mattina, e, ehm, non hai alcun periodo. Il che è strano, perché è come se…
MARIA – Fossi incinta ?

GIUSEPPE – Ecco sì, proprio quello.
MARIA – Ebbene sì ! Sono incinta ! Va bene ? Sono INCINTA !

GIUSEPPE - E come è possibile?
MARIA - Secondo te ?

GIUSEPPE - Non lo so, è per questo che te lo sto chiedendo. Voglio dire, sei ancora vergine, giusto ?
MARIA – Ma certo...

GIUSEPPE - Allora ?
MARIA - È stato Dio.

GIUSEPPE - Hai fatto sesso con….
MARIA – Ma no, no ! Naturalmente no ! Voglio dire, sai come fa Dio ? Ha semplicemente schioccato le dita, ha fatto una di quelle cose miracolose che fa lui e mi ha resa incinta.

GIUSEPPE - Dio ti ha resa incinta ?
MARIA - Sì.

GIUSEPPE - Maria, questo è semplicemente... assolutamente...
MARIA – …oddio…

GIUSEPPE – Bellissimo !
MARIA - Lo pensi davvero ?

GIUSEPPE – Naturalmente ! Chi non la penserebbe così ? Forza, dobbiamo raccontare la notizia a tutti !
 

MARIA - Forse dovremmo tenere la cosa tra noi due.
GIUSEPPE – Ma no, no, sciocca ragazza, questo è troppo importante ! Andiamo !



RABBINO - Cos'è questa storia, Giuseppe ? Spero vi sia una buona ragione per tutto questo clamore.
GIUSEPPE - Forza, Maria ! Di' anche al Rabbi quello che hai detto a me.
MARIA - Ehm...

GIUSEPPE – Su, coraggio.
MARIA - Dio mi ha resa incinta.

RABBINO - Giuseppe, Giuseppe, sai che non dovresti farlo prima…
GIUSEPPE - No, no, voi non capite !  È ancora vergine !  Dio l'ha resa incinta direttamente !

RABBINO - Quindi, quello che mi stai dicendo, praticamente, è che Maria è ancora una vergine ?
GIUSEPPE – Uh, uh !
 

RABBINO - E tu non hai fatto sesso con lei ? 
GIUSEPPE – Proprio no.
 

RABBINO - E che ora lei è incinta ?  
GIUSEPPE - Precisamente.
 

RABBINO - Quindi tu pensi che sia stato Dio a farlo ?  
GIUSEPPE - Quale altra spiegazione potrebbe esserci?
 

RABBINO - Giuseppe, questo è proprio... incredibilmente...
MARIA - … oddio ...

RABBINO – Fantastico !
GIUSEPPE – Appunto.

RABBINO - Un miracolo ! Un miracolo proprio qui a Nazareth !
GIUSEPPE – Che bello !

RABBINO - Pensavo che i miracoli accadessero solo a Gerusalemme !
GIUSEPPE – Anche io.

RABBINO – Forza ! Andiamo a diffondere la buona notizia ! 

GIUSEPPE – Andiamo !
 



ELISABETTA - È stato Dio ?
MARIA – Cioè… Mi sono fatta prendere dal panico ! È tutto ciò a cui sono riuscita a pensare !


ELISABETTA – Ma chi è il vero…
MARIA – Ehm. E’ quello a cui lo abbiamo raccontato.

ELISABETTA - Ah. Quindi è per questo che il Rabbi è stato al gioco.
MARIA - Beh, lui pensa di essere il padre, ad ogni modo. Perché, è importante ?

ELISABETTA - Da' una prospettiva differente a certe cose.
MARIA – Tipo ?

ELISABETTA – Adesso il Rabbi va dicendo in giro che tu, Maria, sei l'incarnazione definitiva della virtù femminile, che per questo Dio ha scelto proprio te come eletta tra le elette, e che tuo figlio diventerà la luce del nostro popolo.
MARIA - Mi sento così male per tutta questa confusione. Chissà che conseguenze potrà avere per la vita del mio bambino.

ELISABETTA - Devi guardare le cose in prospettiva, cara. Hai detto una piccola bugia innocente, ma la cosa finisce lì. Non è che tu abbia causato la caduta dell'Impero Romano.
MARIA – No certo. Ma se i Romani ne venissero a conoscenza ? Non voglio che il mio bambino, da grande, finisca crocifisso !

ELISABETTA – Certo che no.
MARIA – Lo credi davvero ?
 

ELISABETTA – Ma sì, dai. Nessuno continuerà a pensarci così a lungo. In un paio di mesi tutta questa faccenda si sgonfierà.
MARIA - Spero proprio che tu abbia ragione...

(Il dialogo è tratto, con alcune piccole modifiche, dal blog IL CENSORE, che, ovviamente, ringrazio. Lumen)

venerdì 20 novembre 2015

Bottino di guerra

La decrescita energetica che ci attende farà inevitabilmente aumentare la conflittualità tra i vari stati, che saranno costretti a scontrarsi per il controllo (il mantenimento o la conquista) delle fonti energetiche rimaste.
Ne deriverà, molto probabilmente, un aumento delle guerre, quanto meno di quelle locali. Però le guerre hanno un costo, e non solo a livello di perdite umana, ma proprio a livello energetico, e quindi anche loro soggiaciono alle ferree leggi dell’EROEI, ovvero del “guadagno energetico netto”.
Ce ne parla Antonio Turiel in questo post, tratto da Effetto Risorse.
LUMEN
 
 
 
<< Dal punto di vista etico, parlare del rendimento o beneficio della guerra sembra di un cinismo insopportabile, poiché innanzitutto la guerra è morte, feriti, distruzione, epidemie, fame, famiglie distrutte, illusioni perdute, caos, perdita di civiltà... Non c'è niente di eroico nella guerra per quanto la propaganda la glorifichi e pensare alla guerra in termini del proprio beneficio è deplorevole. Tuttavia, le guerre si fanno sempre per guadagnare qualcosa. (…)
 
D'altra parte, discutere del beneficio materiale della guerra può essere utile se si può dimostrare che tale beneficio materiale non si realizzerà, perché non è raggiungibile o perché semplicemente non esiste. Di fatto, nella misura in cui la nostra civiltà va consumando il suo prevedibile transito di decrescita energetica, le guerre successive saranno sempre meno interessanti dal punto di vista del beneficio. Addirittura, passato un certo punto (quello dei ritorni decrescenti), andare in guerra accelererà il nostro cammino verso il collasso, anziché ritardarlo.
 
La Storia mostra e dimostra, tuttavia, che riconoscere che ci si trova in un punto di ritorno negativo (in qualsiasi attività, non solo nella guerra) è molto difficile e generalmente si continua a fare la stessa cosa che si è sempre fatta (…) per inerzia, finché quella stessa inerzia è quella che accelera la nostra caduta. Quanti imperi aggressivamente espansionisti hanno collassato nella Storia ancora più rapidamente di quanto si siano espansi, proprio perché le nuove guerre finivano per porre un carico maggiore dei benefici che apportavano ? (…)
 
Comprendere e spiegare come mai la guerra sia materialmente onerosa può essere utile per far riflettere coloro che non vengono toccati dagli argomenti etici, ma che sono sensibili alle variazioni del loro portafoglio. Distinguerò [quindi] tre tipi di guerra, a seconda del loro rendimento energetico: le guerre di saccheggio, quelle di dominio e quelle egemoniche. (…)
 
 
Guerre di saccheggio
E' il tipo più semplice e di base di azione bellica, quello che ha l'EROEI più elevato. L'attaccante assalta un determinato territorio con l'intenzione più o meno dichiarata di prendere tutto ciò che può. Non si tratta di tenere una posizione, ma di prendersi il bottino e scappare di corsa. Questo tipo di conflitti di solito hanno dimensioni limitate, non essendo tipici di stati-nazione ma di bande mercenarie, pirati e simili.
 
Esempi storici di questo tipo di guerra sarebbero su piccola scala, quelle intraprese dai Vichinghi su tutta la costa del nord Europa o quella dei pirati nei sette mari, ma grandi nazioni lo hanno tenuto come forma di finanziamento. Per esempio, la Spagna del XVI e XVII secolo finanziava le proprie armate, praticamente mercenari, col saccheggio delle popolazioni conquistate (…).
 
Il costo di questo tipo di guerra è molto limitato: un uomo, un'arma e un sacco in cui mettere tutto ciò che si può saccheggiare. Al contrario, il rendimento è molto elevato, soprattutto in regioni dove da tempo non si verificava un saccheggio. Possiamo fare una stima del rendimento del saccheggio in funzione della sua frequenza: più tempo passa fra un saccheggio e l'altro, maggiore è il rendimento del saccheggio precedente. L'EROEI è sicuramente alto, anche se la quantità totale di energia ottenuta è relativamente piccola (…).
 
Le popolazioni di saccheggiatori non possono crescere in modo illimitato, visto che ci sono vari fattori che ne limitano l'espansione: la disponibilità di obbiettivi sufficientemente ricchi da garantire la sopravvivenza del gruppo stesso fino al saccheggio seguente, la necessità di lasciar passare un certo tempo prima di tornare a saccheggiare lo stesso luogo perché si possano riparare i danni e si torni a generare una ricchezza sufficiente (…), la difficoltà crescente a saccheggiare se la presenza dei saccheggiatori è molto nota, visto che le città rafforzano le proprie difese, ecc. (…)
 
Questo modello di guerra ha una certa somiglianza con le società dei cacciatori-raccoglitori (…), visto che si specializzano nel prendere le risorse dall'ambiente senza alterarlo, lasciandolo evolvere liberamente. Ma, al contrario dei cacciatori-raccoglitori, è molto difficile che i saccheggiatori raggiungano un equilibrio col proprio ecosistema e la cosa più probabile è che alla fine i saccheggiati si organizzino e finiscano per distruggerli, inseguendoli fino alle loro case se necessario.
 
 
Guerre di conquista
Questo tipo di guerra è quello preferito dagli stati-nazione. L'obbiettivo della guerra di conquista è mantenere il controllo permanente di un territorio e quindi delle sue risorse. Non basta, quindi, entrare in un territorio, bisogna occuparlo. Pertanto questo implica dispiegare un contingente militare ben addestrato e mantenerlo a tempo indeterminato su un territorio per garantire il flusso di risorse.
 
Anticamente, gli Stati occupanti rimanevano fisicamente al comando dei paesi occupati. Oggigiorno, approfittando del fatto che tutto il mondo è organizzato in Stati-nazione, gli Stati occupanti collocano un'amministrazione locale favorevole ai propri interessi e si rivolgono allo stesso esercito locale come garante della pace e dell'ordine, in favore dei suoi interessi. L'unica cosa che l'occupante mette in campo, a lungo termine, sono le imprese dedite all'estrazione delle risorse della nazione soggiogata.
 
Grazie a questo sotterfugio di esternalizzare l'occupazione con “subappaltatori locali” si è riusciti a diminuire di molto i costi di questo tipo di guerra, che in passato era molto onerosa (più di un impero ha ceduto a causa degli alti costi di una sola campagna militare fallita). Per questo motivo, le guerre di occupazione del passato avevano un EROEI molto basso e si occupavano soltanto paesi ricchi di risorse desiderate (…).
 
L'attuale sistema di esternalizzazione ha ridotto i costi per i paesi occupanti a quelli della prima campagna destinata ad annichilire la resistenza locale ed instaurare il governo amico, il che è molto più economico che incorrere in costi continui per anni, compreso quello di una opinione pubblica che, di solito, finisce per essere contraria, soprattutto quando si organizza una resistenza nel paese occupato, che comporta vittime umane per l'occupante che si accumulano (e senza contare gli arruolamenti forzati).
 
L'esternalizzazione ha funzionato molto bene per tutto il XX secolo, permettendo di dissimulare il motivo della nostra ricchezza. (…) Tuttavia, col crollo naturale, per ragioni fisiche e geologiche, dell'EROEI dei giacimenti di materie prime energetiche, le aziende occidentali si ritrovano in una situazione compromessa: per mantenere l'alto rendimento energetico delle sue fonti per l'occidente devono ridurre il beneficio netto per la popolazione locale. (…)
 
[Inoltre] i paesi occidentali si sono specializzati in eserciti di azione rapida e fulminante, che causano un grande danno iniziale con poco rischio per le proprie truppe, e non in occupazioni a lungo termine. Per questo le occupazioni a lungo termine, come quella dell'Afghanistan, sono tanto disastrose, perché hanno bisogno di un approccio militare diverso che implica un costo più alto che, semplicemente, non si vuole e non si può pagare.
 
Pertanto, l'EROEI delle moderne guerre di conquista sta diminuendo in perfetto parallelo con l'EROEI delle fonti energetiche che si vogliono controllare. Per questa ragione, imbarcarsi in guerre in paesi che hanno già superato il loro picco del petrolio non è solo eticamente disprezzabile, è anche economicamente ed energeticamente rovinoso. (…) 
 
Le guerre di conquista hanno alcune analogie con le società agricole: si vuol ottenere il controllo permanente di una risorsa, anche modificando l'ambiente per migliorarne il rendimento. Il problema delle guerre di conquista attuali è che le risorse desiderate non sono rinnovabili, pertanto il rendimento è obbligato a cadere, fino a rendere questo tipo di guerra un pozzo, anziché una sorgente, di risorse.
 
 
Guerre per l'egemonia
Questo tipo di guerra è quello proprio di un impero o, con una terminologia più moderna, di una super-potenza. L'obbiettivo della guerra per l'egemonia è mantenere lo status quo della “metropoli”. Queste guerre non hanno generalmente l'obbiettivo di ottenere il controllo di una risorsa, ma di mantenere un controllo che si ha già, e a volte non si fa neanche contro il paese che ha le risorse, ma contro uno dei paesi satellite, a loro volta controllati, che danno sostegno logistico alle operazioni.
 
Questo tipo di guerra è sempre un pozzo di risorse. Esempi di questo è il tipo di guerra che ha vissuto l'Afghanistan, sia con l'Unione Sovietica prima sia con gli Stati Uniti poi. Anche qui la tendenza è all'esternalizzazione: sono le guerre in prestito, (…) fatte da manovalanza appoggiata dalle super-potenze che si disputano l'egemonia sul territorio. Un esempio di questo tipo è la guerra civile che sta avvenendo in Ucraina, col controllo del flusso di gas naturale russo all'Europa sullo sfondo.
 
Le guerre per l'egemonia, come abbiamo detto, hanno per definizione un EROEI minore di 1 (cioè, si guadagna meno di quello che si consuma), quando non direttamente uguale a 0 (non si guadagna niente), perché l'obbiettivo molte volte non è tanto guadagnare, ma non perdere. Nella misura in cui una superpotenza è più globale e controlla più territori, deve combattere, direttamente o indirettamente, sempre più guerre per mantenere quello che ha già.
 
Essenzialmente sono guerre completamente territoriali, tipiche del maschio alfa, che hanno senso solo quando altri territori provvedono alle risorse necessarie per mantenerle. Sono anche, per il loro EROEI basso, il principale pozzo di risorse di molti imperi; siccome di solito sono ricorrenti nelle fasi di decadenza degli imperi, di solito sono anche la causa della loro perdizione.
 
Anche se queste guerre sono tipiche degli imperi, nella misura in cui questi si decompongono emergono paesi che si contendono lo spazio ora vacante, anche aspirando a diventare un impero che sostituisce un altro impero. Ma siccome a quel punto sono molti i paesi che si contendono quel luogo, su scala sempre più regionale, queste guerre sono sempre più complicate ed in realtà non si possono mai vincere in modo definitivo. Servono semplicemente a dissipare risorse più rapidamente. (…)
 
Come vedete, a lungo termine non tornano i conti per nessun tipo di guerra e in realtà la più redditizia è la più banale: il saccheggio. >>
 
ANTONIO TURIEL
 

venerdì 13 novembre 2015

L’interprete

La vittima del (breve) dialogo virtuale di questa settimana è Michael Gazzaniga, professore di psicologia all'Università della California a Santa Barbara e pioniere delle “neuroscienze cognitive”. Con lui parleremo dell’interazione tra mente e cervello, della funzione del c.d. “modulo interprete” e del sempre ingombrante concetto di “libero arbitrio”. Lumen


LUMEN - Secondo il trend oggi dominante nelle neuroscienze, gli esseri umani sarebbero macchine biologiche, soggette alle stesse leggi fisiche che governano il mondo.
GAZZANIGA – Sostanzialmente sì.

LUMEN - Questo approccio determinista ha implicazioni filosofiche e sociali importantissime: i neuro-scienziati ci stanno forse dicendo che il libero arbitrio e la responsabilità personale sono solo illusioni ?
GAZZANIGA - La questione non è così semplice: il cervello è sì una macchina di cui si conosce in buona parte il funzionamento, ma ciò non toglie che la persona sia convinta di essere libera, e soprattutto responsabile delle proprie azioni.

LUMEN – Questa, in effetti, è la nostra percezione.
GAZZANIGA – Siamo così convinti di essere padroni di ogni nostra azione, di poterla decidere e attuare a piacimento - in altre parole di poter contare sul libero arbitrio - che ci sembrerebbe folle solo mettere in dubbio tutto questo. Non ci passerebbe mai per la testa di dubitare del fatto che ci sentiamo degli agenti coscienti, con un senso unitario del sé, che agiscono con un fine personale.

LUMEN – Il buon vecchio “homunculus cartesiano”.
GAZZANIGA - Questa visione, però, attualmente è in crisi.

LUMEN – Lo immaginavo.
GAZZANIGA - Colpa, o merito se preferite, delle continue scoperte delle neuroscienze, grazie alle quali, negli ultimi decenni, abbiamo iniziato a capire come funziona il cervello e di riflesso abbiamo iniziato a diradare le nebbie che avvolgono l'emergere delle facoltà mentali, sulle quali poggia il nostri essere umani.

LUMEN – E le più recenti scoperte cosa ci dicono ?
GAZZANIGA – Ci dicono che il cervello è un insieme di moduli integrati fa loro, che lavorano in automatico e sono spazialmente localizzati, con buona pace delle ipotesi passate per cui le diverse funzioni cerebrali erano distribuite uniformemente in tutto l'organo.

LUMEN - Ma se il cervello è composto da moduli automatici, come emerge la coscienza del sé ?
GAZZANIGA - Tutto merito di quello che io chiamo il “modulo interprete” e che sembra una caratteristica unica della nostra specie.

LUMEN – E come funziona ?
GAZZANIGA - L’unità psicologica interna di cui facciamo esperienza emerge da un sistema specializzato, chiamato per l’appunto “interprete”, che dà spiegazioni a proposito delle nostre percezioni, dei nostri ricordi, delle nostre azioni e delle relazioni tra tutti questi. Ciò porta alla formazione di una narrazione personale, la storia che unisce i diversi aspetti della nostra esperienza cosciente in un insieme integrato.

LUMEN – Una sorta di ordine logico, che sorge dal caos delle percezioni.
GAZZANIGA – Esatto. Questa parte del cervello prende un effetto qualsiasi e crea, in modo rapido e immediato, una causa per spiegarlo. L'interprete, spiega continuamente il mondo usando gli input ricevuti dall'attuale stato cognitivo e gli indizi provenienti dall'ambiente circostante, senza considerare la fonte o la completezza dell'informazione.

LUMEN – Dove si trova, fisicamente, questo modulo ?
GAZZANIGA – Nell’emisfero sinistro.

LUMEN – L’emisfero della razionalità.
GAZZANIGA – Sì, ma fino ad un certo punto. L'interprete è attratto irresistibilmente dai rapporti di causa ed effetto, tanto da trovarli praticamente sempre, e non sa niente di casualità o fortuna.

LUMEN – Quindi può costruirsi anche delle narrazioni errate.
GAZZANIGA – Certamente, ma la sua utilità resta indiscutibile.

LUMEN – Il modulo interprete sarebbe, in sostanza, la sede della coscienza.
GAZZANIGA – Esatto. La coscienza, quindi, deve essere considerata una proprietà emergente. La nostra esperienza cosciente, infatti, si assembla continuamente “al volo”, mentre il cervello, utilizzando i suoi meccanismi, analizza i (mutevoli) segnali che gli pervengono dall’ambiente, e risponde rapidamente.

LUMEN – E qui entra in ballo anche il concetto di responsabilità sociale.
GAZZANIGA – Sì. Questa elaborazione a posteriori delle informazioni in entrata nel nostro cervello, unitamente alla considerazione che stiamo parlando del cervello di animali altamente sociali, quali noi siamo, ci portano ad affermare che la responsabilità è un contratto tra persone, una caratteristica della mente, non una proprietà del cervello.

LUMEN - E mente e cervello non sono la stessa cosa ?
GAZZANIGA – Non lo sono sicuramente. I ben noti esperimenti di Benjamin Libet, per esempio, hanno scoperto che in alcuni casi il cervello fa qualcosa prima che noi ce ne rendiamo conto.

LUMEN - Ma tutto ciò non ci solleva dal libero arbitrio e dalle responsabilità che ne conseguono ?
GAZZANIGA – Direi proprio di no. Altri esperimenti, infatti, hanno mostrato che in ognuno di noi c'è un'area della corteccia deputata all'auto-controllo. Inoltre, nei gruppi umani più diversi il sistema delle punizioni funziona, inibendo comportamenti contro le regole.

LUMEN – Quindi ?
GAZZANIGA – Quindi possiamo e dobbiamo essere considerati responsabili delle nostre azioni.

LUMEN – Grazie professore. Direi che il mio “modulo interprete” è rimasto pienamente soddisfatto.
GAZZANIGA – Mi fa piacere.


venerdì 6 novembre 2015

Corpi di Elite

Un tale (probabilmente il solito “qualunquista”) sosteneva che “i politici sono tutti ladri, ma non sono tutti uguali: ci sono quelli che sono SOLO ladri e quelli che sono ANCHE ladri”.
La “sottile” distinzione mi è venuta in mente leggendo l’ottima recensione che il sito IL POST ha dedicato al libro “Perché falliscono le nazioni” di Aaron Acemoglu e James Robinson. Nel loro saggio, i due autori statunitensi cercano di spiegare la differenza nella ricchezza delle nazioni, facendo riferimento alle loro istituzioni ed alle elites che le guidano.
Riporto qui di seguito il testo della recensione, piuttosto interessante.
LUMEN


<< Perché certe nazioni falliscono e i loro abitanti diventano più poveri, le istituzioni crollano e scoppiano rivolte e guerre civili, mentre altre continuano a prosperare sul lungo periodo, la pace sociale si mantiene, la violenza si riduce e il benessere economico degli abitanti aumenta ? La spiegazione di Acemoglu e Robinson è di tipo “istituzionale”: la differenza la fanno le istituzioni che una certa società si dà nel corso del tempo. (…)

Gli autori raggruppano tutte le istituzioni possibili in due grandi categorie: quelle inclusive (o pluraliste) e quelle estrattive.

Le economie basate sulle piantagioni nei Caraibi del XVIII secolo, la società feudale del Medioevo europeo o la Corea del Nord sono tutti esempi di istituzioni dell’ultimo tipo: quelle estrattive. Al vertice politico di queste società c’è un gruppo di persone relativamente piccolo (i proprietari delle piantagioni, gli aristocratici e la ristretta cerchia vicino alla famiglia Kim) che esercita tutto il potere politico ed economico. Questo tipo di società vengono definite estrattive proprio perché hanno al vertice una piccola élite che estrae il valore prodotto dal resto della società.

Accanto all’élite c’è la gran massa della popolazione che gode di pochi o nessun diritto politico: gli schiavi delle piantagioni erano a malapena considerati esseri umani, i contadini medioevali erano poco più che servi legati per sempre a un signore ed i cittadini nordcoreani non hanno nessuna voce in capitolo sulle scelte del loro governo. Nelle società estrattive la stessa mancanza di libertà è presente anche sul fronte economico.

Gli schiavi delle piantagioni non avevano la possibilità di esercitare i loro talenti nella direzione che preferivano: ognuno di loro era costretto a fare il lavoro deciso dal suo proprietario che in cambio gli offriva a malapena il necessario per sopravvivere. I contadini medievali vivevano in una situazione dove era a malapena più liberi, ma dove comunque la libertà di esercitare attività economica era di fatto ridotta a nulla. E lo stesso discorso vale anche per i cittadini nordcoreani che si trovano fuori dalla cerchia ristretta dei fedelissimi del regime.

Questo modello di società, secondo gli autori, non può produrre una crescita solida e a lungo termine per un semplice motivo: mancano gli adeguati incentivi che servono per metterla in moto. Lo schiavo, il contadino medioevale o l’operaio nordcoreano non hanno nessun motivo per ingegnarsi e trovare un modo di rendere il loro lavoro più produttivo: il frutto di qualunque miglioria nel rendimento dei prodotti, infatti, finirà nelle mani del padrone, del feudatario o dello stato. In altre parole: nelle mani dell’élite estrattiva.

Quest’ultima, a sua volta, non ha nessun interesse a favorire in alcun modo lo sviluppo tecnologico o qualunque altro tipo di innovazione. Il risultato di un simile cambiamento rischierebbe di alterare lo status quo e quindi di rimuovere chi si trova al vertice dell’istituzione estrattiva dalla sua lucrosa rendita di posizione. Un certo margine di distruzione è sempre necessario per la crescita economica: se un’azienda inventa un nuovo modo più efficiente per produrre bulloni è probabile che alcuni suoi concorrenti falliscano o siano comunque costretti a licenziare dei dipendenti. Questa “distruzione creatrice” è ciò che, secondo gli autori, più temono le élite estrattive.

Uno degli esempi più chiari (…) è la reazione dello Zar e dell’Imperatore dell’Austria-Ungheria di fronte alla Rivoluzione industriale. Quando le prime macchine cominciarono a comparire nei loro regni e i primi imprenditori cominciarono a chiedere il permesso di impiantare filande e ferriere, i due sovrani reagirono esattamente come Robinson e Acemoglu immaginano che dovrebbero reagire le élite estrattive di fronte ad un processo di “distruzione creatrice”: cercarono di bloccare tutto.

Impiantare industrie fu vietato o reso comunque molto difficile. Furono proibite le concentrazioni di fabbriche e la loro proprietà venne limitata allo stato. Quando dovettero spiegare le loro decisioni, i due sovrani dissero che le fabbriche, con i loro operai e i loro “nuovi ricchi”, minacciavano il vecchio ordine costituito. In altre parole, lo zar e l’imperatore dicevano apertamente di ostacolare la crescita economica per mantenere intatto lo status quo.

Se istituzione politiche ed economiche estrattive sono la ricetta per il fallimento, va da sé che istituzioni economiche di tipo inclusivo e politiche di tipo pluralista sono invece la via per il successo. Le due cose, almeno secondo Robinson e Acemoglu, non possono quasi mai andare separate. Le istituzioni politiche pluralistiche permettono che nei luoghi dove si prendono le decisioni convivano i rappresentanti di numerosi e diversificati interessi – e non soltanto quelli di una precisa élite.

Il conflitto tra i vari interessi di questi rappresentanti fa sì che sia conveniente per tutti stabilire una legge chiara, univoca e che possa essere applicata in tutti i casi, invece dell’arbitrio di un monarca o di un dittatore, che potrebbe appoggiare ora gli uni ora gli altri. Istituzioni economiche inclusive aiutano questo processo. Le istituzioni pluraliste funzionano meglio se la ricchezza non è appannaggio soltanto di una ristretta élite, ma è distribuita tra i vari ceti e i vari gruppi. A loro volta queste ampie coalizioni possono portare avanti i loro particolari interessi perché le istituzioni politiche sono inclusive.

In altre parole: istituzioni politiche inclusive significa democrazia rappresentativa, mentre istituzioni economiche inclusive significa un mercato tendenzialmente libero, dove per chiunque sia possibile aprire un’impresa o comunque esercitare il suo talento nella direzione che preferisce; secondo gli autori i nemici delle istituzioni economiche pluraliste sono i monopoli, le corporazioni, le barriere all’ingresso nelle varie professioni e così via. (…)

Ma cosa porta una nazione ad imboccare la strada che conduce ad istituzioni politiche ed economiche inclusive, oppure a quelle estrattive? La risposta dei due autori è abbastanza vaga e difficilmente sarebbe potuta essere diversa. Il punto, secondo gli autori, sono le piccole differenze che dividono le nazioni e che entrano in gioco quando si presenta una congiuntura critica.

L’esempio migliore per spiegare questo concetto è quello che accadde al Botswana. Quando il paese nel 1966 raggiunse l’indipendenza era uno dei più poveri al mondo. Aveva soltanto una dozzina di chilometri di strade asfaltate, appena 22 cittadini laureati e circa un centinaio che avevano terminato le scuole superiore. In più era circondato da diversi stati, molto più grandi e governati da regimi bianchi ostili ai paesi governati da neri.

Nel 1966 nessuno avrebbe scommesso sul futuro del Botswana. Contro tutte le aspettative, cinquant’anni dopo l’indipendenza, il paese ha il reddito pro capite più alto di tutta l’Africa sub-sahariana (al livello di paesi come Estonia, Ungheria o Costa Rica). Ha un tasso di crescita tra i più alti del mondo, tiene libere elezioni e non ha mai attraversato periodi di guerra civile o interventi stranieri.

Come è stato possibile tutto questo? Secondo gli autori perché il paese si diede rapidamente delle istituzioni economiche e politiche inclusive. Questo fu possibile in parte perché tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i capi delle tribù Tswana (…) si diedero delle strutture molto moderne e centralizzate per gli standard dell’Africa sub-sahariana.

I capi tribù erano limitati nel loro potere dalle assemblee tribali, che potevano opporsi all’imposizione di nuovi tributi o la costruzione di opere pubbliche. Nonostante nelle loro leggi orali i capi avessero diritto alla carica per via ereditaria, di fatto le norme venivano piegate affinché nelle riunioni di tribù venisse eletto l’individuo ritenuto più meritevole. Gli Tswana esprimevano questo concetto con un proverbio che sembra uscito da un manuale di monarchia costituzionale: «Il re è re per grazia del popolo».

Il bene principale di queste tribù era il bestiame, che era considerato a tutti gli effetti una proprietà privata. Per motivi ovvi tutti i vari capi Tswana avevano ogni interesse a far si che la proprietà privata venisse legittimata e che quindi, dopo l’indipendenza, si stabilisse un regime in grado di proteggere i loro diritti. Per fortuna del paese, quando gli inglesi misero quello che oggi si chiama Botswana sotto un protettorato non alterarono queste particolarità, ma lasciarono che gli Tswana continuassero ad autogovernarsi.

Tutte queste particolarità emersero quando il paese ottenne l’indipendenza, in occasione di quella che gli autori chiamano una “congiuntura critica”, un grande stravolgimento che può portare enormi cambiamenti.

Il re del Botswana, Seretse Khama, divenne il primo presidente del paese, ma a differenza di quasi tutti gli altri leader africani emersi dopo l’indipendenza non mise in piedi un regime estrattivo per sé e il suo entourage. Tenne regolarmente libere elezioni (fu eletto tre volte e morì di cancro nel 1980) e si assicurò di creare leggi uguali e valide per tutti, di creare un mercato libero, in modo che ogni cittadino potesse esercitare i suoi talenti nella direzione che riteneva più opportuna, oltre a costruire le infrastrutture di cui il paese aveva bisogno. (…)

Nelle ultime pagine del libro [uscito in USA nel 2012 - NdL], i due autori provano a formulare delle previsioni. (…) La previsione più importante riguarda la Cina, il paese che con la sua impetuosa crescita economica e le sue istituzioni sostanzialmente estrattive, sembra essere la più vistosa eccezione a quanto hanno affermato nel loro libro.

La loro risposta è che anche le società più estrattive hanno la possibilità di crescere, anche se per periodi di tempo limitati (come ad esempio accadde all’Unione Sovietica tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta). I due ricordano inoltre che la Cina, dalla fine degli anni Settanta, ha attraversato un periodo in cui le istituzioni economiche – se non quelle politiche – sono state rese considerevolmente più pluraliste e meno estrattive.

Quella della Cina, quindi, non sarebbe che una crescita condizionata e limitata dalle istituzioni politiche ancora fortemente estrattive. Se la loro teoria è corretta, la Cina potrà continuare a crescere in modo stabile soltanto quando anche le sue istituzioni politiche saranno rese molto, molto più pluraliste. >>

Dal sito IL POST