venerdì 25 luglio 2014

Il Secondo Principio – 2

(Da “Entropia” - di Jeremy Rifkin)
(seconda parte)


<< Il punto è che il Sole di per sé non genera la vita. Puoi lasciar passare i raggi del Sole in un recipiente di vetro vuoto da qui fino alla fine del sistema solare e non ne nascerà alcuna forma di vita. Perché si sviluppasse la vita il Sole ha dovuto interagire con il sistema chiuso di materiali diversi, metalli, minerali di cui è costituita la terra, convertendoli in esseri viventi e nelle risorse necessarie alla vita.
 
Quest’azione facilita anche il naturale decadimento della quantità iniziale di materie prime che costituivano la crosta terrestre, in ogni istante le montagne vengono erose e il terreno coltivabile viene ridotto in polvere e disperso dal vento, questo significa che nel lungo periodo ogni risorsa rinnovabile diventa in effetti non rinnovabile.
 
La vita che continua a riprodursi e gli organismi che muoiono aumentano l’entropia sulla Terra, con il risultato che sempre meno materie prime saranno disponibili per un futuro sviluppo. Qualsiasi contadino sa che, anche riciclando tutto e con una insolazione costante, è impossibile far crescere la stessa quantità di erba sullo stesso pezzo di terra, anno dopo anno all’infinito. Ogni filo d’erba oggi significa un filo d’erba in meno in un futuro più o meno lontano, sullo stesso appezzamento, perché, come ogni altra cosa, anche il suolo coltivabile è parte di un circuito entropico.
 
Il suolo coltivabile contiene una parte organica e una parte costituita da minerali inorganici che permettono all’erba di crescere, ma la sua esistenza è temporanea, nasce da formazioni minerali e da residui organici e per la maggior parte finirà come polvere dispersa nel vento o dilavato come limo che andrà a finire in mare.
 
In altre parole, il suolo coltivabile non è una struttura permanentemente stabile, è solo un ambiente dove particolari materiali si sono concentrati lungo il loro percorso di decadimento entropico.  Nel breve periodo (tempi della storia umana) è possibile mantenere il terreno in uno stato stazionario tale che l’erosione non sia più veloce di quanto la natura impiega a degradare le rocce e i residui organici per formare nuovo terreno. 

Può avvenire però che per effetto di forze naturali (tempeste, siccità, inondazioni ecc.) o anche a causa dell’intervento umano, l’erosione del terreno sia più veloce della sua ricostituzione, anche considerando tempi brevi.
 
Una coltivazione superintensiva e la distruzione degli ecosistemi naturali portano all’erosione e alla de-mineralizzazione del terreno, dando luogo a un aumento entropico a chiazze in determinate aree geografiche. Ci vogliono centinaia di anni per ricostituire dodici pollici di terreno coltivabile, per cui anche nel contesto della storia umana l’aumento di entropia del suolo è un fenomeno ben presente e continuo. (…)

E una realtà difficile da accettare per noi perché fin da bambini, spiegandoci i principi elementari della biologia, ci hanno insegnato che ogni materiale organico ritorna in ciclo, ed è vero perché è semplicemente un riaffermare il primo principio della termodinamica, nulla si crea e nulla si distrugge. 

Sfortunatamente c’è il secondo principio, che di solito viene ignorato, e che ci dice che per quanto la materia venga riciclata indefinitamente, ogni volta che questo avviene si paga in termini di degradazione.
 
Supponiamo di estrarre dal sottosuolo un frammento di minerale metallico e forgiarne un utensile. Durante la vita di quell’utensile molte particelle metalliche voleranno via per effetto dell’attrito, dell’usura, delle scheggiature. Quelle molecole perdute non andranno distrutte, torneranno alla terra, ma adesso saranno disperse in tutta la massa del suolo e non saranno più utilizzabili per nessun lavoro utile come quando invece erano concentrate nel pezzo di minerale originario. 

Si potrebbe trovare un modo per riciclare tutte quelle particelle metalliche, ma solo a prezzo di un aumento di entropia del processo globale, bisognerebbe infatti attrezzare una macchina che raccolga le particelle e trovare una fonte di energia per azionare la macchina.  A sua volta la macchina, fatta a partire da minerali metallici ugualmente provenienti della terra, perderà particelle per attrito, usura, e scheggiature, anche se stava funzionando per il recupero di un altro metallo, e inoltre l’energia usata per farla girare va in definitiva ad aumentare l’entropia totale.

Quando l’energia diventa non più disponibile usiamo il termine «morte termica», quando è la materia a non essere più disponibile diciamo «caos della materia». In entrambe i casi il risultato è un aumento di entropia: uno stato disperso dell’energia e della materia che le rende meno concentrate e meno adatte a compiere lavoro utile. (…) 

La legge dell’entropia è qualcosa che va sentito oltre che capito, la sua essenza è l’essenza stessa del reale e rendersi pienamente conto del suo significato richiede una certa dose di intuizione. (…)

Un modo di discutere su livelli energetici ed entropia, a cui si è già accennato, è quello delle concentrazioni. Quando si apre una bottiglia di profumo, perché l’odore inizia a diffondere nell’aria e dopo un po’ di tempo ha invaso tutta la stanza? Oppure, cosa succede se apriamo la porta verso un’altra stanza più grande e ci accorgiamo che dopo pochi minuti si sente il profumo in entrambe i locali, per quanto meno intenso che in un solo locale? (…)
 
L’energia va sempre da una situazione dove è più concentrata (la bottiglia di profumo) a una dove lo è di meno (i due grandi locali): nel processo si impiega, e quindi si dissipa, energia libera, infatti l’odore perde di intensità. Considerando il problema del profumo a un livello molecolare, si osserva che quando le molecole sono costrette a stare insieme nella bottiglia si bombardano a vicenda con velocità incredibile.
 
Non appena si permette loro di uscirsene dalla bottiglia iniziano il loro cammino, a caso, in uno spazio più vasto, diffondono e si urtano con sempre minor frequenza finché risultano uniformemente ridistribuite per tutta la stanza. (…)

Vi è ancora un altro modo, il più comprensivo di tutti, di considerare il secondo principio: la legge dell’entropia stabilisce che tutta l’energia esistente in un sistema isolato tende a portarsi da una situazione di ordine a una di disordine.
 
Lo stato di entropia minima, quello in cui le concentrazioni sono maggiori e l’energia utilizzabile è massima, è anche lo stato di maggior ordine, e, al contrario, lo stato di entropia massima, in cui l’energia utilizzabile è stata completamente dissipata e dispersa, è anche quello di maggior disordine.

Tutto questo, corrisponde alle percezione quotidiana del mondo intorno a noi. Le cose lasciate a se stesse non tendono a portarsi spontaneamente verso un ordine sempre maggiore. Chi ha cura della casa o lavora in un ufficio sa bene che gli oggetti a cui non si dà un po’ di attenzione diventano via via sempre più disordinati e riportare tutto quanto in ordine consuma energie. (…)

Si deve mettere in evidenza che ogni volta che si contrasta l’aumento di entropia in un ambito ristretto, lo si può fare solo aumentando l’entropia globale dell’ambiente circostante, perché ogni volta che si fa qualcosa si dissipa una certa quantità di energia che diventa poi completamente inutilizzabile per gli impieghi successivi.
 
L’energia dissipata va a sommarsi alla voragine di tutte le energie dissipate in tutti gli altri eventi del passato. Le conseguenze per la società che esce da una situazione del genere sono veramente incredibili. Citando Angrist e Hepier: «Ogni diminuzione localizzata dell’entropia, realizzata dall’uomo o da una macchina, è accompagnata da un aumento di entropia, di maggior entità, nell’ambiente circostante per cui inevitabilmente l’entropia globale resta sempre in aumento».

Albert Einstein ebbe una volta a meditare pensando quale delle leggi della scienza avrebbe potuto essere classificata come legge suprema e concluse con la seguente osservazione: “Una teoria è tanto più emozionante quanto più semplici sono le sue premesse, più diverse le categorie di fenomeni a cui si riferisce, più vasto il suo campo di applicabilità. Ecco perché mi ha sempre fatto una profonda impressione la termodinamica classica, l’unica teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che, nel campo di applicabilità dei suoi concetti basilari, non verrà mai superata." >>.
 
JEREMY RIFKIN

venerdì 18 luglio 2014

Il Secondo Principio – 1

Uno dei libri che hanno cambiato per sempre la mia visione del mondo (e mi hanno aiutato a diventare un “fenotipo consapevole”) è stato sicuramente ENTROPIA di Jeremy Rifkin.
Si tratta di un libro fondamentale, in cui Rifkin ci guida, in modo accessibile ma rigoroso, ai significati profondi del “secondo principio della termodinamica”, mostrandoci la sua ingombrante, e purtroppo ineluttabile, presenza in tutte le vicende dell’universo.
Qui di seguito troverete alcuni dei passi più significativi del libro, che peraltro, nel caso vi venisse voglia di acquistarlo, risulta attualmente introvabile (i soliti misteri dell’editoria italiana).
LUMEN


<< Dire termodinamica suona come un concetto estremamente complicato. In realtà si tratta della più semplice e nello stesso tempo la più emozionante concezione scientifica che sia mai stata elaborata. L’entropia è una misura della parte di energia che non può più essere trasformata in lavoro.

Il termine fu coniato dal fisico tedesco Rudolf Clausius nel 1968, ma il principio (…) era stato individuato quarant’anni prima (…) dal francese Sadi Carnot, impegnato a cercare di spiegare il funzionamento delle macchine a vapore. Carnot scoprì che una macchina funziona bene se una parte del sistema è molto calda e un’altra è molto più fredda, in altre parole: per convertire dell’energia in lavoro deve esserci una differenza nella concentrazione di energia (corrispondente a una differenza di temperatura) tra le varie parti della macchina.

Si produce lavoro quando l’energia passa da un livello più alto a uno più basso cioè dalle alte temperature a quelle più basse. La cosa più importante è che ogni volta che l’energia passa da un livello a un altro, diminuisce l’energia disponibile per produrre lavoro nel prossimo ciclo. 

Facciamo l’esempio dell’acqua che scende da una diga nel lago sottostante: la caduta può essere utilizzata per produrre elettricità o far girare ruote ad acqua o altri lavori utili. Raggiunto il fondo l’acqua non è più in grado di compiere alcun lavoro, su un terreno pianeggiante non può essere usata neanche per muovere la più piccola ruota.
 
Queste due situazioni si identificano con stato di energia disponibile o energia libera e al contrario stato di energia non più disponibile o energia vincolata.

Un aumento di entropia significa diminuzione dell’energia «disponibile». Ogni volta che avviene qualcosa nel mondo della natura, una certa quantità di energia si degrada e diventa non più disponibile per un lavoro successivo. Una parte di quest’energia non più disponibile è rappresentata dall’inquinamento, energia dissipata che si accumula nell’ambiente minacciando gravemente l’ecosistema e la salute di tutti.

Torniamo a Clausius, l’uomo che ha concepito la parola entropia. Clausius si era reso conto che in un sistema chiuso le differenze di livello energetico tendono sempre a pareggiarsi. 

Chiunque abbia avuto occasione di togliere dal fuoco un attizzatoio caldo avrà osservato lo stesso fenomeno che Clausius ha tradotto in legge. Quando un ferro rovente esce dal fuoco e sta esposto all’aria si nota subito che si raffredda e l’aria circostante si scalda, questo perché il calore passa sempre da un corpo più caldo a un corpo più freddo. Passato un po’ di tempo possiamo toccare il nostro attizzatoio e passare le mani nell’aria circostante e notare che hanno raggiunto la stessa temperatura.
 
Gli specialisti lo chiamano stato di equilibrio, uno stato cioè in cui non esistono più differenze di livello energetico, lo stesso stato dell’acqua su un terreno pianeggiante. In entrambe i casi, l’attizzatoio raffreddato e l’acqua livellata non sono più in grado di eseguire lavoro utile, la loro è un’energia vincolata, non più disponibile.
 
Questo non significa che l’acqua non possa essere riportata a monte della diga, a secchiate, o che l’attizzatoio non possa venire riscaldato di nuovo, ma significa che in questi processi, in ogni caso si deve impiegare una nuova fonte di energia libera, disponibile.

Lo stato di equilibrio è lo stato in cui l’entropia ha raggiunto il massimo livello e non vi è più energia libera disponibile per compiere ulteriore lavoro. Clausius riassunse il secondo principio della termodinamica concludendo che « nell’universo, l’entropia, come quantità di energia non più disponibile, tende continuamente verso un massimo ».

Sulla Terra abbiamo due sorgenti di energia utilizzabili: le riserve del suolo e la radiazione solare. (…) Lo stock terrestre consiste [a sua volta] in due specie di risorse: quelle rinnovabili con riferimento all’unità temporale della vita umana e quelle rinnovabili solo in tempi geologici e che quindi, l’uomo deve considerare come non rinnovabili per il raggiungimento dei suoi obbiettivi. (…)

Entrambe le fonti, la terrestre e la solare, sono limitate. Le risorse terrestri non rinnovabili sono limitate dalla quantità totale disponibile. Anche quelle rinnovabili hanno un ammontare complessivo disponibile limitato e, se sfruttate fino all’esaurimento, si comportano esattamente come le risorse non rinnovabili.

La fonte solare è praticamente illimitata nella quantità totale ma è strettamente limitata nel tasso di irraggiamento sulla terra. Anche se l’energia solare si degrada essa stessa a ogni secondo che passa, la sua entropia non raggiungerà un massimo se non tra molto tempo, dopo che le risorse terrestri saranno state completamente utilizzate. (…)

Naturalmente (…) è possibile invertire questo processo entropico se si considerano solo un tempo e un luogo ben definiti, ma lo si può fare soltanto a spese di altra energia e quindi di un aumento dell’entropia totale dell’ambiente. Bisogna capire bene questo processo soprattutto quando si parla di riciclaggio: vi è chi pensa che quasi tutto ciò che si usa possa essere riciclato e reimpiegato solo che si trovi una tecnologia adatta. Semplicemente, non è vero.

E’ vero che bisognerà arrivare a capacità di riciclo sempre maggiori per la sopravvivenza futura sul pianeta, ma non sarà possibile neanche avvicinarsi al 100% di reimpiego.
 
Per esempio per la maggior parte degli oggetti metallici l’efficienza di riciclaggio è intorno al 30% e riciclarli vuol dire spendere energia per raccoglierli, trasportarli e rilavorarli, aumentando quindi l’entropia totale dell’ambiente. Qualsiasi cosa può essere riciclata solo a spese di altre fonti di energia e quindi di un aumento di entropia dell’ambiente nel suo insieme.

Un punto che non dobbiamo stancarci di mettere in evidenza è che sulla Terra l’entropia dei beni materiali è in continuo aumento e si avvia a raggiungere un massimo, perché la terra è un sistema chiuso nell’universo, cioè scambia energia ma non materia con l’ambiente circostante. (…) 

A quelli che pensano che il flusso di energia solare si possa usare per produrre materia risponde l’economista Nicholas Georgescu-Roegen dicendo che: « anche in quella fantastica macchina che è l’universo non si crea materia dalla pura energia, in misura significativa, mentre invece enormi quantità di materia vengono continuamente convertite in energia ».

JEREMY RIFKIN

(continua)

sabato 12 luglio 2014

Fatti, misfatti e opinioni

“I fatti separati dalle opinioni” è stato il fortunato “claim” di una famosa rivista italiana. Facile a dirsi, ma difficile a farsi, anche perché, a volte, confondere le due cose può essere utile.
Così, per esempio, chi vuole minimizzare l’allarme degli esperti sull’attuale crisi ambientale ed energetica, cerca proprio di confondere i due piani, trasformando i fatti, che sarebbero incontrovertibili, in semplici opinioni “di parte”, dotate quindi di una dignità non superiore a quella delle tesi opposte (le loro).
Ce ne parla Antonio Turiel in questo interessante post, tratto da Effetto Risorse.
LUMEN


 
<< Oggigiorno, nei mezzi di comunicazione si è imposta una sorta di falsa equidistanza: di fronte ad ogni tema di dibattito nella società, che sia la legge sull'aborto o la produzione di idrocarburi, vengono raccolte le opinioni dei diversi settori e presentate tali e quali, lasciando che sia il lettore ad elaborare le proprie conclusioni. Si dice che un tale modo di presentare le discussioni sia imparziale, visto che non si prendono le parti di nessuno dei settori implicati.
 
Tale strategia, che sicuramente potrebbe avere senso (…) per la discussione di questioni di opinione, è completamente assurda e nociva quando si discutono questioni di fatto. E' che i fatti non ammettono discussione: possono essere più difficili o più facili da conoscere – ed è legittimo centrare lì il dibattito in alcuni casi – ma una volta conosciuti non sono opinabili.
Peggio ancora, nell'interesse di una presunta rappresentatività equilibrata di tutte le opinioni, in realtà si dà un peso eccessivo alle opinioni più ripetute, le quali (grazie ai soldi) sono le più rappresentate.
 
E' da anni che le grandi aziende hanno capito che questa approccio al giornalismo le favoriva, visto che creando fondazioni, centri sudi, ecc., oltre ai propri uffici stampa e mezzi politici affini, potevano far ascoltare l'opinione che favoriva i loro interessi al di sopra di qualsiasi altra, per questo attaccano con fierezza quando in un mezzo di comunicazione non c'è quella che chiamano una “rappresentazione proporzionata di tutte le opinioni”, cioè, che i loro slogan non vengono ripetuti varie volte dalle loro diverse antenne.

Questo tipo di giornalismo che si limita a raccogliere e trascrivere le opinioni, e che abbonda oggigiorno, è indiscutibilmente un segno di negligenza del giornalista rispetto al suo compito principale: informare. Informare non è fare una relazione delle opinioni come se si facesse un inventario; informare è cercare la verità e presentarla correttamente ai lettori. E quella che una volta chiamavano “giornalismo investigativo”; l'altro non è più di una mera cronaca o bollettino, quando non è direttamente uno spot.

Ed è possibile che la decadenza dei mezzi di comunicazione tradizionali sia in parte dovuto a questa mancanza di impegno per la verità, a volte per l'influenza diretta dei grandi interessi economici, ma altre volte per la mancanza di ricerca della verità di cui parliamo, che è ciò fa sì che sempre più persone cerchino in rete mezzi alternativi sui quali trovare una vera elaborazione a partire dai fatti, un vero tentativo di giungere alla verità.

La prima cosa da comprendere è che non si può fare allo stesso modo una cronaca della società e la discussione di fatti misurabili e osservabili. Non c'è equidistanza possibile fra fatto ed opinione.
E meno ancora se parliamo di fenomeni naturali: la Natura non tratta e se ne frega della nostra opinione. Tuttavia spesso trovi che questa visione di relatività dei fatti, questo mondo dove tutto è relativo impregna tutti i discorsi, al punto che c'è una mancanza totale ed assoluta di pratica nella discussione dei fatti.
 
Molte volte mi sono trovato che, dopo aver fatto un'esposizione di fatti qualcuno mi dica: “Molte grazie per la sua opinione”. La presentazione dei fatti è talmente svilita che la gente non distingue il fatto dall'opinione, perché è abituata al fatto che parlando di un tema concreto i “fatti” dipendano completamente da chi li trasmette.
In fondo è un problema di decadenza morale della nostra società: nei dibattiti pubblici si dovrebbe esigere che le parti agiscano con onestà, presentando i fatti in modo non parziale ed obbiettiva, al posto di presentare una visione particolare che favorisca una certa visione.
 
Tuttavia, l'opinione pubblica trova del tutto accettabile che la presentazione dei fatti sia manipolata per favorire interessi privati e a questo punto il fatto è indistinguibile dall'opinione.
Questa manipolazione dei fatti si manifesta in molti modi. Quando un tema colpisce grandi interessi economici e frequente trovarsi di fronte a campagne di confusione deliberate nelle quali si fa una selezione interessata dei fatti – cherry picking – per far vedere le cose con una lente del tutto distorta (…).
 
A mo' di esempio, è normale trovare fra i portavoce del fracking certi argomenti, come per esempio che la produzione di petrolio di scisto negli Stati Uniti si è moltiplicata per 18 negli ultimi 10 anni (senza dire che 10 anni fa era praticamente insignificante) e scrivere ciò abilmente in una frase in cui si dice che gli Stati Uniti sono già energeticamente indipendenti (cosa radicalmente falsa) (…), dando da intendere che una cosa abbia portato l'altra.
 
Quando si legge frequentemente ciò che dice questa gente si rileva la frode di mischiare mezze verità e bugie, perché le frasi sono sempre identiche (…), ma al lettore ignaro possono sembrare cose vere, e questo è proprio l'obbiettivo di tali disinformazioni.
Siccome per giunta queste opinioni costruite con la presentazione parziale di fatti scelti è rappresentata in modo diffuso nei mezzi di comunicazione, si ottiene il risultato di offuscare il dibattito e che la verità non venga mai conosciuta.

La verità, quello che crediamo sia la verità oggettiva delle cose, non è, naturalmente, mai completamente oggettiva: le inclinazioni cognitive proprie della persona che la cerca e la trasmette, le sue preferenze, influiscono in ciò che questa considera “la verità”.
Ma questa soggettività inevitabile nella presentazione dei fatti non può farci precipitare in uno scetticismo recalcitrante: io dico sempre che una certa dose di scetticismo è conveniente, ma un eccesso dello stesso è puro cinismo.

Quello che si deve fare è semplicemente concentrarsi sui fatti. La presentazione degli stessi può essere volontariamente o involontariamente prevenuta, ma almeno si tratta di fatti. 
Ciò che deve fare il lettore critico è cercare altri fatti che corroborino o integrino nel suo caso la parte della verità che gli era stata presentata. Per questo è importante che il lettore sia parte attiva e critica di ciò che legge.

Un'altra grande deficienza del nostro tempo è che i lettori e gli spettatori sono passivi e apatici e fondamentalmente si bevono più o meno acriticamente tutto ciò viene dato loro da bere, senza cercare di ragionare, senza confrontare con informazioni precedenti, senza cercare le incongruenze. Insomma, senza essere critici e responsabili, come dovrebbe essere un buon cittadino.

Il massimo dell'assurdo, i pochi giornalisti che comprendono che bisogna andare oltre ed informare veramente, coloro che realmente cercano la verità e la presentano basata sui fatti e non nelle dichiarazioni degli uni o degli altri, vengono solitamente definiti “attivisti”, come se la loro obbiettività si vedesse offuscata proprio dalla loro ricerca dei fatti e della verità.
Questo tipo di giornalista di solito ha problemi coi mezzi di comunicazione per i quali lavora, a prescindere da quale sia il loro orientamento politico formale, visto che alla fine sono tutti in mano al grande capitale.

Una delle cose che accadono quando ci si concentra sui fatti, quando ci si concentra sulla verità, è che si viene accusati di mettersi in discussioni politiche anche se si sta parlando di scienza, che sia di risorse naturali o di clima.
E c'è sempre chi ti rimprovera che questo è inadeguato ed improprio per uno che si definisce scienziato, visto che gli scienziati devono rimanere puri, imparziali.
 
Questa critica in particolare è particolarmente assurda. Risulta che gli studi scientifici sull'ambiente e sulle risorse naturali, come in realtà quelli su qualsiasi altra materia, siano essenzialmente ed irrinunciabilmente politici. Poiché per definizione la politica è la discussione degli assunti che interessano i cittadini. (…).
Ciò che non si deve, è l'essere “partitico”: non si può, da un punto di vista meramente tecnico, prendere partito per un'opzione o per l'altra, fra le altre cose perché le dinamiche di partito di solito portano presto o tardi a sacrificare certe idee in nome del pragmatismo.

Deve quindi la scienza cercare di dare risposta a questioni politiche? La risposta è sì, è in realtà è sempre stato così. La scienza tenta di dare risposta a problemi che preoccupano l'uomo e che spesso condizionano l'organizzazione sociale, cioè gli aspetti politici.
Lo scienziato non è colui che prende le decisioni di come gestire questa conoscenza, ma è colui che deve decidere quello che c'è che può funzionare e quello che non può in base alle proprie conoscenze.
 
Conoscenze incomplete e sempre provvisorie, naturalmente, ma che sono la sola cosa che abbiamo in ogni determinato momento e che costituiscono una guida migliore di interessi molto più falsi in base ai quali si prendono tanto spesso decisioni con conseguenze deplorevoli.
L'opinione pubblica è talmente poco educata al dibattito dei fatti, al dibattito scientifico, che ogni volta che si affronta da un punto di vista scientifico un determinato tema, causa sorpresa ciò che viene considerata un'eccessiva “rotondità”.
 
Succede che il dibattito di opinioni è sempre soggettivo e pertanto le regole di cortesia implicano che gli interlocutori devono essere disposti a concedere un certo beneficio del dubbio al punto di vista contrario: chi non fa così viene considerato un maleducato o un bruto.
Tuttavia, nel dibattito dei fatti non ci sono né mezze misure o considerazioni: il dibattito scientifico in questo senso è implacabile visto che è interessato solo alla verità. 
Non molto tempo fa ho trovato, discutendo con una persona su Internet, che dopo essere andato a presentare fatto dopo fatto, articolo dopo articolo, nonostante essere sempre stato educato nel tono, l'altro mi ha risposto in modo un po' rude: “Hai tutte le risposte”.

E' che in un dibattito di opinioni non è ammissibile essere convincenti. Tuttavia, parliamo di fatti. Come gli ho detto, la questione era semplice: leggi i miei fatti e confutameli con dei dati, se credi che non siano corretti. 
E' così che si discute di scienza. La scienza, diciamocelo ancora una volta, non è opinabile. Non possiamo sottoporre a votazione il risultato di due più due: dovrà fare sempre quattro, e farà sempre quattro, indipendentemente dalle nostre preferenze o opinioni al riguardo. (…)
 
A volte qualcuno mi dice che “la critica deve sempre essere costruttiva” e di nuovo la affermazione è erronea. La critica alle persone deve essere sempre costruttiva, visto che una persona non la possiamo scartare ed iniziare con un'altra: bisogna tentare di migliorarla a partire da quello che c'è, pertanto la critica deve essere diretta a costruire, non a distruggere.
Tuttavia, la critica alle ipotesi, alle idee, deve essere cruda, implacabile, logica, feroce. E se le ipotesi non sono controfirmate da dati, se la teoria risulta falsata, la si butta per intero e se ne cerca una nuova. E' così che progredisce la conoscenza. (…).

Il primo passo per poter costruire una società più equilibrata e meno cinica è recuperare il rispetto per il dibattito scientifico ed applicare una imparzialità implacabile nella discussione dei fatti. E' necessario per comprendere appieno dove siamo e dove possiamo dirigerci ed è imprescindibile per recuperare la nostra dignità come esseri umani. >>
 
ANTONIO TURIEL


sabato 5 luglio 2014

Pax Romana - 2

Si conclude qui il post di Ugo Bardi sul ruolo dei metalli preziosi nel crollo dell’Impero Romano. Lumen
 
(seconda parte)

<< L'energia dell'Impero Romano proveniva dall'agricoltura; principalmente sotto forma di grano. All'inizio della loro storia e per diversi secoli a seguire, sembra che i Romani avessero pochi problemi o nessuno nel produrre abbastanza cibo per la loro popolazione.
Questo ha una certa logica, considerando che ai tempi dei Romani la popolazione europea era di meno di un decimo di quella di oggi e quindi c'era un sacco di spazio libero per le coltivazioni.
 
Le notizie di problemi alimentari nell'Impero appaiono solo col primo secolo EV (era volgare) e carestie veramente disastrose appaiono solo col quinto secolo EV, quando l'Impero Romano d'Occidente era già nella sua fase terminale. Il “picco del cibo”, apparentemente, arrivò molto più tardi, circa 3-4 secoli dopo quello dell'oro.
L'esistenza stessa di un “picco del cibo” per l'Impero Romano è qualcosa che lascia perplessi: l'agricoltura è, in linea di principio, una tecnologia rinnovabile che è stata in grado di alimentare la popolazione Romana per diversi secoli.
 
Durante l'ultimo periodo dell'Impero, non ci sono prove di un aumento di popolazione; al contrario, è chiaro che questa era calata. Allora, perché l'agricoltura non poteva produrre abbastanza cibo ?
Il problema è che produrre cibo non comporta solo arare qualche terreno e seminare colture. I rendimenti agricoli dipendono dai capricci del tempo e, ancora più importante, l'agricoltura ha la tendenza ad esaurire i terreni dal suolo fertile come conseguenza dell'erosione.
 
Per evitare questo problema, gli antichi avevano una serie di strategie: una era il nomadismo. Dal “De Bello Gallico” di Cesare apprendiamo che, nel primo secolo EV, le popolazioni europee avevano ancora uno stile di vita nomade.
Lo facevano per trovare nuova terra incontaminata e piantare colture nel suolo ricco che potevano produrre abbattendo e bruciando alberi. Questo era possibile perché l'Europa continentale, allora, era quasi vuota ed intere popolazioni potevano spostarsi senza impedimenti.
 
I Romani, invece, erano una popolazione stanziale e avevano il problema dell'esaurimento del suolo. Quando la popolazione crebbe, l'erosione divenne un problema, specialmente in regioni montagnose come l'Italia.
In aggiunta, alcuni centri urbani – come Roma – divennero così grandi che erano impossibili da alimentare usando solo risorse locali. Col primo secolo EV, la situazione portò allo sviluppo di un sofisticato sistema logistico basato su navi che portavano il grano a Roma dalle province africane, principalmente da Libia ed Egitto.
 
Era una grande impresa per la tecnologia del tempo assicurare che gli abitanti di Roma ricevessero abbastanza grano e proprio quando ne avevano bisogno.
Richiese grandi navi, impianti di stoccaggio e, più di tutto, una burocrazia centralizzata che andò sotto il nome di “annona” (dalla parola latina “annum”, anno). Questo sistema era così importante che Annona fu trasformata in una Dea a pieno titolo dalla propaganda imperiale. (…)
 
Nonostante la sua complessità, il sistema logistico Romano del grano ebbe successo nel sostituire l'insufficiente produzione italiana e permise di sfamare una città grande come Roma, la cui popolazione si avvicinava (e forse superava) un milione di abitanti durante i tempi d'oro dell'Impero.
Ma non era solo Roma che beneficiava del sistema di trasporto del grano e il sistema poté creare una densità di popolazione relativamente alta, concentrata lungo le coste del Mar Mediterraneo.

Era questa più alta densità di popolazione che diede ai Romani un vantaggio militare sui loro vicini settentrionali, i “barbari”, la cui popolazione era limitata dalla mancanza di un simile sistema logistico. 
Ma che cosa spostava il grano dalle coste dell'Africa a Roma? In parte, era il risultato del commercio. Per esempio, le compagnie che spedivano il grano erano in mani private e venivano pagate per il loro lavoro.

Ma il grano in sé non si spostava a causa del commercio: le province inviavano grano a Roma perché erano costrette a farlo. Dovevano pagare tasse al governo centrale e potevano farlo o in moneta o in natura. 
Sembra che i produttori di grano pagassero normalmente in natura e Roma non spediva nulla in cambio (eccetto in termini di truppe e burocrati). Quindi, l'intera operazione era un cattivo affare per le province ma, come sempre negli Imperi, rinunciare al sistema non era permesso.

Quando, nel 66 DC, gli Ebrei di Palestina decisero che non volevano pagare più le tasse a Roma, la loro ribellione fu schiacciata nel sangue e Gerusalemme fu saccheggiata. Alla fine, era la forza militare che teneva sotto controllo il sistema. 
Il sistema Romano dell'annona potrebbe non essere stato equo, ma funzionò bene e per lungo tempo: almeno per qualche secolo. Sembra che il sistema agricolo africano fosse gestito dai Romani con ragionevole cura e che fu possibile evitare l'erosione del suolo quasi fino alla fine stessa dell'Impero d'Occidente.

Notate anche che il sistema dell'annona non sembra essere stato condizionato - di per sé – dal deprezzamento del denarius d'argento. Questo è ragionevole: i produttori di grano non avevano scelta, non potevano esportare i loro prodotti a lunghe distanze e avevano soltanto un mercato: Roma e le altre grandi città dell'impero. 
Ma il sistema che alimentava la città di Roma sembra essere declinato, e alla fine collassato, durante il quinto secolo EV. Abbiamo alcune prove che fu in questo periodo che l'erosione trasformò le coste nordafricane dalla “cintura del grano” dei Romani al deserto che vediamo oggigiorno.

Probabilmente, il disastro era inevitabile, ma è anche vero che la guerra fa un sacco di danni all'agricoltura e questo è certamente vero per la regione nordafricana, oggetto di estese guerre durante l'ultimo periodo dell'Impero Romano. 
Più in generale, la tensione del sistema economico generata dalla guerra continua potrebbe aver portato i produttori a sfruttare troppo le loro risorse, privilegiando i guadagni a breve termine alla stabilità a lungo termine. Se non fosse per questi eventi, è probabile che la produttività agricola della terra avrebbe potuto essere mantenuta per un tempo molto più lungo. Ma così non è stato.

Con le terre nordafricane che si trasformavano rapidamente in un deserto, il Re Genserico dei Vandali (…), interruppe l'invio di grano a Roma nel 455 EV, procedendo poi a saccheggiare la città lo stesso anno.
Quella fu la vera fine di Roma, la cui popolazione si ridusse da almeno alcune centinaia di migliaia di persone a circa 50.000. Era la fine di un'era e le coste del Nord Africa non sarebbero mai più state esportatrici di cibo.
I sistemi complessi tendono a crollare in modo complesso e diversi fattori interconnessi giocarono un ruolo insieme, prima nel creare l'Impero Romano, poi nel distruggerlo.

All'inizio, fu un'innovazione tecnologica, il conio di metalli preziosi, che portò i Romani a sviluppare una grandezza militare che permise loro di accedere a risorse che sarebbero state impossibili da sfruttare altrimenti: i terreni agricoli nordafricani. 
Ma, come succede spesso, il meccanismo di sfruttamento era così efficiente che alla fine ha distrutto sé stesso. La produttività calante delle miniere di metallo prezioso ridussero l'efficienza del sistema militare Romano e questo, a sua volta, portò alla frammentazione e a guerre estese.

Le aumentate necessità di risorse per la guerra furono un fattore importante nella distruzione del sistema agricolo il cui collasso, a sua volta, mise fine all'Impero. (…)
Un sistema economico tende a sfruttare eccessivamente le risorse che usa. (…) Di conseguenza, gli Imperi raramente collassano dolcemente e tutti insieme, ma piuttosto tendono a frammentarsi e ad ingaggiare guerre intestine prima di scomparire veramente.
Questo fu il destino dell'Impero Romano, che ha sperimentato la legge generale per cui la potenza è niente senza controllo.
 
E' sempre stato affascinante vedere l'Impero Romano come uno specchio lontano della nostra civiltà.
E, infatti, vediamo che i punti di contatto sono molti. Pensate solo al sofisticato sistema logistico Romano: le navis oneraria che trasportavano grano dall'Africa a Roma sono l'equivalente delle nostre super petroliere che trasportano petrolio greggio dal Medio oriente ai paesi Occidentali.

E pensate come Cina ed India stiano giocando oggi lo stesso ruolo che giocavano nei remoti tempi dei Romani: sono centri di produzione che stanno gradualmente risucchiando la ricchezza dell'Impero che chiamiamo, oggi, “globalizzazione”. 
Detto questo, c'è anche un'ovvia differenza. Il sistema energetico Romano era basato sull'agricoltura e quindi era teoricamente rinnovabile, almeno finché i Romani non lo hanno sfruttato eccessivamente.

Quindi, tendiamo ad essere più preoccupati dell'esaurimento delle nostre risorse energetiche piuttosto che di quelle di oro e argento che – sembrerebbe – abbiamo potuto rimuovere in sicurezza dal nostro sistema finanziario senza problemi evidenti. 
Tuttavia, rimane il problema fondamentale che la potenza è inutile senza controllo. Il sistema di controllo dell'Impero della globalizzazione (…) è basato su un sofisticato sistema finanziario che, alla fine, funziona perché è integrato col sistema militare.

Nell'esercito globalizzato, i soldati, proprio come quelli Romani, vogliono essere pagati. E vogliono essere pagati con una moneta che possano riscattare con beni e servizi da qualche parte. Il dollaro ha, finora, giocato questo ruolo, ma lo può giocare per sempre?
Alla fine, tutto ciò che fanno gli esseri umani è basato su qualche forma di credenza di cosa abbia valore in questo mondo. I Romani vedevano l'oro e l'argento come magazzini di valore.

Per noi, c'è la credenza che i bit generati dentro dei computer siano magazzini di valore (…) e che non ci sarà mai un “picco dei bit” finché ci sono computer in giro; ma di sicuro un grande collasso finanziario non ci impoverirebbe soltanto, ma - più di tutto - distruggerebbe la nostra capacità di controllare le risorse energetiche di cui abbiamo così disperatamente bisogno. (…)
 
L'Impero Romano fu perduto quando il sistema finanziario cessò di essere in grado di controllare il sistema militare. Quando i Romani persero il loro oro, persero tutto.
Nel nostro caso, (…) se il dollaro perdesse la sua predominanza nel sistema finanziario mondiale, allora i produttori potrebbero essere tentati di tenere le proprie riserve di petrolio per sé o, almeno, non essere più così entusiasti di permettere all'Impero di accedervi. >>
 
UGO BARDI