In un post precedente ho parlato di come le innovazioni tecniche dei colori hanno cambiato la storia della pittura.
Ma queste innovazioni, derivanti da uno studio sempre più approfondito delle caratteristiche fisico-chimiche dei colori e delle strutture visive, hanno finito per cambiare anche la nostra stessa percezione del colore.
Ce ne parla Riccardo Falcinelli, autore del libro 'Cromorama', in questa intervista concessa a Giulia Zappa per il sito Artribune (Link) .
LUMEN
<< D - In Cromorama racconti innanzitutto quanto la nostra percezione del colore sia stata modificata dall’avvento della società di massa e delle innovazioni tecniche che l’hanno plasmata. Come mai la rivoluzione industriale ha rappresentato uno spartiacque riguardo alla nostra idea del colore?
R - Nell’arco di cento anni la rivoluzione industriale ci ha messo a disposizione qualsiasi tipo di oggetto in qualsiasi colore. Prima dei coloranti industriali, ciò era impensabile: ad esempio il colore era innanzitutto un materiale o povero o prezioso, per cui il nero veniva ricavato dal carbone e il blu dal lapislazzulo, per restare sugli esempi più famosi.
Le ultime generazioni sono cresciute con i pastelli e i pennarelli, educate al fatto che il colore è staccato dalle cose: qualcosa che mettiamo “sopra” una superficie. Questa è una constatazione banale, ma a me affascinava il fatto che fosse così banale.
L’industria ha dunque operato una rivoluzione epistemologica nel rapporto che abbiamo con ciò che guardiamo: il tema del libro è sicuramente il colore, che è però anche un pretesto per svelare come, nel nostro rapporto con la dimensione estetica, le cose più banali sono in realtà quelle che si sono costruite in maniera più artificiosa.
D - Una delle scoperte più interessanti che Cromorama ci svela è che la tinta unita è un’invenzione della modernità. L’avvento del digitale ha in qualche modo enfatizzato questa dimensione flat, come sembra ricordarci anche l’odierno web design?
R - La tinta unica è un modo di pensare. Per la tecnica, prima quella meccanica dell’800, poi oggi quella digitale, fare la tinta unita è più facile. Se pensiamo all’informatica, costa meno energie fare il file di un’immagine con un solo colore rispetto a una sfumatura.
Ciò era impensabile in passato, quando l’industria tintoria doveva anche solo confrontarsi con tessuti e intonaci che sbiadivano con grande facilità, mentre nei mattoncini Lego di quarant’anni fa il colore è rimasto intatto. Per Michelangelo che dipinge la Sistina fare una tinta unita era difficilissimo, e magari non faceva neanche parte dei suoi desideri estetici. (...)
Naturalmente non tutti gli illustratori assecondano questa scelta, ne esistono alcuni che pur lavorando moltissimo in digitale hanno trovato degli escamotage per inserire elementi caldi o pittorici nelle loro opere, scomponendo così l’effetto sintetico della tinta unita.
D – L'epoca contemporanea che visione ha della tinta unita ?
R - Pensiamo ad esempio a una cosa di cui nel libro non parlo, ossia tutti i filtri di Instagram che sporcano le immagini o che simulano l’effetto di un negativo venuto male. Come spesso accade, la tecnologia ci permette di sviluppare qualche cosa facilmente, ma poi iniziamo a desiderare qualcosa che gli vada contro, e questo spesso si trasforma in una moda.
Quando ho iniziato a fare il grafico vent’anni fa, più i colori erano compatti, sintetici, elettronici, più piacevano. L’esplosione di Photoshop all’inizio degli Anni ’90 amplifica qualcosa che era iniziata con l’aerografo all’inizio degli Anni ’80, la sfumatura perfetta, la cromatura brillante.
Passano poi pochissimi anni ed esplode un altro tipo di gusto, il rovinato e il destrutturato, e diventa una star uno come David Carson, che è stato il maestro della grafica sporca. (...)
D - Nel libro insisti molto sul fatto che noi desideriamo un colore perché ci ricolleghiamo all’idea che quel colore esprime. La moda, che hai già chiamato in causa, che ruolo ha in questo meccanismo? (...)
R - (…) Il potere della moda arriva quando alcuni designer o brand riescono a imporre una singola tinta o un insieme di tinte che si trasformano in un immaginario. Dietro c’è sicuramente uno studio di cui parlo anche in Cromorama: ci sono persone che studiano cosa è andato di moda, quello che è passato, quello che potrebbe piacere, sebbene poi ogni anno vengano messi in commercio un’infinità di colori nuovi.
Quello che poi vince, a mio parere, è ciò che darwinianamente, per ragioni anche imperscrutabili, finisce per affermarsi e viene poi molto imitato. Più che di singole tinte mi viene da dire che quello che finisce per andare di moda è un sistema di tinte.
D - In Cromorama insisti molto sul ruolo dell’industria nel creare degli standard percettivi che si sono oramai imposti come veri e propri archetipi: un esempio su tutti, la matita gialla, che vende di più rispetto a quelle in altri colori. Eppure, il discorso at large sul design – a partire dal mobile ma non solo – continua a porre l’accento sull’artigianalità come possibilità di deviazione dal prodotto seriale. Come convivono secondo te questi due livelli quando parliamo di colore?
R - La ricerca sulla deviazione dal seriale esiste, ma rimane in ambito di élite, destinata a quei pochi che vantano una fortissima vocazione artistica. Non dico che non sia interessante, ma non è quello che cambia le carte in tavola.
Piuttosto, l’industria ha la possibilità di prendere delle forme inventate trenta, quarant’anni fa e di trasformarle in un altro contesto, contribuendo a plasmare il gusto del grande pubblico.
Questo meccanismo, a tratti perverso, è senz’altro affascinante: dispiace però che il pubblico si scordi chi ha realmente inventato quelle cose, come ad esempio quando ci troviamo di fronte un’ennesima derivazione di una sedia degli Eames, ora trasformata in un’altra cosa. Del resto il nostro sguardo si è abituato alla commistione tra generi e forme diverse, che tendiamo a mettere sullo stesso piano.
D - (…) Come è possibile rieducare lo sguardo per vedere i colori come poteva fare un bizantino o un uomo del Rinascimento?
R - In generale è impossibile, si può però fare uno sforzo di razionalizzazione, ma solo a scuola. Non credo che esista un luogo altro deputato a questa analisi. Il libro si chiude dicendo che noi insegniamo ai bambini che puoi fare il verde mischiando il giallo con il blu, ma questa non è una verità. Diciamo allora che è un invito: l’unica cosa che possiamo fare per educare al design e all’arte è la scuola.
D - Tra i molti esempi che citi nel libro c’è anche quello di una Madonna lignea conservata nel museo di Liegi che nel corso della sua storia è stata ridipinta quattro volte, da nero, a blu lapislazzulo, a oro, a bianco dell’Immacolata, a seconda dei valori che questi colori hanno incarnato nel tempo. Se dovesse essere nuovamente ridipinta oggi, di che colore sarebbe?
R - (…) Probabilmente oggi non avrebbe un unico colore, perché in fondo l’immagine della Madonna è sempre stata un gadget, anche quando i gadget non esistevano. I primi santini sono della metà del ‘500 e oggi tu puoi avere i santini in più colori, a scelta del devoto. >>
RICCARDO FALCINELLI
Ce ne parla Riccardo Falcinelli, autore del libro 'Cromorama', in questa intervista concessa a Giulia Zappa per il sito Artribune (Link) .
LUMEN
<< D - In Cromorama racconti innanzitutto quanto la nostra percezione del colore sia stata modificata dall’avvento della società di massa e delle innovazioni tecniche che l’hanno plasmata. Come mai la rivoluzione industriale ha rappresentato uno spartiacque riguardo alla nostra idea del colore?
R - Nell’arco di cento anni la rivoluzione industriale ci ha messo a disposizione qualsiasi tipo di oggetto in qualsiasi colore. Prima dei coloranti industriali, ciò era impensabile: ad esempio il colore era innanzitutto un materiale o povero o prezioso, per cui il nero veniva ricavato dal carbone e il blu dal lapislazzulo, per restare sugli esempi più famosi.
Le ultime generazioni sono cresciute con i pastelli e i pennarelli, educate al fatto che il colore è staccato dalle cose: qualcosa che mettiamo “sopra” una superficie. Questa è una constatazione banale, ma a me affascinava il fatto che fosse così banale.
L’industria ha dunque operato una rivoluzione epistemologica nel rapporto che abbiamo con ciò che guardiamo: il tema del libro è sicuramente il colore, che è però anche un pretesto per svelare come, nel nostro rapporto con la dimensione estetica, le cose più banali sono in realtà quelle che si sono costruite in maniera più artificiosa.
D - Una delle scoperte più interessanti che Cromorama ci svela è che la tinta unita è un’invenzione della modernità. L’avvento del digitale ha in qualche modo enfatizzato questa dimensione flat, come sembra ricordarci anche l’odierno web design?
R - La tinta unica è un modo di pensare. Per la tecnica, prima quella meccanica dell’800, poi oggi quella digitale, fare la tinta unita è più facile. Se pensiamo all’informatica, costa meno energie fare il file di un’immagine con un solo colore rispetto a una sfumatura.
Ciò era impensabile in passato, quando l’industria tintoria doveva anche solo confrontarsi con tessuti e intonaci che sbiadivano con grande facilità, mentre nei mattoncini Lego di quarant’anni fa il colore è rimasto intatto. Per Michelangelo che dipinge la Sistina fare una tinta unita era difficilissimo, e magari non faceva neanche parte dei suoi desideri estetici. (...)
Naturalmente non tutti gli illustratori assecondano questa scelta, ne esistono alcuni che pur lavorando moltissimo in digitale hanno trovato degli escamotage per inserire elementi caldi o pittorici nelle loro opere, scomponendo così l’effetto sintetico della tinta unita.
D – L'epoca contemporanea che visione ha della tinta unita ?
R - Pensiamo ad esempio a una cosa di cui nel libro non parlo, ossia tutti i filtri di Instagram che sporcano le immagini o che simulano l’effetto di un negativo venuto male. Come spesso accade, la tecnologia ci permette di sviluppare qualche cosa facilmente, ma poi iniziamo a desiderare qualcosa che gli vada contro, e questo spesso si trasforma in una moda.
Quando ho iniziato a fare il grafico vent’anni fa, più i colori erano compatti, sintetici, elettronici, più piacevano. L’esplosione di Photoshop all’inizio degli Anni ’90 amplifica qualcosa che era iniziata con l’aerografo all’inizio degli Anni ’80, la sfumatura perfetta, la cromatura brillante.
Passano poi pochissimi anni ed esplode un altro tipo di gusto, il rovinato e il destrutturato, e diventa una star uno come David Carson, che è stato il maestro della grafica sporca. (...)
D - Nel libro insisti molto sul fatto che noi desideriamo un colore perché ci ricolleghiamo all’idea che quel colore esprime. La moda, che hai già chiamato in causa, che ruolo ha in questo meccanismo? (...)
R - (…) Il potere della moda arriva quando alcuni designer o brand riescono a imporre una singola tinta o un insieme di tinte che si trasformano in un immaginario. Dietro c’è sicuramente uno studio di cui parlo anche in Cromorama: ci sono persone che studiano cosa è andato di moda, quello che è passato, quello che potrebbe piacere, sebbene poi ogni anno vengano messi in commercio un’infinità di colori nuovi.
Quello che poi vince, a mio parere, è ciò che darwinianamente, per ragioni anche imperscrutabili, finisce per affermarsi e viene poi molto imitato. Più che di singole tinte mi viene da dire che quello che finisce per andare di moda è un sistema di tinte.
D - In Cromorama insisti molto sul ruolo dell’industria nel creare degli standard percettivi che si sono oramai imposti come veri e propri archetipi: un esempio su tutti, la matita gialla, che vende di più rispetto a quelle in altri colori. Eppure, il discorso at large sul design – a partire dal mobile ma non solo – continua a porre l’accento sull’artigianalità come possibilità di deviazione dal prodotto seriale. Come convivono secondo te questi due livelli quando parliamo di colore?
R - La ricerca sulla deviazione dal seriale esiste, ma rimane in ambito di élite, destinata a quei pochi che vantano una fortissima vocazione artistica. Non dico che non sia interessante, ma non è quello che cambia le carte in tavola.
Piuttosto, l’industria ha la possibilità di prendere delle forme inventate trenta, quarant’anni fa e di trasformarle in un altro contesto, contribuendo a plasmare il gusto del grande pubblico.
Questo meccanismo, a tratti perverso, è senz’altro affascinante: dispiace però che il pubblico si scordi chi ha realmente inventato quelle cose, come ad esempio quando ci troviamo di fronte un’ennesima derivazione di una sedia degli Eames, ora trasformata in un’altra cosa. Del resto il nostro sguardo si è abituato alla commistione tra generi e forme diverse, che tendiamo a mettere sullo stesso piano.
D - (…) Come è possibile rieducare lo sguardo per vedere i colori come poteva fare un bizantino o un uomo del Rinascimento?
R - In generale è impossibile, si può però fare uno sforzo di razionalizzazione, ma solo a scuola. Non credo che esista un luogo altro deputato a questa analisi. Il libro si chiude dicendo che noi insegniamo ai bambini che puoi fare il verde mischiando il giallo con il blu, ma questa non è una verità. Diciamo allora che è un invito: l’unica cosa che possiamo fare per educare al design e all’arte è la scuola.
D - Tra i molti esempi che citi nel libro c’è anche quello di una Madonna lignea conservata nel museo di Liegi che nel corso della sua storia è stata ridipinta quattro volte, da nero, a blu lapislazzulo, a oro, a bianco dell’Immacolata, a seconda dei valori che questi colori hanno incarnato nel tempo. Se dovesse essere nuovamente ridipinta oggi, di che colore sarebbe?
R - (…) Probabilmente oggi non avrebbe un unico colore, perché in fondo l’immagine della Madonna è sempre stata un gadget, anche quando i gadget non esistevano. I primi santini sono della metà del ‘500 e oggi tu puoi avere i santini in più colori, a scelta del devoto. >>
RICCARDO FALCINELLI
Che bel verde! Ma sei daltonico, non vedi che è blu? Quante volte ci siamo trovati a confrontarci con percezioni del colore diverse dalla nostra! Siamo abituati a pensare che il colore sia una proprietà intrinseca degli oggetti che vediamo, ma non è così. Il colore in realtà è una percezione che si crea nel nostro cervello nel momento in cui i la nostra retina viene stimolata da una luce proveniente da un oggetto. Ciò significa che la percezione del colore è in parte soggettiva. Ciò dovrebbe, ma il condizionale è d'obbligo, aiutare l'uomo a capire che le sue certezze sono in realtà fragilissime costruzioni di pensiero. Si preferisce lasciare il dubbio ai margini, e questa constatazione mi provoca tristezza.
RispondiEliminaE' una osservazione ineccepibile la tua, caro Agostino, che parte dalla natura fisica del colore per arrivare al cuore delle nostre convinzioni personali (e sociali).
EliminaNon perché le realtà della natura non siano univoche ed oggettive, ma perché tali non sono (e non possono essere) le nostre percezioni.
Una sana consapevolezza di questi limiti eviterebbe tante incomprensioni e tanti inutili contrasti.
Questa la presentazione del libro da parte dell'editore:
RispondiElimina<< Intrecciando storie su storie, e con l’aiuto di 400 illustrazioni, Falcinelli narra come si è formato lo sguardo moderno, attingendo all’intero universo delle immagini: non solo la pittura, ma anche la letteratura, il cinema, i fumetti e soprattutto gli oggetti quotidiani, che per la prima volta ci fa vedere in maniera nuova e inconsueta.
Tutte le società hanno costruito sistemi simbolici in cui il colore aveva un ruolo centrale: pensiamo al nero del lutto, al rosso del comunismo o all’azzurro del manto della Madonna.
Ciò che di straordinario è accaduto nel mondo moderno è che la tecnologia e il mercato hanno cambiato il modo in cui guardiamo le cose, abituandoci a nuove percezioni.
Visto su uno smartphone, un affresco risulta luminoso come una foto digitale. Le tinte cariche e brillanti dello schermo sono ormai il parametro con cui valutiamo la purezza di ogni fenomeno cromatico.
Chi ha conosciuto il colore della televisione, insomma, non può piú vedere il mondo con gli occhi del passato. Magari non ne siamo consapevoli, ma abbiamo in mente il giallo dei Simpson anche di fronte a un quadro del Rinascimento.
Cromorama ci racconta come oggi il colore sia diventato un filtro con cui pensiamo la realtà.
Nella società delle immagini il colore informa, come nelle mappe. Seduce, come in pubblicità. Narra, come al cinema. Gerarchizza, come nelle previsioni del tempo. Organizza, come nell’infografica. Valorizza, come nei cosmetici. Distingue, come negli alimenti. Oppone, come nella segnaletica stradale. Si mostra, come nei campionari. Nasconde, come nelle tute mimetiche. Si ammira, come nelle opere d’arte. Infine, nell’esperienza di ciascuno, piace.
Tutto questo accade grazie a qualche tecnologia. In primis quella dei mass media, che comunicano e amplificano le abitudini cromatiche.
Il pubblico osserva, sceglie, impara; finché queste consuetudini non standardizzano la percezione e il colore comincia a parlare da solo, al punto da sembrare un fatto naturale. >>
Guardando, ammirando Ronda Di Notte di Rembrandt, oppure un Caravaggio a scelta, si comprende come sia l'artista a dar vita al colore e non viceversa. Stiamo parlando di opere vecchie di 4 secoli, più o meno, capolavori universali mentre io, per esempio, se pur mi dotassero di centinaia di tubetti moderni da strizzare mai sarei capace di rendere il più piccolo dei dettagli....Illustrare, decorare è una cosa, dipingere un'altra.
RispondiEliminaDicono, ed io sottoscrivo in buona sostanza, che il pittore davanti alla tela bianca, lo scrittore davanti alla pagina pur'ella bianca, il cuoco di fronte slle materie prime tutte da trasformare in portate, piatti succulenti, tutti costoro soffrono della stessa sindrome. Ovvero il timore di non riuscire, oggi, a riempire quella tela, quella pagina, ad amalgamare convenientemente gli ingredienti così da far diventare un capolavoro la pappa al pomodoro, cone cantava la Pavone decenni orsono.
.....pur'essa bianca......
RispondiEliminaIo credo che la sindrome dell'artista davanti alla pagina/tela bianca non sia tanto quella di non saperla riempire - perchè il mestiere, in fondo, lo conoscono bene - ma quella di non riuscire a realizzare quello che hanno già creato dentro di loro.
EliminaOvvero di non riuscire a trasformare in una realtà oggettiva, comprensibile anche agli altri, il loro pensiero.
Perchè l'artista non vive per se stesso, ma per gli altri.
"Perchè l'artista non vive per se stesso, ma per gli altri."
EliminaUna definizione di sesso che mi piacque: il sesso è comunicazione. La più elementare immaginabile e che non necessita di parole o spiegazioni. Ma l'artista vuole davvero innanzi tutto comunicare? In un secondo momento certamente, ma in primo luogo crea per sé stesso, vuole realizzare il suo sogno, è alle prese con sé stesso. Ovviamente non crea nel vuoto assoluto e desidera poi un riconoscimento. Voltaire ci teneva a un riconoscimento del re, Mozart ambiva a una sinecura a corte.
Caro Sergio, la tua domanda è più che giustificata, ma penso che l'uomo, essendo un animale sociale, voglia principalmente comunicare i propri pensieri e i propri sentimenti.
EliminaE che questo desiderio sia più forte nelle persone che hanno una sensibilità superiore alla media.
Credo pertanto che anche gli artisti, prima ancora di ambire (come tutti) al successo ed alla gratificazione sociale, sentano proprio un bisogno primario alla comunicazione.
Il che, ovviamente, non esclude la creazione di opere per se stessi.