mercoledì 28 giugno 2017

Nemo dixit

C’era una volta, lontano nel tempo, il regno dell’ipse dixit. Le presunte “verità” erano poche, chiare, semplici e soprattutto, indiscutibili.
Ma le cose, pian piano, cambiarono e si finì per passare al relativismo, cioè a quello che potremmo definire un “nemo dixit”, con i suoi pro ed i suoi contro.
Una storia lunga e difficile, piena di dubbi e di ripensamenti, ma che potremmo definire, tutto sommato, a lieto fine.
Ce la racconta Alessandro Gilioli in questo breve, ma chiarissimo, excursus, tratto dal suo blog.
LUMEN

 

<< Per un paio di millenni o quasi, nessuno in Europa aveva dubbi sulla fonte oggettiva di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. La fonte che stabiliva giusto e ingiusto era Dio. Qualcosa di ontologico, appunto: in sé e per sé, oltre l'opinabile umano. Le leggi di cui le società si dotavano derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva, immutabile ed eterna.
 
Come noto - ma questa è divagazione - la legittimazione ontologica e religiosa della legge finì per attribuire un potere al papato che andava molto oltre i territori controllati dalla Chiesa. Il Papa che nel Medioevo incoronava gli imperatori o i re era il simbolo di questo passaggio di legittimazione: da Dio al Papa, dal Papa al monarca, il quale poi esercita questo potere derivante da Dio.
 
Nel corso della lotta per le investiture, nell'XI secolo, diversi pensatori vicini al papato arrivarono a teorizzare che, senza il placet pontificio, il re non avesse quindi alcuna legittimazione a governare, e che il popolo avesse nel caso diritto a ribellarsi.
 
Questo - al netto delle questioni di interesse - perché il potere e le sue leggi derivavano da Dio, il Papa ne era l'intermediario in terra e il re ne era solo il provvisorio depositario finale. Ne conseguiva, sostanzialmente, una società teocratica, come ovvio se tutti i valori e le leggi derivano da Dio.
 
Questa cosa, tuttavia, a un certo punto si è incrinata. Non la faccio lunga, che è cosa nota: l'Illuminismo, la Ragione, il vaglio critico della mente umana. Frutto, si sa, di una borghesia che voleva spezzare l'ordine antico del rapporto di potere esclusivo tra aristocrazia a Chiesa.
 
Ma al di là delle questioni di classe, fu anche una rivoluzione culturale: si iniziò a dubitare che la fonte del giusto e dell'ingiusto - e delle leggi che vi si conformavano - fosse Dio. Si iniziò a pensare che fosse, invece, l'uomo.
 
Quindi che il giusto e l'ingiusto fossero qualcosa di soggettivo, opinabile e non eterno. Privo di una fonte oggettiva, di un aggancio ontologico. Era nato il relativismo.
 
Il relativismo poneva diversi problemi. Ad esempio, Dostoevskij si chiedeva se in assenza di Dio fosse tutto lecito. Cioè se l'assenza di una fonte oggettiva non determinasse la fine dell'etica. Bel problema, se senza Dio ognuno poteva fare quel che gli pareva, perché tanto nessuna legge aveva più un aggancio ontologico.
 
I relativisti invece partorirono la democrazia. Cioè l'idea che in termini etici ognuno avesse i paradigmi valoriali che voleva, ma in termini pratici la legge con cui regolare la convivenza sociale doveva essere il frutto della volontà della maggioranza.
 
In altre parole, non è che morto Dio fosse tutto lecito. Semplicemente, morto Dio era la maggioranza delle persone a decidere cos'era lecito e che cosa no. Per regolare la convivenza civile, la società non ha più bisogno di Dio: fa da sé.
 
E la questione etico-valoriale viene staccata da quella pratica-legislativa: la prima è libera e soggettiva, ma all'interno delle regole poste dalla seconda la cui unica fonte è la maggioranza. Ovviamente anche questa soluzione ha i suoi punti deboli.
 
Ad esempio, in termini logici contiene un paradosso: si stabilisce che non esiste un valore etico oggettivo e assoluto, se non il fatto che non esiste alcun valore etico oggettivo e assoluto (quindi si fa a maggioranza). Un paradosso logico, appunto.
 
Ma finora non si è ancora trovata una soluzione migliore se non quella di proclamare come oggettiva e assoluta un'opinione valoriale soggettiva e di minoranza. E quest'ultima è una soluzione peggiore (come ho cercato di dimostrare qualche tempo fa sfottendo chi si oppone al suffragio universale).
 
Il secondo punto debole della relativizzazione di ogni norma a ciò che vuole la maggioranza (senza alcun aggancio ontologico valoriale) è che la maggioranza può fare cazzate gigantesche, dal "Crucifige!" che salvò Barabba alle elezioni che diedero la vittoria a Hitler.
 
Non che invece le decisioni prese da pochi potenti nella storia non abbiano provocato altrettante ingiustizie, ma insomma non è detto che le democrazie la imbrocchino sempre.
 
Per questo sono nate le Costituzioni. Che hanno mura più solide di leggi ordinarie, esigono più riflessioni e più passaggi per essere modificate, per alcuni punti si stabilisce perfino che non siano modificabili (es.: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale»), quindi - nuovo paradosso - se ne presume una seppur parziale eternità ontologica.
 
Insomma un discreto casino. Non è tutto semplice e chiaro come quando le leggi provenivano da Dio. Ma finora non si è appunto riusciti a fare di meglio - e tutto sommato la cosa funziona. Se qualcuno ha proposte alternative, dica pure. >>
 
ALESSANDRO GILIOLI

mercoledì 21 giugno 2017

Facciamo cifra tonda

E’ ben noto che gli esseri umani sono affascinati dalle “cifre tonde”, probabilmente perché sono più facili da memorizzazione.
Ma ci sono casi in cui le cifre tonde possono essere una trappola o addirittura un errore da evitare. Ecco tre brevi considerazioni sull’argomento, liberamente tratte dal web (con poscritto personale).
LUMEN



 
INDICI DI BORSA
<< Spesso le cifre tonde, per gli indici di borsa, ma anche per i singoli titoli, rappresentano obiettivi psicologici di una certa importanza.
Non c’è nessuna ragione razionale in questo, ma è una ricorrenza empirica che consente di individuare le cifre tonde come aree di resistenza.
Di fatto, spesso lo sforzo dei mercati si orienta a raggiungere questi traguardi e, una volta fatto, scattano “prese” di beneficio.
Ciò è in parte legato al fatto che chi si posiziona al rialzo su un trend, spesso mette ordini di vendita, per “accontentarsi”, proprio in coincidenza di cifre tonde.
Questo comportamento è dovuto alla semplificazione percettiva del nostro cervello, che, abituandosi a ragionare sui numeri col sistema decimale, vede inconsapevolmente il raggiungimento della cifra tonda come un obiettivo che precede la ripartenza del conteggio da 1 (ovviamente sulla decina, centinaio o migliaio superiore).
Per questo se dobbiamo scegliere un numero tendiamo istintivamente a scegliere una cifra tonda. >>
dal sito TREND-ONLINE.COM


 
GIOCO D’AZZARDO
<< Perché non ci si ferma quando è il momento di fermarsi e si insegue la “cifra tonda”?
Sappiamo che il cervello è una macchina perfetta e tra le sue peculiarità c'è quella di elaborare i segnali che riceve per renderci più semplice l'interpretazione.
I numeri sono informazioni da gestire ed è più facile gestirli in blocchi e le cifre tonde fanno parte degli schemi base con cui ragioniamo.
Che sia identificare anniversari, mettere scadenze, o ricevere il resto dal negoziante, la cifra tonda è quella che ci mette più a nostro agio.
Al casinò la cifra tonda è un pericolo per chi non ha un obiettivo ragionevole preciso, sia in vincita che in perdita.
Facciamo un esempio pratico:
Ad un giocatore la serata ha già dato soddisfazioni, tra alti e bassi dopo l'ultima puntata vinta si ritrova con un saldo parziale di +195 € che fare?
Quanti si fermano e chiudono bottega ? I più fanno il ragionamento: "arrivo a 200 e chiudo".
Il giocatore perde 5 € e poi ancora 10 € e a quel punto la cifra tonda del 200 € si allontana: "Ok 150 € li metto via e mi gioco questi" il suo è il comportamento tipico.
Così arriva a 150 e, se è un giocatore intelligente, si ferma e si mangia le mani per aver buttato via 45 €.
Oppure si può fissare su 100 €, come cifra tonda, e continuare a giocare inseguendo la vittoria, rischiando di vedere la cifra tonda scendere a 50 € e poi a 0.
La cifra tonda del pareggio è la peggiore di tutte, se si è in vincita, perchè è quella che vanifica tutti gli sforzi fatti.
C'è chi sostiene che tornare a casa con 20 € dopo essere stati quasi a 200 € non ha senso, tanto vale provare il colpo della fortuna.
Beh il colpo della fortuna nella maggior parte dei casi è un regalo al casinò e tornare a casa pareggiando fa crescere il rammarico meglio avere in tasca quei 20 € o anche 15 € o addirittura 5 €, per quanto piccola la cifra è un segno + sulla cassa della serata.
Ma soprattutto è la somma di quei 20 € che con il passare del tempo diventano una bella cifra, tonda o non tonda che sia. >>
dal sito LA ROULETTE.IT



TRUCCHI DEL MARKETING
<< Vediamo sempre più spesso proposte di prezzi a cifre ricche di decimali.
Offerte a 9.90 anziché a 10 euro, oppure appartamenti a 398.450 euro e non a 400.000, [e sin qui, la cosa appare ovvia - NdL], ma anche biglietti a 71,50 anziché 70 euro: i prezzi che non presentano “cifra tonda” sono ritenuti più affidabili.
Quando si deve vendere, il potenziale acquirente tende a ritenere una valutazione del prezzo più efficace quando questa presenta una cifra non tonda, perché si ha l’impressione che questi sia stato proposto dopo una valutazione più precisa.
Le persone, infatti, tendono a considerare una cifra più “dettagliata” maggiormente affidabile, in quanto esito di un processo di valutazione minuzioso, mentre la cifra tonda genera un senso di approssimazione.
Nel campo della negoziazione si è notato che le proposte con cifre tonde sono più facilmente non accettate, come se la controparte, percependo approssimazione nella valutazione da cui è stato generato il prezzo, pensi di poter esercitare un maggior diritto di negoziazione.
Se invece la stima appare (si sottolinea il verbo “appare”) più accurata, l’idea è che ci sia meno spazio per poter contrattare. >>
dal sito PSICOLOGO-MELZO.COM



UNO, NESSUNO E CENTOMILA (Poscritto)
A proposito di cifre tonde, anche il sottoscritto vorrebbe dire la sua.
Mi sono accorto infatti che - clicca oggi, clicca domani - il mio piccolo blog ha raggiunto il traguardo simbolico delle 100.000 visualizzazioni.
Mai avrei immaginato nel 2010, quando ho incominciato (quasi per caso) a condividere le mie riflessioni sul web, di arrivare a tanto.
E di questo devo ringraziare soltanto voi, amici lettori.
Da parte mia, posso solo confermare la minaccia (ehm, volevo dire l’impegno) di continuare ad annoiarvi ancora per un po’, magari con ritmi un po’ più blandi.
In fondo, tutti coloro che amano scrivere, dovrebbero essere soggetti alle 4 regole auree di Beppe Severgnini: avere qualcosa da dire / dirlo / dirlo brevemente / non ridirlo.
Ecco: io avevo qualcosa da dire, l’ho detto e, grazie alla mia innata pigrizia, l’ho detto brevemente; ora devo evitare di ridirlo troppo spesso.
Alla prossima.
LUMEN

mercoledì 14 giugno 2017

Top Secret

Le bugie e le omissioni “a fin di bene” sono sempre esistite e non si può negare che a volte risultino utili. Ma che succede quando vengono utilizzate in politica, nei confronti del popolo ? 
Ce ne parla Elena Giorza, in questo articolo tratto da Micromega. 
LUMEN


<< Il popolo, inconfessabilmente rappresentato come massa informe, disomogenea, ignorante e credulona, può essere, ma soprattutto, deve essere “illuminato”? La questione se sia opportuno e conveniente rivelare al popolo certe “verità” o se, invece, sia legittimo ingannarlo attraverso il ricorso a “errori utili” di natura religiosa, ha origini antiche, ma la sua presenza si rivela costante nel dibattito filosofico moderno e contemporaneo.
 
Per comprendere – con lo scopo di condividere o discostarsene criticamente – la posizione di chi oggi, in contesti liberal-democratici, mette in luce la pericolosità rappresentata dal completo svelamento, a livello popolare, di alcune dinamiche politiche, culturali e sociali, e la conseguente esigenza di individuare strumenti decettivi in grado di celarle, sembra utile rintracciare alcune tappe fondamentali nell’elaborazione teorica del concetto di “inganno salutare”. (…)
 
Tutti i tentativi - nel contesto delle democrazie liberali - di legittimare il ricorso a “errori utili” in ambito politico, in quanto mezzi necessari per la conservazione della democrazia stessa, possono essere riletti, e compresi nei loro aspetti più problematici, alla luce di due testi [famosi] e, più in particolare, di due concetti presenti in questi testi.
 
Da una parte la “nobile menzogna”, protagonista del III° libro della Repubblica di Platone; dall’altra le “pie frodi”, così come vengono delineate da Voltaire in alcune voci del suo Dizionario filosofico. Tale rilettura, pur istituendo un’analogia tra questi concetti, per risultare efficace non può evidentemente non tener conto dei contesti radicalmente diversi in cui le riflessioni degli autori appena citati si collocano.
 
Una chiara legittimazione dell’uso dell’impostura (…) è rappresentata dalla nozione platonica di “nobile menzogna”, esemplificata dal mito teologico-politico elaborato nel III° libro della Repubblica: « […] il dio, quando vi ha plasmato, nella generazione di quelli tra voi che sono capaci di esercitare il potere ha mescolato dell’oro, perciò sono i più pregevoli; in quella delle guardie, argento; ferro e bronzo nei contadini e negli artigiani. In quanto dunque siete tutti congeneri, per lo più genererete una discendenza simile a voi, tuttavia può accadere che dall’oro nasca prole d’argento e dall’argento dell’oro, e così via secondo tutte le possibilità. […] la città perirà, quando sarà protetta da un difensore di ferro o di bronzo»
 
In un orizzonte di tipo aristocratico e gerarchico, come quello che caratterizza la città ideale di Platone, l’utilizzo strumentale della religione – che si manifesta attraverso l’elaborazione di un mito falso, ma utile – assume un ruolo fondamentale. Nascondendo il carattere arbitrario e artificiale della gerarchia sociale e del progetto educativo platonico, la “nobile menzogna”, pur ammettendo un qualche tipo di mobilità sociale, garantisce la conservazione dell’ordine politico e, in particolare, dell’aristocrazia dei filosofi nei confronti della moltitudine (guardie e produttori).
 
È interessare notare come il concetto stesso di “nobile menzogna” in Platone assuma caratteristiche ben definite: è un inganno di natura retorica, “solo nelle parole”, e quindi diverso dalla menzogna in senso proprio che, in quanto forma di ignoranza, va rifiutata in modo netto; è una prerogativa dei governanti-filosofi che la devono prescrivere come “pharmakon” alla moltitudine, al fine di perseguire il bene comune; ha valore pedagogico, morale e politico; si serve della religione come “instrumentum regni”.
 
Analoga, sotto molteplici aspetti, alla “nobile menzogna” platonica è la nozione di “pie frodi” che emerge nella riflessione di Voltaire, in particolare in alcune voci del Dizionario filosofico: Ateismo, Fanatismo, Frode – in cui si domanda se si debbano usare pie frodi per il popolo e conclude affermando: «Pensiamo innanzitutto che un filosofo debba annunciare un Dio, se vuole essere utile alla società umana» – e Superstizione.
 
La così detta tesi “dell’utilità sociale” della religione nei confronti dei ceti più umili, significativamente giudicata da Sergio Landucci «l’aspetto più ripugnante della riflessione volteriana», implica l’idea che i principi religiosi siano considerati mezzi necessari dal punto di vista politico per evitare la ribellione dei sudditi, “non degni” di conoscere la verità e di essere istruiti: « […] il volgo non è fatto per simili conoscenze; la filosofia non sarà mai affar suo. Quanti dicono che esistono verità che devono essere celate al popolo non si devono minimamente allarmare; il popolo non legge; esso lavora sei giorni alla settimana e il settimo va all’osteria».
 
Rifiutando la possibilità di una morale “umana e di natura” indipendente dalla religione – e ritenendo impossibile, in polemica con Bayle, il darsi di una società di atei, in quanto la religione, alla base della moralità, costituisce un elemento essenziale di qualsiasi società stabile, tranne che di una ipotetica società di filosofi - Voltaire afferma che: «È indubbio che, in una città organizzata, è infinitamente più utile avere una religione, anche falsa, che non averne alcuna».
 
Significativo è il duplice carattere della religiosità che Voltaire propone: per quanto riguarda l’élite intellettuale è sufficiente il deismo, una religione primitiva, naturale e razionale, frutto della “purificazione” delle religioni positive, incentrata sul rispetto di alcuni principi morali fondamentali e basata sull’idea di un Dio garante dell’ordine naturale, razionale e morale.
 
Nei confronti del popolo incolto e povero, invece, l’autore arriva a teorizzare e a legittimare (…) una religione “falsa”, ma in grado di fungere da freno morale e sociale e di mantenere l’ordine politico. In tal senso, quindi, Voltaire si mostra convinto della necessità e dell’utilità di ingannare il popolo, evitando di “illuminarlo” su alcune verità scomode, in primis la falsità delle religioni positive, il cui Dio vendicatore e rimuneratore, e la cui credenza nell’immortalità dell’anima, si rivelano errori utili.
 
Dietro alla legittimazione delle “pie frodi” sembra celarsi la paura del demos da parte dell’ordine castale e la volontà di preservare il sistema sociale e politico: «Non credo che ci sia al mondo un sindaco o un podestà con soli quattrocento cavalli chiamati uomini da governare, il quale non comprenda la necessità di porre dio nelle loro bocche, acciocché serva da morso e da briglia».
 
La necessità, evidente in Voltaire, di una duplice soluzione del “problema politico” (…) che tenga conto di una netta e incolmabile disuguaglianza a livello intellettuale e culturale fra gli individui, riemerge prepotentemente in Leo Strauss. (…) Strauss, facendo propria una prospettiva anti-egualitaria e aristocratica, in polemica con la modernità e con concezioni di tipo democratico e liberale, recupera esplicitamente la “nobile menzogna” platonica affermando l’esigenza dell’uso strumentale delle religione da parte dell’élite politica in ambito pedagogico.
 
Evidentemente influenzato dalle riflessioni filosofiche di stampo platonico - e presupponendo una differenza radicale, dal punto di vista intellettuale e morale, tra il popolo e i “filosofi” - Strauss ritiene necessario nascondere a livello pubblico e politico gli esiti scettici cui la critica filosofica conduce. Per realizzare questo obiettivo egli propone il ricorso al mito religioso, in quanto strumento retorico di manipolazione e dominio sulla massa.
 
Rispetto al “problema politico” – inteso come urgenza di conciliare ordine e libertà senza cadere nei rispettivi eccessi – Strauss si mostra convinto del fatto che l’unica soluzione possibile sia, non tanto di natura economica o giuridica, come sostenuto all’interno della prospettiva moderna e liberale, ma di carattere comunicativo. L’aspetto più interessante della riflessione straussiana è la duplicità della sua proposta; duplicità che, mantenendo come riferimento principale Platone e la filosofia classica, richiama da vicino l’elaborazione volteriana (…) di una religione per il popolo (le “pie frodi”) distinta dal deismo elitario.
 
In “Liberalismo antico e moderno”, Strauss individua due forme alternative di educazione applicabili nella sua contemporaneità politica e alternative al modello laico e secolare proprio della modernità, destinata a degenerare, dal suo punto di vista, nel nichilismo o nel materialismo radicale.
 
La prima, di tipo “esoterico”, è quella destinata a una ristretta élite politica (i gentiluomini che devono governare) e ai filosofi (che si dedicano alla vita teoretica), considerati intellettualmente e moralmente superiori. L’educazione detta “liberale”, nel senso antico del termine: è l’educazione degna dell’uomo libero.
 
La seconda, di tipo “essoterico”, è riservata alla massa ed è l’educazione “religiosa”. Quest’ultima, elaborata sul paradigma della “nobile menzogna” platonica, si basa sull’utilizzo funzionale, da parte di chi detiene il potere, della religione – e, in particolare dell’idea di un Dio vendicatore e rimuneratore – come freno morale, sociale e politico utile per garantire il controllo e il soggiogamento del popolo incolto e “inferiore”.
 
A parere di Strauss, qualora la massa popolare venisse “illuminata” circa il carattere convenzionale della moralità e circa la falsità delle credenze e dei dogmi religiosi – ai quali la moralità stessa, nella prospettiva della “nobile menzogna”, è strettamente legata – l’opportunismo e l’irresponsabilità prenderebbero il sopravvento, spezzando i legami sociali. In tal senso chi governa, facendo propri il disincanto e lo scetticismo propri dell’autentica filosofia, ha non solo la possibilità, ma il dovere di ingannare, senza essere ingannato.
 
La reinterpretazione della menzogna platonica elaborata da Strauss, all’interno di una concezione aristocratica e paternalistica – ma legata a un rigido realismo e alla consapevolezza dell’impossibilità di un’aristocrazia universale – che mira a svuotare le istituzioni liberali e democratiche, fino a ridurle a pure formalità – per riempirle di contenuti nuovi attraverso il progetto educativo e politico a cui si è accennato – è, quindi, una dimostrazione evidente di come l’attuazione di una “politica del velo” possa arrivare (…) alla pericolosa negazione “de facto” delle democrazie moderne. >>

ELENA GIORZA

mercoledì 7 giugno 2017

Pensione "Italia"

Demografia, pensioni ed immigrazione incontrollata nel mondo occidentale, secondo il "grande" Luigi De Marchi. Il testo risale a quasi 20 anni fa, ma - purtroppo - appare attualissimo ancora oggi (dal libro: “O noi o loro”). 
LUMEN
 
 
<< Il Segretariato delle Nazioni Unite ha pubblicato recentemente uno studio [il libro è del 2000 - NdL] sui possibili scenari demografici dell'Italia e di altri sette paesi a bassa natalità (Francia, Germania, Regno Unito, Russia, Giappone, Corea del Sud e Stati Uniti) che merita d'essere segnalato perché sembra condensare in ogni sua pagina tutti i luoghi comuni della nostra sapienza (o insipienza) accademica e burocratica in campo demografico, economico e sociologico .

Può essere utile esporre anzitutto i dati "oggettivi" presentati dallo studio, che si propone di esaminare la probabile evoluzione della popolazione italiana nei primi cinquant'anni di questo secolo.
 
Secondo lo studio, se dovessero continuare gli andamenti attuali della natalità e della mortalità, la popolazione italiana calerebbe tra il 1995 ed il 2050, da 57 a 41 milioni. Va detto subito che questa riduzione, tutt'altro che imponente, viene vista dagli estensori del rapporto, conforme alle mode correnti, come un 'autentica calamità.
 
Per quanto mi riguarda, credo che invece ogni persona di buon senso dovrebbe considerarla un’autentica fortuna. Ricordo benissimo, tra l'altro, che l'Italia contava, durante il regime fascista, all'incirca quel numero di abitanti (42 milioni) e che nessuno riteneva quella popolazione insufficiente. Al contrario, già allora i luminari della nostra demografia la ritenevano troppo numerosa in rapporto al territorio nazionale (…).
 
A quei tempi, inoltre, nessuno si poneva il problema ecologico, anche perché i quattro/quinti della popolazione vivevano ancora in campagna ed i tassi d'inquinamento e consumo pro-capite erano un decimo di quelli attuali. Oggi, invece, la questione ambientale è diventata addirittura drammatica, per cui gli attuali 57 milioni di italiani, dati i loro tassi pro-capite di consumo e inquinamento, hanno un "peso ecologico", equivalente a quello d'oltre 2 miliardi di cinesi, di indiani o di africani stipati sulla nostra piccola penisola.
 
Una riduzione di 16 milioni di abitanti appare dunque, sotto il profilo ecologico, una vera benedizione. Ma stranamente, come tutti sappiamo, nessuno dei nostri verdissimi e zelanti apostoli della difesa ambientale si sogna mai di evidenziare i vantaggi enormi che la riduzione della popolazione assicurerebbe in campo ambientale.
 
Perché, dunque, tanta angoscia al pensiero di un calo demografico ? Perché, ci dicono, solo un radicale riequilibrio tra la popolazione attiva ed i pensionati può salvare l'Italia dalla bancarotta previdenziale. Ma, di grazia , dove sta scritto che agli attuali trattamenti pensionistici dobbiamo sacrificare la nostra libertà, la nostra pace sociale, la nostra identità culturale, la difesa delle nostre bellezze naturali e artistiche ed il futuro dei nostri figli ? Perché di questo si tratta, anche se nessuno, naturalmente, osa dirlo.
 
Vediamo dunque quali sono i rimedi alle "calamità pensionistiche" proposti dal rapporto delle Nazioni Unite. Sono tutti "rimedi", si fa per dire, imperniati su un'autentica alluvione immigratoria. Il rapporto dunque rivela che, per mantenere la popolazione residente in Italia ai livelli del 1995, sarebbe necessario l'insediamento di 13 milioni di immigrati sul nostro territorio con una triplicazione dei flussi migratori annui attuali e col risultato che, nel 2050, un terzo della popolazione italiana sarebbe costituito da immigrati e da loro discendenti.
 
Se però, precisa il rapporto, si volesse mantenere agli stessi livelli del '95 la popolazione in età lavorativa, ciò comporterebbe un aumento a 66 milioni e mezzo della popolazione complessiva, con una quintuplicazione dei flussi immigratori annui attuali, con un flusso totale di quasi venti milioni d'immigrati e col risultato che, nel 2050, 4 su 10 abitanti dell'Italia sarebbero immigrati o discendenti d'immigrati.
 
E se infine si volesse mantenere inalterato il rapporto del 1995 tra popolazione attiva e pensionati, nel prossimo cinquantennio dovremmo "accogliere" (come amano dire i nostri prelati, bene arroccati nelle loro principesche e inaccessibili residenze) la bazzecola di 120 milioni di immigrati, con una media di due milioni e duecentomila immigrati l'anno e col risultato che, nel fatidico 2050, l'80% della popolazione italiana (anzi, ex italiana) sarebbe costituito da immigrati o loro discendenti e l 'Italia avrebbe cessato d'esistere da tempo.
 
Tutto questo suona già assurdo sul piano intuitivo ed aritmetico, ma se pensiamo che la maggioranza di questi immigrati sarebbe (per motivi di contiguità geografica) di religione islamica, possiamo facilmente immaginare i disastri che ciò comporterebbe in termini di conflittualità sociale e interculturale, di criminalità, di arretramento socio-culturale delle donne italiane e di degenerazione autoritaria della nostra società, già oggi tutt'altro che liberale.
 
Ma quali sono, dinanzi a questi scenari apocalittici, le vere contromisure che nessuno sembra prendere in considerazione ? Anzitutto, data la gravità drammatica della minaccia, dovrà essere detto a tutti, e soprattutto ai giovani, che in un paese ove l'attesa di vita delle donne e degli uomini è aumentata di oltre 10 anni, anche l'età del pensionamento deve essere parimenti posposta.
 
Non è di certo una tragedia: al contrario, il pensionamento attuale delle donne a 55 anni, e degli uomini a 60 , porta spesso all'annientamento delle loro esistenze e alla perdita di un patrimonio prezioso di esperienza e diligenza professionale. Per parte mia, ho quasi 68 anni, lavoro da mezzo secolo e se dovessi smettere di lavorare piomberei in uno stato di depressione miserevole. E ricordo che mio padre fu ridotto, dal suo pensionamento, a una condizione quasi vegetale.
 
E poi, chi ha mai prospettato agli anziani la vera scelta: preferiscono vivere in un paese sconvolto dal caos di un'immigrazione annua quintupla rispetto a quella attuale, con tutto quanto ciò comporta in termini di moltiplicazione del degrado urbano e della criminalità o addirittura di guerra interetnica o preferiscono invece lavorare qualche anno di più ? Questa è la vera scelta, che peraltro nessuno prospetta ai diretti interessati: cioè né agli anziani, né ai giovani.
 
Già, perché è tempo di dire anche ai giovani che la razza padrona della demagogia statalista e sindacale, con la sua politica immigratoria paradossalmente avallata da certi liberisti d'accademia, sta svendendo il loro futuro e la civiltà occidentale, col suo retaggio di libertà e le sue conquiste democratiche, per assicurare a se stessa i propri vergognosi ed inutili privilegi: le pensioni miliardarie o semi-miliardarie [in Lire, ovviamente - NdL] dei mandarini della classe politico-burocratica dominante.
 
Ed è tempo di dire agli esperti nostrani e stranieri che la loro non è demografia, ma “buro-grafia”, cioè demografia da burocrati, decisi a godersi pensioni da nababbi alle spalle delle giovani generazioni. Insomma, per non perdere qualche anno di pensione o non farlo perdere ai nostri super-burocrati, vogliamo davvero ridurre l'Italia come la Bosnia o il Kossovo ? >>

LUIGI DE MARCHI