sabato 28 settembre 2013

Di tutti i colori

Continuo con le interviste virtuali, visto che, per il momento, non mi ha ancora fatto causa nessuno. La vittima di questo post è il grande genetista italiano Luigi Luca Cavalli-Sforza (con cui collabora spesso il figlio Francesco), con il quale parliamo di razzismo e di razze umane. 
LUMEN 


LUMEN - Il razzismo è un atteggiamento sicuramente sgradevole, ma non basta questo per renderlo falso. Quindi andiamo alla radice del problema: professore, esistono le razze umane ?
CAVALLI-SFORZA - Nella nostra specie non esistono le razze perché siamo troppo giovani come specie, non ne abbiamo avuto il tempo. Le grandi differenze sono tra individui, mentre quelle tra popolazioni sono una piccola percentuale, per esattezza circa l'11% delle differenze tra uomini. Si tratta di cose superficiali come la forma del corpo, il colore della pelle, che rispondono a necessità "ambientali".

LUMEN – Eppure tutti continuano parlare di razze umane.
CAVALLI-SFORZA – Si tratta di una costruzione ideologica, semplicemente. La parola razza è nata per definire la selezione delle varie stirpe di animali che gli allevatori ottenevano già dal primo medioevo per determinati animali: cani da riporto, da fiuto oppure cavalli da tiro o da corsa. E la selezione artificiale ha creato in pochi secoli tante razze di animali domestici.
 
LUMEN – Però l’idea di selezionare anche le "razze umane" è già emersa più volte nella storia.
CAVALLI-SFORZA – Sì, l’idea non è nuova e risale a ben prima di Hitler. Dai tempi dei faraoni egizi si è provato a limitare la procreazione in ambiti che si credevano "eletti". Prevalentemente nella stessa famiglia.
Ma qualsiasi tentativo di questo tipo è destinato a fallire per una ragione genetica che sancisce anche la fine biologica di qualsiasi razzismo: e cioè che gli incroci tra geneticamente simili sono molto delicati. Così le cosiddette "linee pure" degli allevatori sono spesso sterili e prede di malattie genetiche. Che si tratti di cani o umani la storia è la stessa.

LUMEN – Quindi si dovrebbe perseguire il contrario. Ovvero l’incrociarsi, il mischiarsi.
CAVALLI-SFORZA – Esatto: l'incrocio funziona meglio. E il meticciato fa bene al corpo e alla mente, in senso evolutivo si intende. E anche qui la motivazione è scientifica. E' il cosiddetto "vigore degli ibridi". L'evoluzione infatti comporta una differenziazione continua che forma tanti "tipi" diversi e migliora in corsa l'adattamento dell'individuo al proprio ambiente. E l'adattamento marcia ad ogni più piccolo mutamento.
 
LUMEN – Una differenziazione che consente molte diverse possibilità.
CAVALLI-SFORZA – Moltissime. Il numero di combinazioni genetiche possibile tra un maschio e una femmina umani è di un 3 seguito da tre miliardi di zeri ovvero una straordinaria possibilità di variazione ad ogni generazione. Ed è questa varietà prodotta in serie da processi perfettamente casuali la migliore garanzia di sopravvivenza delle generazioni future. Si chiama ricombinazione ed è come rimescolare il mazzo di carte per ogni giocatore senza introdurre mutazioni.

LUMEN – D’altra parte la ricombinazione genetica è proprio il grande vantaggio della riproduzione sessuale.
CAVALLI-SFORZA – Esatto. La riproduzione di carattere sessuale si è affermata in una varietà così ampia tra tutti gli animali superiori proprio perché rende possibile una straordinaria (e casuale) ricombinazione dei caratteri genetici dei genitori. Mutazione e ricombinazione, insieme alla cosiddetta deriva genetica (ad ogni generazione cambia la frequenza dei tipi genetici) sono importantissimi fattori di evoluzione. Poi c'è la selezione naturale che agisce come un setaccio che lascia passare quelli "adatti" per riprodursi. Ma in sostanza la grande varietà di tipi genetici frutto dell'evoluzione, presente ad ogni generazione è la migliore garanzia di sopravvivenza.

LUMEN – Ma c’è anche una varietà ed una ricombinazione a livello culturale.
CAVALLI-SFORZA - Senza dubbio la cultura che è "la" cosa che caratterizza l'uomo. E sono circa 6 mila le popolazioni umane che hanno sviluppato un propria cultura da quando, circa 50 mila anni fa, hanno iniziato a divergere, a colonizzare il mondo e sviluppare diversi modi di vita. E questa è la nostra migliore chance di sopravvivenza rispetto alle incognite del futuro. In natura la possibilità di compiere cambiamenti si vede ogni generazione ed è affidata alla rare mutazioni chiamate verticali, invece la cultura ci permette di realizzare dei cambiamenti in linea orizzontale.
 
LUMEN – Quindi molto più veloci.
CAVALLI-SFORZA - Nel mondo umano le idee sono l'equivalente delle mutazioni in campo genetico e si possono trasmettere a chiunque sia in grado di comprenderle. Questa è la ragione per cui l'evoluzione culturale è immensamente più veloce di quella genetica.
 
LUMEN – Possiamo fare qualche esempio ?
CAVALLI-SFORZA - Per adattarci ai climi freddi della Siberia 25-30 mila anni fa fu possibile grazie all'innovazione culturale dell'abito da pelliccia e dopo migliaia d'anni i corpi si sono adattati all'ambiente gelido. Basti pensare alle narici lunghe e sottili che servono a riscaldare l'aria gelata prima che arrivi ai polmoni e ai cuscinetti di grasso sotto l'occhio per non far gelare il liquido del globulo oculare e ancora gli occhi sottili tipici delle popolazioni mongole.
Adattamenti biologici si trovano ad ogni latitudine e hanno richiesto millenni. Mentre oggi si compra un'attrezzatura adeguata, un buon paio di occhiali antivento e l'adattamento culturale ci permette di fare un salto di 10 mila anni di adattamento biologico.

LUMEN – Ma la selezione darwiniana si effettua anche sulla diversità culturale tra "umani"?
CAVALLI-SFORZA – Direi proprio di sì, anche se non ne conosciamo sempre la direzione. Prendiamo un cittadino metropolitano occidentale e un contadino povero che zappa sul Medio Atlante marocchino: il metropolitano può sembrare il massimo della civiltà e l'altro un povero disgraziato. Ma metti solo che si produca una crisi energetica da petrolio: chi ne uscirà meglio? Il contadino di sicuro continuerà la sua vita. Ma noi? Probabilmente ne usciremmo peggio.

LUMEN – Quindi possiamo concludere che il razzismo non ha una base scientifica. Eppure esiste. Uno scienziato come si spiega questo fatto ?
CAVALLI-SFORZA - Non se lo spiega, se non come lo scontro tra tifosi di diverse squadre: l'appartenenza a un gruppo dà sicurezza, identità fino a inventarsi un nemico per affermarsi. Non c'è spiegazione scientifica.

LUMEN – Perdonatemi professore, ma anche il razzismo (pur essendo del tutto ingiustificato), potrebbe avere una sua spiegazione scientifica di tipo darwiniano: cioè si sarebbe evoluto perché aveva una sua utilità. L’aspetto esteriore, infatti, aiutava l’uomo a riconoscere le persone appartenenti al proprio clan, e quindi gli consentiva di indirizzare il proprio altruismo in modo geneticamente utile. Pertanto, una mentalità razzista, che spingeva ad essere collaborativi con le persone della propria (pseudo) razza, ed ostili con le altre, poteva essere un modo, un po’ rozzo ma in qualche modo funzionale, di aumentare la fitness del proprio pool genico.

sabato 21 settembre 2013

Lasciare l'impronta

“L’Italia è una Repubblica fondata sull’impronta ecologica”.
Questo dovrebbe essere l’incipit corretto della nostra costituzione, se davvero noi italiani avessimo a cuore il futuro ecologico del nostro bellissimo paese.
Il concetto di impronta ecologica è ben noto, e si riferisce, per ogni territorio, al rapporto tra le risorse prelevate dall’uomo in un certo periodo e quelle che vengono rigenerate spontaneamente dalla natura.
Perché un territorio possa restare in equilibrio ecologico è necessario che le prime (le risorse prelevate) non siano MAI superiori alle seconde (quelle rigenerate), ma purtroppo, da tempo, non è più così, a causa del livello  eccessivo della popolazione.
E questo vale non solo per la nostra povera Italia, ma per il mondo intero, come ci ricorda questo articolo  di Massimiliano Rupalti (da Effetto Cassandra).
LUMEN


<< Il 20 agosto è [stato] l'Earth Overshoot Day (EOD) 2013, la data che marca il giorno in cui l'umanità ha esaurito il budget della natura per l'intero anno.
Ora stiamo operando scoperti. Per il resto dell'anno manterremo il nostro deficit ecologico prelevando riserve di risorse locali ed accumulando biossido di carbonio nell'atmosfera.

Proprio come un estratto conto traccia gli ingressi e le uscite, il Global Footprint Network (GFN), [in Italiano: Impronta Ecologica Globale] misura la domanda dell'umanità e l'offerta di risorse naturali e di servizi ecologici.
E la data fa pensare. Il GFN stima che in circa otto mesi, richiediamo più risorse rinnovabili e sequestro di CO2 di quanto il pianeta possa fornire per un anno intero.

Nel 1993, l'EOD – la data approssimativa in cui il nostro consumo di risorse (…) eccede la capacità del pianeta di ricostituirle – era stato il 21 ottobre.
Nel 2003, è stato il 22 settembre. Date le attuali tendenze di consumo, una cosa è chiara: l'EOD arriva qualche giorno prima ogni anno.

L'EOD un concetto sviluppato originariamente dal partner del GFN, nonché gruppo di esperti del Regno Unito, fondazione per una nuova economia, è il segnale annuale di quando cominciamo a vivere oltre le nostre possibilità in un dato anno. 
Mentre è solo una stima delle tendenze di tempo e risorse, EOD è quanto più vicino la scienza possa arrivare nella misurazione del divario fra la nostra domanda di risorse e servizi ecologiche e quanto il pianeta ne possa fornire.

Durante gran parte della storia, l'umanità ha usato le risorse naturali per costruire città e strade, per fornire cibo e creare prodotti e per assorbire il nostro biossido di carbonio ad un tasso che rimaneva ben all'interno del budget della Terra.

Ma a metà degli anni 70, abbiamo superato una soglia critica: il consumo umano ha cominciato a superare ciò che il pianeta può riprodurre.
Secondo i calcoli del GFN, la nostra domanda di risorse ecologiche rinnovabili e dei servizi che esse forniscono ora equivale a quella di più di 1,5 Terre. I dati ci mostrano che siamo sulla strada per aver bisogno di due pianeti molto prima di metà secolo.

Il fatto che stiamo usando, o “spendendo”, il nostro capitale naturale più rapidamente di quanto possa essere riprodotto è simile ad avere spese che superano continuamente i redditi.
In termini planetari, i costi del nostro eccesso di spesa ecologica stanno diventando più evidenti oggi.

Il cambiamento climatico – un risultato dei gas serra che vengono emessi più rapidamente di quanto possano venire assorbiti da foreste e oceani – è il più ovvio e probabilmente pressante risultato. Ma che ne sono altri: riduzione delle foreste, perdita di specie, collasso della pesca, prezzi dei beni più alti e disordine sociale, per nominarne solo alcuni.

Le crisi economica e ambientale che stiamo vivendo sono sintomi di una catastrofe incombente. L'umanità sta semplicemente usando più di quanto il pianeta possa fornire.
Nel 2011, l'EOD è arrivato poche settimane più tardi di quanto non abbia fatto nel 2010. Questo significa che abbiamo ridotto il superamento globale? La risposta, sfortunatamente, è no. 

L'EOD è una stima, non una data esatta. Non è possibile determinare col 100% di precisione il giorno in cui esauriamo il nostro budget ecologico.
Le correzioni della data nella quale andiamo “in superamento” sono dovute alla revisione dei calcoli, non agli avanzamenti ecologici da parte dell'umanità. Secondo le ipotesi attuali, i dati del GFN ora suggeriscono che dal 2001 l'EOD ha anticipato il suo arrivo di tre giorni ogni anno. 

Visto che la metodologia del GFN cambia, le proiezioni continueranno a spostarsi. Ma ogni modello scientifico usato per contare la domanda umana dell'offerta della natura mostra una tendenza robusta: siamo ben al di là del budget e il debito sta aumentando.
E' un debito ecologico e gli interessi che stiamo pagando su questo debito montante – scarsità di cibo, erosione del suolo e l'accumulo di CO2 in atmosfera – arrivano con costi umani e monetari devastanti.  >>

MASSIMILIANO RUPALTI

sabato 14 settembre 2013

Puro Vangelo

LUMEN – Abbiamo di nuovo con noi Luigi Cascioli, che ringraziamo per la disponibilità.
CASCIOLI – Ci mancherebbe…

LUMEN – Oggi vorrei parlare della data effettiva a cui risalgono i libri del Nuovo Testamento, che, secondo voi, sarebbero di gran lunga posteriori a quanto preteso dalla Chiesa Cattolica.
CASCIOLI – Senza dubbio. Questi testi sono sicuramente posteriori al 150.

LUMEN – E’ una affermazione molto forte. Quali motivazioni stanno alla base di questa datazione ?
CASCIOLI – Le motivazioni sono parecchie: anzitutto Giustino, autore di due apologie sul cristianesimo, ignora nel 160 l'esistenza del vangeli, facendo allusione soltanto a frasi e detti del Signore che definisce “corte e laconiche”. Inoltre lo stesso Giustino, morto nel 165, ignora gli Atti degli Apostoli.

LUMEN – Interessante.
CASCIOLI – Poi abbiamo Marcione, il quale, continuando a difendere il suo Cristo gnostico dopo l'espulsione dalla comunità di Roma, accusa, intorno al 170, i vangeli ufficiali, che erano stati costruiti servendosi del suo, di essere dei falsi, attribuiti in forma fraudolenta a personaggi e apostoli dei tempi apostolici. Il riferimento è evidentemente a quelli di Marco e di Matteo, che furono i primi ad uscire.

LUMEN – Andiamo avanti.
CASCIOLI - Non vi è nessuna allusione a nessuno dei vangeli canonici né nella “Lettera di Barnaba” scritta nel 140, né nel “Pastore di Erma” scritto nel 150, né nella “Lettera ai Corinti” scritta da Clemente nel 150. In quest’ultima, poi, si parla della passione di Cristo non come di un fatto storico, ma come una profezia che si è realizzata secondo il profeta Isaia.

LUMEN – Proseguiamo.
CASCIOLI - Nel Didaché, documento risalente al II° secolo, si trova la formula del “Pater Noster” ed il “Sermone della Montagna”, entrambi di origine “essena”, ma nulla che parli dei 4 vangeli.

LUMEN – Notevole, direi.
CASCIOLI - Il primo che parla chiaramente dei 4 vangeli è San Ireneo, e siamo già nel 190.

LUMEN – Molto tardi, quindi.
CASCIOLI – Vorrei citare Guy Fau, che diceva: << Questo silenzio da parte di tutti gli autori, sia cristiani che profani, riguardo i vangeli, è la migliore prova della data tardiva della loro redazione. Il Concilio vaticano II per quanto abbia riaffermato le date attribuite ai vangeli, nulla ha cambiato alla verità storica, avendole imposte come verità di fede >>.

LUMEN – Certamente non si può “fare la storia” con le verità di fede.
CASCIOLI – In effetti, i vangeli canonici non sono stati scritti da testimoni oculari che vissero in Palestina, né tantomeno da ebrei quali erano gli autori ai quali sono attribuiti, per i troppi errori geografici che contengono e l'assoluta ignoranza delle leggi Bibliche. Edel Smith, per esempio, ha contato in essi ben 250 errori e tutti così gravi da rendere inutile ogni commento sulla loro falsità di costruzione.

LUMEN – Cosa possiamo dire, quindi, della genesi di questi testi ?
CASCIOLI - I Testi Sacri del Cristianesimo non sono che una composizione di episodi riferentisi a fatti e detti esistenti già da prima dell'epoca attribuita a Gesù, una vera e propria ricopiatura dei libri Esseni e del Vecchio Testamento.

LUMEN – Un semplice richiamo alla tradizione, quindi.
CASCIOLI – Si tratta di una ricopiatura così fedele, che Steudel arrivò a lanciare ai teologi cristiani la seguente sfida: << Sarei riconoscente a quel teologo che mi portasse una sentenza o un fatto che si riferisce a Gesù del quale io non possa dimostrare che già esisteva sin da prima che lui nascesse >>.

LUMEN – E che cosa successe poi ?
CASCIOLI – Nulla, ovviamente. Nessuno si fece mai avanti !

LUMEN – Non avevo dubbi.
CASCIOLI – Occorre inoltre osservare che al Cristo-Messia ebraico venne dato il nome di Gesù soltanto nella seconda metà del II° secolo. A quel punto, una volta confermata la natura umana di Cristo-Gesù, ogni comunità passata alla corrente materialista si costruì il proprio vangelo.

LUMEN – In effetti, se contiamo anche gli apocrifi, i vangeli sono moltissimi.
CASCIOLI - In questa anarchia di vangeli, si parlava anche dell'infanzia di Gesù, della vita della Madonna, e di molte altre cose. Ne sorsero alcuni, di matrice ebrea che, in antitesi ai vangeli del cristianesimo, costruirono addirittura un Gesù negativo.

LUMEN – In che senso ?
CASCIOLI - Nel c.d. “Vangelo del Ghetto”, Gesù sarebbe nato dall'unione di un soldato romano con una prostituta ebrea, e sarebbe stato un uomo geniale, ma cattivo e perfido, tale da rapportarlo a Satana.

LUMEN – Questa non la sapevo.
CASCIOLI - Si andò così avanti per decenni, in un continuo di diatribe e di confusioni, le quali, via via che i concetti si sistemavano, sorgevano in seno agli stessi padri della Chiesa.

LUMEN – Il tipico caos da “stato nascente”.
CASCIOLI – Un caos che regnò in tutto il mediterraneo, finché l’imperatore Costantino non riunì tutte le Ecclesie sotto una sola ideologia. Fu soltanto dopo il concilio di Nicea (325) che fu stabilito quali dovevano essere i testi sacri ritenuti canonici e quali dichiarati falsi e non attendibili (apocrifi e pseudo).

LUMEN – Una scelta che fu anche politica.
CASCIOLI – Certamente. Per dimostrare quanta confusione ci fosse ancora nei concetti religiosi della nuova religione, è sufficiente dire che l'Apocalisse, considerata inizialmente apocrifa, fu annoverata tra i canonici, dopo accese discussioni, soltanto nel VI° secolo.

LUMEN – Ma allora, vi chiedo, come ha potuto imporsi sulle altre una religione, come il Cristianesimo, così basata sulle più assurde incoerenze ed i più evidenti anacronismi ?
CASCIOLI - La risposta ci viene fornita dalle violenze che la Chiesa essa cominciò a praticare contro gli oppositori dopo che Teodosio nel 380 la dichiarerà religione di Stato affidandole l'amministrazione morale dell'Impero. In un continuo di persecuzioni, di ricatti, di anatemi e scomuniche si fecero stragi di tutti gli oppositori, i cui milioni di cadaveri furono ammucchiati e nascosti nei secoli che seguirono dietro quella croce, che oggi si pretende farla passare per il simbolo di civiltà e di cultura occidentale.

LUMEN – Grazie signor Cascioli. In effetti, dietro al successo secolare del Cristianesimo si può scorgere con facilità, chiara ed imponente, l’eredità storica dell’Impero Romano.

sabato 7 settembre 2013

Genius loci

Nessuno può negare che, nella storia della civiltà, alcuni popoli abbiano avuto più successo di altri.
La risposta dei razzisti è ovvia, ma è sbagliata, perché la razza umana è unica, e le differenze tra le popolazioni si limitano ad alcuni aspetti esteriori, privi di  significato.
Ed allora da dove viene questa differenza ? L’antropologo americano Jared Diamond, sostiene che la differenza l’ha fatta la geografia.
In altri termini, i popoli che, per puro caso, si sono trovati a vivere in certe zone della terra hanno avuto (grazie alle condizioni geografiche e climatiche) uno sviluppo più rapido ed efficace, arrivando a soverchiare (e spesso a trucidare) le popolazioni che si trovavano nelle zone più sfortunate.
Quello che segue è un breve estratto di uno dei suoi libri.
LUMEN


<< Fondamentalmente le società umane hanno subito trasformazioni profonde solo in tempi recenti e in modo rapido.
Ho amici cresciuti in piccoli paesi europei negli anni 1950 che descrivono la propria infanzia come quella nei villaggi tradizionali della Nuova Guinea: dove tutti conoscevano tutti, sapevano che cosa facevano gli altri e dicevano la loro in merito; dove ci si sposava solo con persone nate nel raggio di un paio di chilometri dal proprio paese di origine e lì si restava tutta la vita, o nelle immediate vicinanze, tranne i giovani che partivano per il militare.

E dove i dissapori dovevano necessariamente trovare forme di composizione che ricucissero i rapporti, o che li rendessero almeno tollerabili, perché si era comunque destinati a trascorrere tutta la vita gli uni accanto agli altri.
In altre parole il mondo di ieri non è stato cancellato e sostituito in toto dal mondo di oggi, e molto di esso è ancora tra noi. Comprenderlo può essere utile per trovare   soluzioni ad alcuni problemi nel mondo sovrappopolato e globalizzato.

Il grosso della nostra conoscenza della psicologia umana si basa sull’osservazione di individui che possono essere descritti per mezzo dell’acronimo WEIRD: provenienti cioè da società occidentali (western), istruite (educated), industrializzate (industrialized), ricche (rich) e democratiche (democratic).

Se vogliamo generalizzare sulla natura umana, dobbiamo allargare il nostro campione di studio dai soliti soggetti WEIRD (…) all’intero range delle società tradizionali.
Scopriremo così alcune soluzioni – il modo cioè in cui le società tradizionali allevano i figli, trattano gli anziani, preservano la salute, comunicano, trascorrono il tempo libero e risolvono le dispute – che possono sorprenderci per la loro superiorità rispetto alle normali pratiche del Primo Mondo, e che adottandone alcune potremmo persino guadagnarci.

Per certi aspetti noi moderni siamo dei disadattati, e il nostro corpo e le nostre abitudini si trovano oggi ad affrontare condizioni diverse da quelle in cui si sono evoluti  e a cui, appunto, si sono adattati. Molti problemi psicologici, molte depressioni, molti stress e malattie conseguenti potrebbero essere spiegati da questi meccanismi.
Il concetto di “Stato” come lo intendiamo oggi è nato solo in tempi antropologicamente molto recenti.

I grandi numeri rendono impossibile la conoscenza reciproca fra tutti i componenti: persino per gli abitanti della minuscola monarchia di Tuvalu è impossibile conoscere la totalità degli altri 10.000 concittadini, figurarsi per il miliardo e quattrocento milioni di cinesi.
Gli stati hanno dunque bisogno della politica, di leggi e di codici di moralità  per garantire che i costanti e inevitabili incontri fra estranei non si trasformino in scontri, bisogno che non si pone affatto nelle minuscole società in cui tutti conoscono tutti.

Le grandi popolazioni non possono funzionare senza leader che stabiliscono, dirigenti che rendono operative e burocrati che amministrano decisioni e leggi.
Per molte migliaia di anni le società umane si sono organizzate in bande (poche decine di individui per lo più cacciatori-raccoglitori), poi si sono organizzate in tribù (qualche centinaio di individui) caratterizzate da una società già dedita all’agricoltura e più stanziale.

Solo in seguito sono nate le “chefferies”  [che potremmo tradurre in italiano come “gerarchie” - ndr], composte da migliaia di soggetti e da complessità organizzativa.
Nelle chefferies (società che rispondono ad un capo) si ha anche un’innovazione di tipo economico che prende il nome di economia redistributiva: al posto del baratto fra i singoli, il capo riscuote tributi sotto forma di cibo e lavoro e buona parte di questi viene redistribuita ai guerrieri, sacerdoti e artigiani al suo servizio.

La ridistribuzione costituisce dunque un sistema di tassazione in nuce finalizzato al sostegno di nuovi istituti. Parte del tributo in cibo è restituito ai cittadini comuni, che il capo ha il dovere morale di mantenere in tempi di carestia e che in cambio lavorano per lui in attività come la costruzione di monumenti e di sistemi di irrigazione.

Oltre a queste innovazioni politiche ed economiche, che superano le pratiche di bande e tribù, le chefferies sono state le prime a introdurre l’innovazione sociale della disuguaglianza istituzionalizzata.

Le chefferies del passato possono essere riconosciute dagli archeologi grazie a un’ediliza monumentale e a indicatori quali una distribuzione ineguale di reperti funebri nei sepolcri.
Tali società cominciarono a formarsi intorno al 5500 a.C. ma ancora in epoca moderna erano ampiamente diffuse in Polinesia, in gran parte dell’Africa sub-sahariana, in America.

Al trend ininterrotto di aumento demografico, centralizzazione politica e produzione alimentare intensificata che dalle bande porta agli stati se ne aggiungono altri, come quelli che segnano l’aumento della dipendenza dagli utensili metallici, dalla sofisticazione tecnologica, dalla specializzazione economica, dalla disuguaglianza tra individui e dalla scrittura, oltre ai cambiamenti in campo bellico e religioso.

Questi trend, e in particolare l’aumento demografico, la centralizzazione politica, il progresso tecnologico e gli armamenti degli stati rispetto all’organizzazione delle più semplici società tradizionali, sono ciò che ha permesso ai primi di conquistare le seconde e di sottometterne, ridurne in schiavitù, incorporare e sterminarne gli abitanti all’interno dei relativi territori.

Un tempo si credeva, e ancora oggi molti ne sono convinti, che risultati così diversi da regione a regione riflettessero differenze innate a livello di intelligenza umana, di modernità biologica e di etica del lavoro.

Le differenze che caratterizzano le società del mondo moderno si spiegano semmai sulla base di differenze di tipo ambientale. L’aumento della centralizzazione politica e della stratificazione sociale è dipeso da aumenti della densità demografica, a loro volta innescati dall’aumento e dall’intensificazione della produzione alimentare (agricoltura e pastorizia).
Sorprendentemente però pochissime specie vegetali e animali selvatiche sono adatte alla domesticazione e possono trasformarsi in raccolti e bestiame da allevamento.

E queste erano concentrate solo in una decine di aree limitate del pianeta, le cui società umane beneficiarono così di un vantaggio iniziale in termini di sviluppo della produzione e delle eccedenze alimentari, di espansione demografica, progresso tecnologico e organizzazione in stati.

Come ho avuto modo di esporre dettagliatamente in “Armi, acciaio e malattie”, queste differenze spiegano come mai gli europei, che vivevano nei pressi della regione del mondo più ricca di specie vegetali e animali selvatiche domesticabili  (la Mezzaluna Fertile), hanno finito per espandersi in tutto il globo, mentre i kung  e gli aborigeni australiani no.

Ciò significa che le popolazioni che ancora vivono, o fino a poco tempo fa vivevano in società tradizionali sono popolazioni biologicamente moderne a cui è semplicemente capitato di occupare zone del mondo con poche specie domesticabili disponibili, ma i cui stili di vita restano tuttavia importanti.  (…)

Dopo lunghi mesi trascorsi in Nuova Guinea, ritorno (…) a Los Angeles e qui mi accorgo che, nonostante le ovvie differenze fra la giungla americana e quella guineana, molto del mondo fino a ieri continua a vivere ancora nel nostro corpo e nelle nostre società.
Anche nella regione dove sono comparsi per primi, i grandi cambiamenti socio-antropologici hanno avuto inizio solo 11000 anni fa, e appena qualche decennio fa nelle aree più popolose della Nuova Guinea, mentre nelle pochissime tuttora incontaminate di Nuova Guinea e Amazzonia sono praticamente agli albori.

Per chi è nato e cresciuto nelle nostre società, tuttavia, le condizioni di vita moderne sono talmente pervasive e talmente date per scontate, che nelle nostre brevi visite ci riesce difficile cogliere le differenze davvero fondamentali rispetto alle società tradizionali.
Le società tradizionali rappresentano migliaia di esperimenti millenari nel campo dell’organizzazione umana, esperimenti che non possiamo ripetere riprogettando di sana pianta intere società, per poi osservarne i risultati dopo decenni; se vogliamo imparare qualcosa, dobbiamo farlo là dove gli esperimenti sono già stati compiuti.

Quando scopriamo che cosa significa vivere in modo tradizionale scopriamo anche aspetti di cui siamo felici di esserci liberati (ad esempio la soppressione ritualizzata delle vedove); di fronte ad altri aspetti proviamo invece un senso di invidia e di perdita tout court, o magari ci chiediamo se non sarebbe il caso di riadattarli e riadottarli anche noi in maniera selettiva (ad esempio una alimentazione più sobria, unità civiche più ristrette dove sia possibile conoscersi a vicenda, ecc.).

Di sicuro invidiamo per esempio l’assenza di malattie degenerative legate allo stile di vita occidentale, mentre possiamo desiderare di reintegrare alcuni aspetti dei metodi di risoluzione pacifica dei conflitti, di educazione dei figli, di trattamento degli anziani, di vigilanza nei confronti dei pericoli e del multi-linguismo.  

Molte forme di organizzazione della loro vita hanno un certo fascino, ma al di là di esso ciascuno sarà libero di provare a capire se qualcosa di ciò che così bene funziona per loro non potrebbe forse funzionare altrettanto bene per noi stessi come società. >>

JARED DIAMOND