venerdì 27 settembre 2019

Contro l’Europa

Il post di oggi è dedicato alle vibranti e combattive riflessioni di Gaia Baracetti (tratte dal suo blog) contro l’evoluzione politica dell’Unione Europea, che è diventata una sorta di “turris eburnea” sempre più scollegata dai cittadini..
Purtroppo, la struttura europea è ormai giunta ad un tale punto di non ritorno, che qualsiasi considerazione in senso contrario, anche se fondata, finisce per non lasciare traccia. Ma questo non ci deve impedire di manifestarla.
LUMEN


<< Nei dibattiti sul futuro dell’Europa (…) prevale un’insidiosa confusione tra forma e contenuto. L’Europa dei diritti, l’Europa liberista, più Europa per controllare le banche, più Europa per frenare le derive autoritarie, l’Europa per la pace, l’Europa per avere un peso nel mondo, l’Europa cristiana, l’Europa per la disciplina fiscale… tutti tirano l’Unione Europea dalla loro parte, chiedendo che cambi, quasi sempre, ma non mettendo in discussione la sua stessa esistenza.

Se la criticano, di solito è per i comportamenti che tiene, non per le premesse fondamentali su cui si basa. Qualche eretico propone di uscire dall’euro; molti meno [di farlo] dall’Europa politica. Anzi: ci vuole “più Europa”, perché l’Europa saprà fare le cose giuste; sempre più Europa, mai meno. L’Europa è un’entità in principio positiva, o al massimo che va corretta. A me sembra che gli europeisti, cioè al momento la maggioranza, appoggino l’esistenza dell’Unione Europea non perché pensano che sia un metodo migliore di governo, ma perché, implicitamente, si aspettano che sappia imporre su scala più ampia di quella statale le politiche di loro preferenza.

Infatti, gli europeisti appartengono a tutti gli schieramenti, salvo forse all’estrema destra nazionalista. Perché ognuno crede che l’Europa sia o possa essere la realizzazione del proprio sogno. Io invece contesto l’idea di unione europea indipendentemente dai suoi contenuti, che faccia gli interessi dei lavoratori o delle banche, che cacci i governi che non mi piacciono o che imponga standard assurdi su come dobbiamo fare da mangiare, indipendentemente persino dal predominio di Germania e Francia – io sono contro il governo europeo a priori.

Sono favorevole alla cooperazione europea su certe questioni, ad hoc, agli scambi culturali e alla conoscenza e all’esempio reciproco, a un’identità comune compatibilmente con le nostre altre identità, e sono anche favorevole a tavoli non solo interstatali ma anche interregionali di coordinazione e collaborazione – per fare un esempio tra i moltissimi possibili, tra Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Carinzia. Quello che invece non voglio sono istituzioni europee permanenti che prendono decisioni vincolanti per gli altri governi e per i cittadini dei paesi appartenenti all’Unione. Non lo vorrei nemmeno se prendessero le stesse identiche decisioni che io auspico – così come non vorrei essere governata da un sovrano illuminato, nemmeno se quel sovrano fossi io.

Il motivo è che l’Unione Europea è troppo grande, e l’Unione Europea è complicata. Questo significa che qualunque cosa faccia, la stragrande maggioranza dei cittadini non avrà il tempo o la preparazione per capirlo, se non a grandissime linee e superficialmente. Io mi considero una persona con molto tempo per queste cose e con il tipo di istruzione giusta, e non particolarmente ottusa, eppure mi sfugge la gran parte di quello che succede – e non mi basta farmelo spiegare in breve dall’editorialista del quotidiano che leggo in un tal momento o dal TG che mi capita di guardare. Un giorno ho modo di approfondire, ma il giorno dopo devo pensare ad altro e mi sfuggono passaggi importantissimi. C’è troppa roba.

Uno potrebbe obiettare che l’operato dei governi si valuta in base alle conseguenze: non serve conoscere tutti i passaggi, basta vedere l’esito. Non è vero. Si può governare bene, per avere risultati tra anni, e quindi deludere l’elettorato nel frattempo. Si può governare male, e la gente non se ne accorge finché non è troppo tardi o c’è un altro governo che si trova con un casino di cui non è responsabile. Si possono prendere decisioni disastrose, gestire male la cosa pubblica, e nasconderlo alla cittadinanza che non può orientarsi su scale ampie e in meccanismi complessi, e quindi magari incantarla dando la colpa a chi non è colpevole o facendo finta che tutto vada bene.

Inoltre, anche se i cittadini capiscono di venire fregati, cambiare un governo su scala così grande, o convincere l’amministrazione in carica a cambiare operato, è difficilissimo. Se non mi piace la pista ciclabile della mia città, raccolgo le firme e le porto al sindaco e all’assessore. Ma se non voglio la TAV, sono contraria a un certo tipo di politica di sostegno all’agricoltura (pensate a quella cosa che è la PAC), andare a Bruxelles è complicato e non posso che esprimermi votando. Però devo scegliere tra candidati che, data la complessità della materia, possono avere tutta una serie di posizioni su molte questioni (…), alcune delle quali mi vanno bene, altre no, e come fargli capire cosa mi va bene cosa no?

Anche a livello locale, un politico o un partito può non andarmi bene del tutto, certo, ma almeno lì posso dirglielo personalmente, con altri cittadini, posso partecipare. Farglielo capire via elezioni europee è molto più difficile. Inoltre devo sperare che il mio candidato vinca, che vincano altri come lui in altri paesi, che si batta su tutti i fronti che ha promesso, e che riesca ad ottenere qualcosa a fronte di un groviglio di interessi contrastanti, tutto questo mentre i miei personali contatti con lui sono limitati, perché rappresenta tantissime persone e non può ascoltarle tutte individualmente su ogni cosa. È come cercare di spostare una nave con un bastoncino.

Per questo motivo io ritengo il governo su scala ridotta preferibile: perché è più democratico, più trasparente, più conoscibile. Non nego che grandi scale abbiano vantaggi: maggiore potenza, maggiore peso internazionale, per esempio. Forse, ma solo forse, maggiore efficienza o efficacia, ma ho i miei dubbi: meglio far partire la raccolta differenziata su scala comunale, che aspettare che l’Europa ci dica come. E comunque, per la democrazia e per la libertà di decidere sono disposta a sacrificare i vantaggi di una grande dimensione.

Guardate ai prodigi degli imperi nella storia. Hanno fatto cose straordinarie. Infrastrutture, legislazioni che hanno fatto scuola, influenze culturali che permangono ancora, opere d’arte passate alla storia, intuizioni lungimiranti. Ma io non voglio stare sotto un impero.

Siate sinceri: chi di voi sa qual è il budget dell’Unione Europea? Come spende i soldi? Quali sono le sue istituzioni principali e cosa fanno? Chi di voi ha contatti regolari con i nostri rappresentanti in Europa, a vario titolo, o ha mai visto un burocrate? Chi di voi ha la sensazione di potere qualcosa su quello che fanno? Ora rispondete alle stesse domande, ma per il comune o la regione. Credo vada già meglio. (…)

Inoltre: già l’Italia è diversa tra nord, centro e sud, e difficile da tenere insieme. Ma l’Europa ancora di più. Certo, ci sono molte cose in comune tra i popoli europei, tanto più ora in un mondo appiattito e globalizzato. La storia e la geografia ci legano, e questo non lo nego, anzi lo sento con orgoglio. Ma ancora non siamo tutti uguali e le differenze culturali, geografiche, climatiche, etniche, linguistiche, di valori, si traducono anche in diverse esigenze da governare diversamente, con strumenti diversi e con scelte diverse. Non sono folklore da proteggere perché si estingue o da valorizzare perché è pittoresco. Sono realtà fondamentali.

Non sto dicendo che gruppi umani diversi non possano governare assieme e coesistere in un’unità politica. Ma hanno bisogno di autonomia al suo interno, e comunque oltre un certo limite, non stabilibile facilmente ma non per questo inesistente, la diversità diventa ingestibile. Ognuno dialoghi con gli altri, ma governi se stesso. Pensiamo alla nostra vita di tutti i giorni. Per non parlare di realtà importanti ma molto piccole come un quartiere, un’associazione o un’università, diciamo che prima incontriamo il comune, poi la provincia (che non serve a molto), poi la regione, poi lo stato, e sono già tanti livelli. Salire ancora mi pare vertiginoso e inutile. Alle volte si può fare: ma non sempre e non per tutto.

Concludo dicendo che il progetto di pace e cooperazione che sta alla base dell’idea europea è sicuramente bello e potente. Lo condivido. Ma non credo che l’unione politica sia in alcun modo, soprattutto adesso, garanzia di pace. Dove ne sono le prove? Si può dire che si è fatta l’Europa perché c’era volontà di pace, ma anche che questa volontà di pace sarebbe potuta bastare per proteggere il continente da ulteriori guerre, o che sarebbe l’unico requisito necessario per scongiurarle in futuro, al di là di istituzioni che possono anche crollare più velocemente di un’idea.

Pensiamo alla Svizzera, che sta per conto suo, ma è troppo furba per fare le guerre, oppure alla ex Jugoslavia. Ad un certo punto non ha retto più e si è dissolta violentemente. E ora che la guerra è finita da anni i paesi, risollevandosi pian piano, cominciano a cercarsi di nuovo, a cooperare, a fare affari, a confrontarsi. Questo è dovuto alla geografia, alla lingua comune, alle esigenze economiche, al ricambio generazionale. Non all’unità politica. Quella è stata fatta a pezzi quando non andava più bene.

Se la crisi europea continua, non si può escludere che si aggravi e diventi più aspra, fino alla violenza. È da desiderare che non accada e da impegnarsi per questo, ma saranno la volontà e l’impegno, la generosità e la capacità di trattare, non l’esistenza di istituzioni rigide in cui farlo, che ci salveranno da altre guerre. >>

GAIA BARACETTI

venerdì 20 settembre 2019

Punti di vista – 11

PARTITI E MOVIMENTI
Quello che distingue i “movimenti” dai “partiti” non è questa o quella architettura organizzativa, ma il ruolo che svolgono gli uni e gli altri.
I movimenti hanno sempre carattere parziale, o perché rappresentano un particolare soggetto sociale (studenti, operai, donne, minoranze nazionali, ecc.) o perché si formano su una determinata tematica (i diritti civili, il divorzio, la lotta alla mafia, eccetera) e, per definizione, non hanno un progetto politico complessivo e non cercano di arrivare al governo.
Al contrario, i partiti ambiscono a governare il paese, e per questo chiedono al popolo un mandato pieno e generale.
La presentazione alle elezioni politiche è già un passo in questa direzione.
Ci sono casi particolari di partiti-movimento come alcune minoranze nazionali (Sudtiroler Volkspartei, Union Valdotaine, Partito Sardo d’Azione ecc.) o punti di passaggio fra partito e movimento di opinione (ad esempio i Radicali, i Verdi), ma si tratta di casi particolari, in genere di piccole forze politiche, che, nella maggior parte dei casi, o diventano rapidamente partiti veri e propri, o si dissolvono.
ALDO GIANNULI


VEGANI
La mia obiezione principale ai vegani è quindi questa: non si può pensare che l’uccisione di un animale sia una cosa sbagliata.
Non lo si può pensare perché è la legge fondamentale della vita su questo pianeta: ‘mors tua vita mea’.
È vero che gli esseri umani, non tutti purtroppo, considerano la vita umana sacra e da proteggere fino alla sua morte naturale, preferibilmente di vecchiaia, ma questo è diverso dal considerare tutte le vite animali in questo modo.
Il mondo degli animali è complesso e segue leggi diverse da specie a specie, ma io ritengo compatibile con questo mondo accettare che una specie tuteli sé stessa.
GAIA BARACETTI


COMUNITA’
Negli ultimi decenni sono stati in molti a prefigurare una democrazia post-nazionale, una cittadinanza cosmopolita, nella convinzione che ogni riferimento alla nazione fosse diventato obsoleto nel quadro della globalizzazione.
In realtà la crisi economica mondiale iniziata nel 2007/08 ha mutato sensibilmente le cose, favorendo la diffusione — nei ceti medio-bassi più che nelle élites — di paure, ansie, richieste di protezione rivolte anzitutto al proprio Stato-comunità, alla propria nazione intesa in modo elementare come il «noi» del quale facciamo parte per dati linguistici, culturali, geografici, perfino per abitudini alimentari. (…)
La nazione dunque svolge una funzione ancora importante su due fronti.
Da una parte alimenta un senso di solidarietà e vicinanza in società che hanno assicurato un gran numero di diritti e libertà individuali, generando però un rischio di solitudine per cospicue minoranze.
Dall’altra, rende più facilmente abitabile il mondo, radunando i cittadini secondo criteri di prossimità e comunanza, piuttosto che farli vivere in un ipotetico spazio globale, in una specie di immenso ‘loft’ planetario.
GIOVANNI BELARDELLI


INTELLIGENZA
Generalmente si pensa all’intelligenza come ad una dote, un vantaggio, una ricchezza.
Se questo era vero in tempi passati lo è probabilmente molto meno ai giorni nostri. (…) L’intelligenza, come ogni cosa, rappresenta un vantaggio quando è richiesta ed uno svantaggio quando non lo è. (…)
La condizione perenne dell’individuo intelligente è il caos. Da un lato una fame di nuovo, una curiosità inesauribile (molto spesso frustrata), dall’altro un continuo vortice di idee, concetti, significati, interpretazioni, potenzialità, che rende difficile mantenere la concentrazione. (…)
Fin dai tempi dell’illuminismo si è voluto far coincidere l’intelligenza con la razionalità, la capacità di estrarre ordine dal caos, di organizzare un’idea coerente del mondo in grado di spiegare ogni cosa, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.
Ma la razionalità non è che una delle possibili forme che l’intelligenza assume dietro la propria pressione.
MARCO PIERFRANCESCHI


STATO GENEROSO
Il nostro Paese, nei lunghi anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a una decina d’anni fa, è vissuto con un double standard.
La classe colta, se pure senza rinunziare a nessuno dei suoi privilegi, si è ammantata dei massimi ideali della sinistra, mentre la classe inferiore ha mirato al sodo ed ha creduto di potere sfruttare uno Stato che si dichiarava in dovere di essere generoso.
Per questo chiedeva sempre più vantaggi.
Col risultato che, finché c’è stato grasso da eliminare, la democrazia si è retta senza grandi scossoni, malgrado il contrasto fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista.
La prima che faceva finta di essere cristiana e il secondo che faceva finta di essere comunista.
Ma quando infine il debito pubblico è divenuto tale che bastava una mossa sbagliata in più e sarebbe stata la catastrofe, quando non si è potuto spendere più di quanto lo Stato incassava (ché anzi lo Stato era costretto a spendere meno di quanto incassava, perché una buona parte delle sue risorse se ne andava per pagare gli interessi sull’enorme debito pubblico accumulato) è cominciata la vera scontentezza popolare.
GIANNI PARDO

venerdì 13 settembre 2019

La parabola del Sapiens – 4

Si concludono qui le considerazioni di Marco Pierfranceschi sul travolgente successo della nostra specie e le sue terribili conseguenze per l’eco-sistema (quarta ed ultima parte). LUMEN


<< A peggiorare il bilancio dell’assalto plurimillenario condotto dalla nostra specie nei confronti delle risorse globali, l’inquinamento ha aggiunto ulteriore fattore di stress agli ecosistemi naturali. Col termine inquinamento si intende l’introduzione di materiali ‘alieni’ alle dinamiche biologiche, ed in grado di interferire coi processi di riuso della materia organica. Tutto quello che la specie umana estrae dal suolo, raffina, trasforma, utilizza ed infine scarta rappresenta una forma di inquinamento.

Inizierò quindi col descrivere una modalità di inquinamento che non viene ancora individuata come tale: l’edilizia. I primi rifugi inventati dalla nostra specie furono, con molta probabilità, capanne di legno e foglie, composte interamente da materiali organici, decomponibili e biologicamente riciclabili. Col tempo ed il padroneggiare tecniche di manipolazione più evolute, la costruzione di edifici in pietra rappresentò un primo esempio di intervento umano operato in totale difformità dai processi biologici.

I materiali inerti necessari all’edilizia vengono estratti dalle cave di pietra e collocati dove poi sorgono paesi e città, luoghi di norma caratterizzati da abbondante disponibilità di suolo fertile. La costruzione di edifici e la successiva espansione delle città ha l’effetto di ridurre la disponibilità di suolo fertile. Con la crescita delle città e la nascita di regni ed imperi, l’occupazione di suolo prodotta dalle città aumenta progressivamente, mentre la produzione alimentare si trasferisce sempre più verso le periferie, processo che innesca la creazione di strade ed il consumo di ulteriore suolo fertile.

Il gigantismo delle attuali metropoli, e le trasformazioni avvenute nella produzione e nei trasporti grazie alla Rivoluzione Industriale, hanno di fatto totalmente scollegato le aree urbane dalla necessità di un’autonomia alimentare di ‘prossimità’, creando condizioni di estrema criticità. Qualunque riduzione nell’efficienza della produzione agricola, o di quella della rete di trasporti, si tradurrebbe in un’incapacità delle popolazioni inurbate di far fronte al proprio stesso sostentamento.

In epoche passate, un limite alla crescita delle dimensioni urbane è consistito nella disponibilità di cibo in relativa prossimità. Con la Rivoluzione Industriale questo limite è stato rimosso, consentendo alle città di espandersi seppellendo le aree agricole di prossimità. Questo processo non è più reversibile nel breve periodo, perché i terreni scavati e cementificati non recuperano la propria fertilità a fronte del semplice abbattimento degli edifici.

I materiali edili presentano quantomeno il vantaggio di essere inerti rispetto ai processi organici. Lo stesso non si può dire di gran parte delle sostanze che sono diventate parte della nostra vita di tutti i giorni. Dalla rivoluzione industriale in poi la chimica ha infatti provveduto a sviluppare una varietà pressoché infinita di sostanze tossiche e nocive, in grado di interferire a vari livelli coi processi biologici.

Queste sostanze sono successivamente entrate a far parte dei manufatti, o divenute parte integrante dei relativi processi produttivi, e molto poco si è fatto per gestirne uno smaltimento sicuro al termine del ciclo d’utilizzo. Parliamo di un ventaglio di sostanze che va dai veleni veri e propri agli acidi, a materiali variamente irritanti, tossici o cancerogeni. Tutta roba che per decenni è stata rilasciata nei fiumi, seppellita, conferita nelle discariche o bruciata e dispersa nell’atmosfera.

Anche materiali biologicamente inerti come la plastica presentano un risvolto negativo, perché la loro diffusione e successivo degrado sta creando problemi agli animali che tentano di nutrirsene, causandone spesso la morte. Soprattutto negli oceani la quantità di frammenti di plastica trasportata da fiumi e correnti sta rappresentando un problema significativo per la fauna marina. Questo senza contare che il processo di frammentazione, al momento ancora parziale (si parla infatti di ‘microplastiche’), procederà gradualmente fino al livello molecolare, saturando l’ambiente di quantità enormi di catene di polimeri di origine non biologica, con effetti, allo stato attuale, totalmente non quantificabili.

Un’altra parte rilevante di inquinamento deriva dall’impiego di diserbanti ed antiparassitari nell’agricoltura, che cresce di anno in anno. Si tratta di composti chimici dichiaratamente ostili ai processi biologici (la loro funzione è uccidere le varietà vegetali che competono con le specie coltivate e gli insetti che di queste ultime si nutrono), che finiscono con l’accumularsi nella catena alimentare portando morte anche alle specie (rettili, uccelli e mammiferi) che di tali insetti si nutrono.

Oltre agli antiparassitari l’agricoltura fa anche un largo uso di fertilizzanti azotati, che hanno un effetto positivo a breve termine sulle colture, ma nel lungo termine alterano gli equilibri chimici dei suoli rendendoli meno ospitali per le popolazioni di insetti ed altre forme di vita che li abitano. Quel che è peggio: ancora non è chiaro quali siano gli effetti cumulativi relativi al dilavamento di tutte queste sostanze venefiche, al loro assorbimento nei suoli ed alla loro diffusione nei fiumi e nei mari.

Un forte segnale di allarme giunge proprio riguardo alle quantità e varietà di insetti rilevate in prossimità delle aree agricole europee, che hanno subito un collasso repentino negli ultimi anni in diversi paesi. Per la loro importanza nella produzione del miele l’attenzione è attualmente capitalizzata dalle api, specie di cui si sono registrati diversi casi di collasso di interi alveari, fino alla totale scomparsa in diversi paesi, al punto che in alcune zone della Cina gli agricoltori devono impollinare gli alberi da frutta a mano.

Un caso a sé è rappresentato dai sottoprodotti dell’industria nucleare civile e militare. L’evoluzione delle tecnologie atomiche ha generato, mediante un processo detto ‘arricchimento’, tonnellate di materiali radioattivi in forme estremamente concentrate. Materiali che, essendo instabili, non sono mai venuti a contatto con le forme viventi. infatti, pur essendo presenti nella fase di formazione del sistema solare, essi erano già scomparsi, dalla crosta terrestre, ben prima che i processi vitali avessero inizio.

Parliamo di sostanze in grado di rendere pericolose ed inabitabili ampie porzioni di pianeta, come abbiamo visto in occasione degli incidenti di Chernobyl in Ucraina e Fukushima in Giappone. Su scala più ridotta il riutilizzo di uranio impoverito nella fabbricazione di proiettili ha già causato decine di casi di leucemia, anche mortali, fra gli stessi militari utilizzatori di tali munizioni. Molto poco è poi dato sapere sulle condizioni delle migliaia e migliaia di testate nucleari tattiche, il cui semplice potenziale esplosivo, già ai tempi della Guerra Fredda, era dato come in grado di annientare completamente l’intera umanità più volte.

L’ultima e più subdola forma di inquinamento riguarda i gas rilasciati in atmosfera a seguito dell’utilizzo massivo di combustibili fossili per i trasporti, le macchine utensili e la produzione di energia elettrica. Questi gas stanno lentamente ma inesorabilmente alterando l’equilibrio millenario tra il riscaldamento prodotto dalla radiazione solare di giorno, ed il raffreddamento causato dall’irraggiamento notturno, con l’effetto di surriscaldare l’atmosfera ad un ritmo mai visto prima (essendo, per l’appunto, un fenomeno artificiale) ed innescando ulteriori eventi caratterizzati da feedback positivo, ovvero in grado di accelerare il riscaldamento: scioglimento delle calotte polari, con ulteriore riduzione dell’albedo, e rilascio di gas metano dal permafrost artico.

Stiamo già misurando, in questi anni, una variazione delle temperature globali talmente repentina da non lasciare, a molte specie viventi, il tempo di adattarsi, e causando, assieme a fattori concomitanti, un collasso a catena di interi ecosistemi, dalle barriere coralline del pacifico alle popolazioni di orsi bianchi non più in grado di cacciare le foche artiche per la scomparsa dei ghiacci.

Riassumendo: caccia alle specie animali edibili, allevamento e sostituzione della naturale biodiversità con specie ‘simbionti’ (quelle di cui ci nutriamo), distruzione delle foreste per far spazio a coltivazioni, distruzione della residua biodiversità con fertilizzanti, erbicidi ed antiparassitari, consumo di suolo fertile causato dall’edilizia, dalla costruzione di strade ed infrastrutture, oltreché dall’erosione chimica e meccanica prodotta dai macchinari agricoli, rilascio di sostanze velenose e tossiche nell’ambiente, inquinamento da materie plastiche, riscaldamento globale del clima.

Come ultimo risultato, conseguenza di tutto questo gran daffare, la popolazione umana è cresciuta esponenzialmente fin quasi a raggiungere gli otto miliardi di individui, con una impennata negli ultimi decenni che ha prodotto una progressiva invasione antropica dei residui habitat intatti: le foreste vergini dell’Amazzonia e della Polinesia. Un surplus di popolazione umana la cui sussistenza può essere garantita solo attraverso l’inasprimento delle forme di saccheggio ambientale descritte fin qui. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 6 settembre 2019

La parabola del Sapiens – 3

Le considerazioni di Marco Pierfranceschi sul travolgente successo della nostra specie e le sue terribili conseguenze per l’eco-sistema (terza parte). LUMEN


<< Abbiamo visto come la specie umana sia riuscita, nel corso dei millenni, a ricavare nuove ed abbondanti forme di nutrimento aggredendo interi habitat vergini mediante l’allevamento e l’agricoltura. Molto di questo successo si è realizzato grazie all’invenzione di macchine semplici.

Le ‘macchine semplici’ nascono assieme alla nostra specie, caratterizzata dalla capacità di manipolare, per mezzo degli arti superiori, quanto disponibile nell’ambiente al fine di migliorare la caccia e la raccolta. Una macchina semplice è l’ascia a mano, una pietra con un bordo tagliente ricavato per lavorazioni successive, che consentiva di abbattere animali di medie dimensioni. Altra macchina semplice è la lancia, evolutasi successivamente in arco e frecce.

Per la raccolta si usavano con molta probabilità cesti di vimini, che consentivano il trasporto di un maggior numero di cibarie. Dalla tecnica di intrecciare fibre vegetali derivò con molta probabilità la produzione di tessuti. L’agricoltura divenne più produttiva grazie all’invenzione dell’aratro, uno strumento in grado di ‘ammorbidire’ il terreno e facilitare l’attecchimento delle sementi.

L’aratro fu, molto probabilmente, il primo strumento per mezzo del quale l’umanità sperimentò l’utilizzo di forze motrici diverse dalle proprie stesse masse muscolari, aggiogando bovini e cavalli per utilizzarne l’energia metabolica. Altri esempi sono l’uso del vento per la propulsione di imbarcazioni, destinate a diventare un importante strumento per la pesca, il commercio e l’esplorazione di nuovi habitat.

Un ulteriore processo fisico, ben presto asservito ad usi pratici, furono le proprietà esplosive di alcuni composti chimici, esplorate dapprima in Asia con funzioni ricreative (fuochi d’artificio) e trasformate quindi in occidente, grazie ai progressi della metallurgia, in armi da fuoco (fucili e cannoni). Queste nuove armi svolsero un ruolo chiave nell’invasione e colonizzazione manu militari di due nuove masse continentali, le Americhe.

I due sub continenti americani erano già stati colonizzati dall’homo sapiens ventimila anni prima, nel corso dell’era glaciale, da popolazioni spintesi a piedi nei territori dell’attuale stretto di Bering. Le popolazioni ivi insediate avevano trovato un habitat intatto ed una macro-fauna totalmente impreparata all’arrivo di un nuovo predatore. Quest’ultima fu sistematicamente cacciata fino all’estinzione, con rare eccezioni. Al termine della glaciazione, le Americhe rimasero isolate dalle altre masse continentali a causa della risalita del livello dei mari.

Le popolazioni insediate nel nuovo continente rimasero perciò tagliate fuori dall’evoluzione tecnologica che stava avvenendo in Eurasia, col risultato che, all’epoca della loro ‘riscoperta’ da parte degli europei, civiltà ancora all’età della pietra dovettero scontrarsi e soccombere al cospetto di invasori muniti di sciabole d’acciaio, fucili, cannoni e cavalli.

A metà del diciottesimo secolo la nostra specie si era già diffusa sulla totalità delle terre emerse (ad esclusione, per ovvi motivi, dell’Antartide), praticando l’agricoltura su buona parte delle pianure irrigate, l’allevamento di bestiame nelle praterie, la pesca nei mari e negli oceani. Quest’ultima attività si estese alla caccia ai cetacei per ricavarne l’olio da utilizzare nell’illuminazione notturna, cosa che portò diverse specie di mammiferi marini sull’orlo della completa estinzione.

La situazione, vista e considerata col senno di poi, era già sufficientemente preoccupante. Quello che produsse un’ulteriore accelerazione al processo fu l’invenzione della macchina a vapore, un meccanismo complesso che sfruttava la combustione del carbone per trasformare il calore in movimento, ed il movimento in lavoro. Ben presto le macchine a vapore vennero impiegate massivamente per la fabbricazione di tessuti e per i trasporti su terra e mare.

I motori a vapore erano obbligati a grandi pesi e grandi dimensioni, trovando facile applicazione principalmente alla propulsione di treni e navi. Anche così, l’impatto fu enorme, consentendo alle metropoli occidentali, già all’epoca sovrappopolate, di drenare ricchezze e derrate alimentari dai quattro angoli del pianeta. L’idea di utilizzare fonti energetiche fossili per accelerare i processi produttivi segna il passaggio all’era industriale. L’accelerazione impressa ai trasporti favorisce la nascita dei grandi imperi commerciali, che a loro volta alimentano politiche imperialiste e colonialiste.

Ma c’è un ulteriore risvolto nella rivoluzione industriale, e riguarda la necessità di accaparramento di risorse non organiche. Già in epoche preistoriche l’umanità aveva scoperto le proprietà di durezza e malleabilità dei metalli che potevano venir estratti dalla crosta terrestre. L’estrazione e lavorazione dei metalli aveva però costi molto elevati, che ne relegavano l’impiego ad oggetti di lusso, oppure a finalità prevalentemente belliche, restando il grosso dei manufatti di uso comune ancora in legno, pietra, ceramica ed osso.

Nella nuova fase ‘industriale’ della storia umana, grazie anche allo sviluppo della chimica, le risorse inorganiche trovarono applicazioni in innumerevoli campi, arrivando ad avere un peso via via sempre maggiore nella produzione di cibi e manufatti. Questo comportò un’accelerazione nei processi estrattivi, nelle esplorazioni minerarie, nella ricerca scientifica, ed un’escalation della potenza militare non più legata al semplice fattore demografico.

Le macchine a vapore, la scienza e le nuove tecnologie rappresentarono un’importante rottura col passato, dominato dai testi sacri e dalle caste sacerdotali. Esse non solo rivoluzionarono le modalità produttive, ma ebbero un effetto ben più dirompente sul piano culturale, finendo col dar vita a quella che potremmo definire come ’ideologia del Progresso’.

Nell’ideologia del progresso, tutto quello che l’uomo fa all’ambiente è giustificato dal suo essersi dimostrato superiore a Dio, dall’aver imposto la propria volontà al mondo, dall’aver sottomesso la Natura al proprio Ego. L’Uomo regna sull’Universo, ne svela le leggi e le piega ai propri bisogni, accrescendo via via la propria potenza e ricchezza, e ciò non può essere che buono e giusto.

Se pensiamo al dettato biblico che è gravato per millenni sulla testa dei popoli occidentali, quel “lavorerai col sudore della tua fronte” che rappresentava la condanna divina all’uomo nel momento in cui quest’ultimo aveva cercato di rendersi più simile a Dio per mezzo della conoscenza, possiamo ben comprendere quello che la Rivoluzione Industriale rappresentò per le popolazioni dell’epoca. Al di là delle condizioni miserrime degli operai del XIX secolo, la prospettiva di un mondo futuro, nel quale le macchine avrebbero affrancato l’uomo dalla fatica e dall’immobilità in uno stesso luogo di residenza, regalando ricchezza e benessere a tutti, dovette apparire come il tanto atteso riscatto, l’affrancamento finale dal giogo divino.

Sul fronte della ricerca di nuove fonti energetiche, dopo il carbone fossile si trovò il modo di sfruttare i prodotti della raffinazione del petrolio, composti chimicamente molto attivi in grado di alimentare motori a scoppio molto più piccoli di quelli a vapore, quindi applicabili a macchine agricole e veicoli per la mobilità individuale. Nascevano trattori ed automobili, e con essi un intero nuovo modello di mondo.

Nel tempo, col progredire delle conoscenze e delle tecnologie, materiali sempre nuovi iniziarono a trovare un impiego, dai prodotti fissili in grado di alimentare l’industria nucleare militare e civile, a cemento, acciaio, vetro ed alluminio per i nuovi edifici, alle materie plastiche, sintetizzate a partire dagli idrocarburi, ai semiconduttori e metalli rari per le tecnologie informatiche. Tutto questo estrarre, lavorare, consumare ed in ultima istanza abbandonare materiali inorganici su larga scala ha rappresentato un nuovo problema per il pianeta, quello dell’inquinamento.

Una caratteristica dei processi biologici, fin dalla loro comparsa, consiste nell’incessante riciclaggio delle materie prime necessarie alla chimica organica, e nel conseguente sequestro, nel sottosuolo, delle sostanze inutili, tossiche e nocive. Dalla rivoluzione industriale in poi la nostra specie ha alacremente lavorato a scavar fuori tutti questi composti, potenzialmente tossici e nocivi per i processi biologici, finendo col rilasciarne sconsideratamente nell’ambiente quantità via via crescenti. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

(continua)