venerdì 25 gennaio 2019

Punti di vista - 3

COSTI DELLA POLITICA
<< La spesa politica [in Italia] non è riducibile [soltanto] (…) alle indennità e vitalizi di parlamentari e consiglieri regionali, retribuzioni sicuramente molto alte, ma che riguardano poche migliaia di persone, quindi, voce di spesa in complesso non molto alta.
Il problema più serio è stato il massiccio aumento dei gettoni per i consiglieri degli enti locali, retribuendo stabilmente persino i consiglieri di municipi e quartieri.
Poi c’è la voce delle profumatissime retribuzioni dei consiglieri di amministrazione delle 1.760 società collegate o controllate da enti pubblici locali e nazionali.
Qui si tratta di circa 30.000 persone che percepiscono spesso compensi maggiori di quelli dei parlamentari, cui vanno sommati i compensi per le aziende comunali (…) ed i non miseri compensi della pletora di consulenti a vario livello, di cui dicevamo prima.
Infine le retribuzioni di segretarie, portaborse, dipendenti di basso livello a vario titolo collegati all’indotto della spesa politica.
Complessivamente, lo Stato retribuisce in forma diretta o indiretta fra le 300. 000 e le 500.000 persone (si tratta di stime, non di dati precisi) e con retribuzioni in genere più alte della media a corrispondente livello. >>
ALDO GIANNULI


MARXISMO
<< Marx, che molti considerano un filosofo ed un economista, è stato in realtà un profeta.
Non è una battuta, è la tesi di Paul Johnson.
La teoria marxista tendeva all’utopia. Basti dire che il suo programma era: “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i loro bisogni”.
E forse quel pensatore, quando scrisse questo, non aveva considerato che per alcuni l’asserito bisogno è quello di non essere obbligati a lavorare.
Comunque, che di utopia si trattasse, la storia l’ha così ben dimostrarlo, che oggi del comunismo si parla al passato. >>
GIANNI PARDO


IPER-MOBILITA’
<< Uno dei grandi problemi del nostro tempo è l'iper-mobilità: ci muoviamo continuamente, rapidamente, ovunque.
Andiamo in vacanza letteralmente dall'altra parte del mondo (beh, quelli che possono permetterselo), ma anche per andare al lavoro e per il resto delle attività quotidiane ci spostiamo a dozzine, a volte anche a centinaia di chilometri.
I lavoratori sono espulsi dal centro delle città a causa degli alti prezzi degli alloggi, specialmente in quelli che soffrono di questo processo chiamato "gentrificazione".
E sono costretti a vivere ai margini e aumentare il loro tempo di pendolarismo (si sa, il ricco paga con i soldi e il povero con il tempo).
I lavoratori poco qualificati sono, sopra, perso il lavoro, come le fabbriche si sono trasferiti in manodopera a basso costo in altri paesi del lavoro e dei prodotti pronti vengono portati da lì in grandi navi da carico.
È un flusso veloce e costante di persone e materiali.
Tutta questa dissolutezza è stata possibile grazie ai combustibili fossili, all'enorme quantità di energia a basso costo che avevamo.
Ma questo è esattamente ciò che sta finendo.
Negli anni a venire, nei prossimi decenni, la produzione di qualsiasi bene che si vuole vendere qui dovrà essere localizzata da qualche parte nelle vicinanze, perché il trasporto di merci e persone non sarà così economico - a volte non sarà nemmeno possibile. >>
ANTONIO TURIEL


ELITES APOLIDI
<< Le Elites Apolidi non sono malvagie, sono indifferenti come lo sarebbero degli invasori alieni o un computer.
Per loro le persone comuni sono insetti fastidiosi o una materia prima da sfruttare. >>
LORENZO CELSI


TOTEM E TABU’
<< Ogni civiltà ha i suoi tabù, perché di ogni civiltà è il sacro. Ciò che è sacro è intoccabile, inavvicinabile, perché in origine maledetto.
Scrive Pompeo Festo che l'homo sacer è «quem populus iudicavit ob maleficium... quivis homo malus atque improbus». (…)
In una comunità di persone il sacro postula l'indiscutibile, i riferimenti invalicabili dell'identità e dei valori comuni di norma rappresentati nella sintesi di un simbolo o di una formula rituale.
L'ambivalenza del sacro è prospettica: nel tracciare un confine inviolabile discrimina ciò che deve restare fuori - il tabù - da ciò che sta dentro e attorno a cui ci si deve raccogliere - il totem.
Il binomio freudiano svela così i due volti del sacro: dove c'è un totem c'è un tabù, e viceversa. (…)
Non si ha notizia di civiltà senza tabù, perché il sacro soddisfa un fabbisogno spirituale che si riscontra ovunque.
Sarebbe perciò sciocco credere che i tempi laici in cui viviamo si siano emancipati dal sacro e quindi dai tabù. >>
IL PEDANTE

sabato 19 gennaio 2019

Le contraddizioni degli Italiani

Tra i tanti neologismi che la politica italiana ci ha regalato in questi ultimi decenni, i miei preferiti, per la loro icastica concisione, sono tre: il “cerchiobottismo” (un colpo al cerchio e uno alla botte), il “benaltrismo” (ben altri sono i problemi) ed il “doppiopesismo” (due pesi e due misure).
A quest’ultimo termine, che può vantare comunque una lunga storia che risale alle civiltà antiche (dalle due bisacce di Giove, alla pagliuzza del Vangelo) è dedicato il breve post che segue, tratto dal blog di Gianni Pardo, sempre molto lucido ed attento nel cogliere le caratteristiche (ed i difetti) di noi poveri italiani.
LUMEN


<< Noi italiani abbiamo un mare di difetti. Siamo pressapochisti, menefreghisti, incuranti, egoisti, e infine né la morale né il civismo rischiano di soffocarci. In un mondo così ci si aspetterebbe una sorta di universale tolleranza. “Vedo che fai male il tuo dovere, ma poiché anch’io faccio male il mio, ti perdono”.

E chi si indigna per la corruzione dovrebbe ricordarsi che recentemente ha raccomandato suo figlio, perché temeva che lo bocciassero. E con ciò stesso ha promesso a quel professore, di ricambiare il favore, cioè di mancare a sua volta ai doveri d’ufficio. Se ognuno riconoscesse di essere peccatore, l’Italia dovrebbe essere la Mecca del perdono universale.

In realtà, le cose vanno all’opposto. Da noi imperano il moralismo e l’intolleranza. L’impiegato comunale che ha timbrato il cartellino, ed ha abbandonato il posto di lavoro, si arrabbia con l’autobus che non passa o con la spazzatura che ingombra il marciapiede. E non si rende conto che sta chiedendo all’autista dell’autobus e al servizio di nettezza urbana di essere migliori di lui. Si direbbe che tutti si lamentino, e pressoché tutti siano colpevoli.

E c’è di peggio. Non soltanto un po’ tutti vorrebbero che gli altri fossero migliori di loro, ma persino i peggiori cittadini non chiedono prestazioni normali, un’onestà accettabile e un livello di lavoro medio: al contrario nessuno si accontenta di meno della perfezione.

A nessun medico si perdona una diagnosi sbagliata, nemmeno nella bolgia di un pronto soccorso congestionato, come se i sanitari avessero il dovere di essere infallibili mentre tutti gli altri sono campioni di approssimazione e menefreghismo. Mentre viviamo male, chiediamo di vivere come forse non si vive nemmeno nelle nazioni meglio amministrate del mondo.

Il nostro “irrealismo” tocca vette drammatiche. In un mondo in cui quasi nessuno ha rispetto delle leggi, tutti credono scioccamente di risolvere i problemi con nuove norme o inasprendo le pene previste. dimenticando è più efficace una legge mite ma sempre applicata, di una legge draconiana, applicata saltuariamente e quasi a caso, magari infierendo su un singolo malcapitato. Neanche Ercole potrebbe mettere rimedio a una situazione del genere.

Il perfezionismo a spese dei terzi giunge a livelli mitologici. Da un lato siamo costretti a convivere con la spazzatura, dall’altro poi non vorremmo una discarica nemmeno a venti chilometri. Siamo contro gli inceneritori, perché fanno fumo e puzzano; siamo contro i termovalorizzatori che non inquinano e forse si ripagano da sé, ma è sicuro che non provochino guai? Dite che li hanno anche a Copenhagen, praticamente in città? E che vuol dire? Forse i danesi sono imprudenti.

E così siamo arrivati a spedire la spazzatura in Germania, dove si fanno pagare per accettarla e la usano per alimentare i termovalorizzatori, guadagnandoci. E poi ci stupiamo che siamo in crisi economica?

Ecco la sintesi. Il Paese soffre di atteggiamenti contraddittori. Abbiamo un insufficiente senso del dovere, servizi pubblici pietosi, una Pubblica Amministrazione deplorevole, un’amministrazione della giustizia catalettica, e invece di lottare efficacemente contro questo andazzo, o rassegnarci, ce ne meravigliamo e ce ne scandalizziamo, come se fosse la cosa più imprevista del mondo. >>

GIANNI PARDO

sabato 12 gennaio 2019

Perché non fare figli

I miei 25 lettori (da intendersi nel senso letterale del termine e non come figura retorica Manzoniana) sanno benissimo che a me piace andare controcorrente, e cosa c’è di più controcorrente al giorno d’oggi che mettere in discussione l’imperativo categorico della figliolanza a tutti i costi ?
Per questo ho deciso di pubblicare questo pezzo di Sezin Koehler (tratto dall’Huffington Post), che prova a mettere in evidenza, con molta chiarezza e molta sfrontatezza, i tanti buoni motivi che possono giustificare una scelta contraria.
Il problema è visto principalmente dal punto di vista dell’autrice (che ha avuto, a quanto pare, una vita un po’ movimentata), ma ci sono buoni spunti di riflessione per tutti. Buona lettura e buona meditazione. 
LUMEN


<< "Perderai un'occasione" "Non capirai mai il significato della vita" "Sarai incompleta" "Te ne pentirai quando sarai anziana" "Cambierai idea" "Non sarai mai una donna vera" "Non capirai mai veramente l'amore". [Queste frasi] me le sono sentita ripetere un sacco di volte, perché ho deciso di non avere figli. Le mie ragioni per rimanere senza sono diverse (e non sono affari di nessun altro). Nonostante questo mi viene continuamente chiesto di giustificare la mia scelta.

Ecco una selezione di motivazioni:

1. Economica: i figli costano. Nel 2013, crescere un figlio fino ai 18 anni costa mediamente a una famiglia benestante 304.480 dollari. Dare alla luce può costare tra i 3.296 e i 37.227 dollari. Mandare un figlio al college negli Stati Uniti costa tra gli 8.893 e i 22.203 dollari all'anno, a figlio. Mi ci vuole un drink; quei numeri mi fanno girare la testa.

2. Logistica: nonostante tutti gli avanzamenti sociali e culturali, le donne sono sempre quelle che devono prendersi cura dei figli, soprattutto negli anni formativi del bambino. Crescere un figlio prima che vada a scuola è più di un lavoro a tempo pieno. È h.24, sette giorni alla settimana, senza sconti per buona condotta. Non sono in grado di stare in compagnia di altri esseri umani quando ho sonno, figuriamoci cosa farei con un figlio che dipende da me per Ogni Singola Cosa.

3. Ambientale: ci sono circa 153 milioni di orfani al mondo. Perché aggiungere un'altra bocca a un pianeta sovraffollato per seguire un imperativo biologico ed egocentrico che non provo? Se proprio dovrò, adotterò.

4. Fisica: il mio corpo ha già sofferto abbastanza nei suoi 35 anni di permanenza su questa terra. Lo stress post-traumatico dato dall'essere sopravvissuta a un attacco d'arma ha dato il colpo definitivo al mio sistema nervoso. Sono anche cresciuta all'estero e non sono stata bombardata dagli additivi e ai conservanti del cibo americano. Aggiungere un membro alla mia famiglia significherebbe smettere di mangiare cibo biologico e sano, perché non potremmo più permettercelo. Beh, non possiamo permetterci nemmeno un cancro.

5. Emotiva: ogni giorno lotto per gestire il disturbo post traumatico da stress. Avere la libertà di non dormire quando l'onda di panico mi colpisce è una manna dal cielo. Poter dormire per 12 ore ininterrottamente per recuperare è stata la mia salvezza. Lavoro da casa e decido da sola i miei orari, una situazione ideale. Mettici un bambino e cosa succederà quando mi sentirò depressa e non avrò la forza di uscire dal letto? O piangerò per una settimana intera? O nel bel mezzo delle sfuriate di rabbia che mi fanno totalmente perdere il controllo?

6. Sociale: l'ultima volta che ho controllato, il mondo era sottosopra. C'è una sparatoria in una scuola diversa ogni settimana in questo paese. E c'è pure questa cosa chiamata "cultura dello stupro" che permea ogni aspetto della società. Molti dei bambini di oggi probabilmente ne saranno o vittime o esecutori in un futuro non così distante. Andrò a farmi un altro drink, questa volta bello forte.

7. Culturale: sono una ‘third culture kid’ mezza americana, mezza singalese - una persona che ha passato i suoi anni di sviluppo al di fuori dei paesi dei propri genitori - addossandosi problemi identitari a volontà giorno dopo giorno. Vivo con il pensiero della diversità anche quando sono negli Stati Uniti. "Da dove vieni?" è la domanda che mi viene fatta più spesso. (Seguita dalla domanda a capo di questo articolo). E dovrei scaricare questo peso culturale su un innocente?

8. Di interesse: semplicemente, non mi interessano la miriade di cose spaventose che comportano il parto e la crescita di un figlio. Dolori vaginali, emorroidi, costipazione, doglie, congiuntivite, muco, vomito, diarrea, tracolli nervosi in pubblico, la fase dei due anni, ribellione adolescenziale, dire addio alla mia identità individuale. No. Grazie.

"Ma perché, Sezin, non ti interessa avere il figlio più intelligente, bello, talentuoso e speciale al mondo? Perché mai?!" Perché amo dormire. Amo decidere i miei orari. Amo passare del tempo da sola, scrivere, amo il tempo che passo a sognare. Amo mangiare quasi 100% biologico. Amo farmi tatuaggi. Amo avere periodi di calma, un intero weekend per fare quello che mi pare. Amo la mia libertà. Con il mio lavoro creativo, un impiego che amo e un marito, adoro quelli che sono d'accordo con quello che ho scritto e sono felice, sana, soddisfatta come mai nella mia vita.

Tutto questo andrebbe a friggersi con l'arrivo di un figlio, perché beh, è la natura dei bambini. Un esserino che arriva nel tuo mondo e che dipende interamente e solamente da te. Il tuo universo si ridimensiona a misura sua e si muove con lui. Preferisco avere accesso pieno a TUTTO quando voglio, non solo nei momenti in cui i miei figli si sono finalmente addormentati o in quei miseri minuti di tempo che avrei per fare una doccia. Ho aiutato degli amici con i loro figli. So di cosa stiamo parlando.

Perché mi viene sempre chiesto di giustificare la mia scelta? E perché mio marito - che ha fatto la stessa scelta - non è questionato quanto me? Ecco perché abbiamo ancora bisogno del femminismo: nonostante tutti i progressi tecnologici, sociali e culturali, fare figli sembra ancora essere la tappa obbligata nella traiettoria di vita di una donna.

Ed ecco la mia risposta: non do per scontato che le mie personali scelte di vita siano così fondamentali e giuste da rendere meno umane o meno soddisfatte quelli che la pensano diversamente. Ho deciso di rimanere senza figli. E quindi? Non ho bisogno di partorire per essere una vera donna. Non ho bisogno di un figlio per sperimentare l'amore incondizionato e il sacrificio. Non ho bisogno di un bambino per essere felice. Decisamente non ho bisogno di un figlio per quando sarò anziana. E non cambierò idea; ho più di otto buone ragioni per non farlo.

Come disse Anaïs Nin: "La maternità è una vocazione come tante altre. Dovrebbe essere scelta liberamente, non imposta alle donne". Le critiche sono già abbastanza. >>

SEZIN KOEHLER

sabato 5 gennaio 2019

Il fascino dei Classici

Tutti coloro che amano, leggono o – quanto meno - conoscono i cosiddetti “classici”, si saranno posti, almeno una volta nella vita, l’inevitabile domanda di come possa essere definita la categoria, e credo che molti non siano mai riusciti a darsi una risposta definitiva.
Dell’argomento si è occupato anche il grande scrittore italiano Italo Calvino, che vi ha dedicato un saggio intitolato “Perché leggere i Classici“, nel quale, tra le altre cose, cerca appunto di rispondere alla domanda di cui sopra.
Al libro di Calvino, nonché ovviamente ai “libri classici” ed a tutti i loro appassionati, è dedicato il post che segue, tratto dal sito “Athenae Noctua“.
Ogni commento, critica o contributo alla discussione sarà più che gradito.
LUMEN


<< “Classico” è, nella sensibilità comune, un equivalente di 'tradizionale', 'canonico'. Quando si parla di un autore o di un testo del passato che ha avuto una grande risonanza in letteratura, nel pensiero o nella cultura generale, ci riferiamo in qualche modo ad un elemento sentito come autorevole. Etimologicamente, il termine 'classicus' si riferisce alla classe di cittadini più elevata; applicato agli autori, indica la percezione di un primato, di un ruolo-chiave nella storia letteraria. Nel tempo, 'classico' è diventato sinonimo di 'antico', 'tipico' e, nell'abbigliamento, di tendenze che sopravvivono a qualsiasi moda.

Ma quando ci riferiamo ad un libro, precisamente, cosa intendiamo definendolo un 'classico'? Ebbene, nessuno avrebbe potuto rispondere in maniera più competente e brillante di Italo Calvino che, oltre che autore di primo piano nella narrativa italiana, è stato anche un critico e un teorico della letteratura. Il suo saggio “Perché leggere i classici”, una raccolta di articoli scritti separatamente, si apre con una premessa, anzi, con una proposta di definizione.

1-I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

2-Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.

3-I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

4-Dʹun classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5-Dʹun classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6-Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7-I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

8-Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.

9-I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

10-Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.

11-Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

12-Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.

13-È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14-È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.

Il dato di maggiore evidenza nelle definizioni di Calvino (inserite in una trattazione organica che vi invito a leggere) è, a mio avviso, la risonanza: un classico si riconosce in quanto persiste in un immaginario pregresso e, nel momento in cui viene conosciuto, si carica di nuovi significati che cambiano a seconda delle esperienze personali e del tempo in cui si colloca il lettore. Possiamo sorprenderci a riconoscere in un classico che leggiamo per la prima volta un pensiero che abitava già nella nostra mente e sentirci come stupiti di questo nuovo incontro (che è un po'la sensazione del sublime):

Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l’aveva detto lui per primo [...] E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d’una origine, d’una relazione, d’una appartenenza.

Nel nostro dialogo con l'opera, possiamo individuare un senso che scaturisce dalla nostra sensibilità oppure che era già insito nelle intenzioni dell'autore. Nella rilettura possiamo scoprire particolari del tutto nuovi, che si svelano perché è cambiato il nostro punto di osservazione, la prospettiva attraverso la quale scorriamo le parole. Insomma, il classico è ciò che, anche se lontano del tempo, non smette mai di comunicare con noi, senza per questo imporsi prepotentemente rispetto al moderno e al contemporaneo, anzi, rimarcando quanto anche l'attualità e il progresso servano ad alimentare un rumore di fondo che non disturba ma arricchisce quella stessa comunicazione.

Questa comunicazione, tuttavia, deve avere come premessa una passione, una ricerca spontanea e disinteressata, perché la 'scintilla' deve scoccare da sola, non può essere forzata. Bando all'affanno del dover leggere, alla vergogna del non aver letto un determinato titolo: «È solo nelle letture disinteressate che può accadere d’imbatterti nel libro che diventa il 'tuo' libro».

Leggere un classico, dunque, non è né indispensabile né imprescindibile, anzi, in chiusura al suo intervento, Calvino suggerisce che l'unica, vera ragione per leggere i classici vada oltre (perché, evidentemente, le riassume tutte) le sue quattordici note: «La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici».

La comunicazione, la cultura, l'esperienza non sono mai eccessive, sceglierle non è una fatica vana, perché una conoscenza in più è sempre una dote, anche se non sfruttabile nella pratica, anche se non numericamente quantificabile. Ecco perché Calvino chiude la sua proposta di definizione citando Emil Cioran: Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. «A cosa ti servirà?» gli fu chiesto. «A sapere quest’aria prima di morire». >>

CRISTINA M.