venerdì 26 luglio 2019

La fine del debito

E’ opinione diffusa che uno dei principali pericoli che minacciano l’economia mondiale sia costituito dal continuo aumento del debito finanziario, divenuto ormai eccessivo e che nessuno sa bene come affrontare.
Perché – come ci racconta Jacopo Simonetta nell’articolo che segue (tratto da Effetto Cassandra) - le opzioni per contenerlo, teoricamente, ci sono, ma tutte presentano dei limiti o delle importanti controindicazioni.
Quel che possiamo dare per certo è che, prima o poi, qualcosa succederà; ma cosa ?
LUMEN


<< Oggi l’intero sistema [dell’economia capitalista] si basa su di una crescita costante ed equilibrata di debito e PIL. La parola magica qui è “equilibrata”, perché l’intera massa monetaria è formata da debito, pubblico e privato, che dovrà quindi essere restituito con l’interesse affinché si possano fare nuovi debiti e così via, teoricamente all'infinito.

L’idea sottostante è che finché l’economia complessiva (reale e finanziaria) cresce in proporzione al debito, questo sarà ripagato ed il gioco potrà continuare per sempre. E se per fare questo bisogna distruggere risorse ed ambiente, rendere tossiche l’aria e l’acqua, rendere ostile il clima, spazzare via civiltà e culture, sovvertire strutture sociali pazienza; tanto l’ingegno umano troverà sempre il modo di rimediare. Anzi, dal momento che la soluzione dei problemi creati dalla crescita richiede spesso grossi investimenti, i problemi stessi diventano motori di ulteriore crescita. Evviva!

Un giochino che chiaramente funziona solo se non si tiene conto che gli uomini sono oggetti materiali, così come tutto ciò che usano, consumano e scartano; un “dettaglio” che li rende soggetti alle leggi della fisica, della chimica e dell’ecologia, assai più che alla magia dei modelli teorici. Comunque, è un fatto che non solo nelle economie sommergenti, ma anche in quelle emergenti il debito sta crescendo troppo rapidamente rispetto all'economia (o l’economia cresce troppo lentamente rispetto al debito, come si vuole).

Per essere più precisi: in tutto il mondo si vede chiaramente che il rapporto debito-PIL è entrato in una fase di ritorni decrescenti. Significa che per ottenere un medesimo livello di crescita, è necessario un sempre maggiore incremento del debito. Incuranti dei limiti fisici alla crescita, per parecchi anni l’aumento del debito è stato favorito da banche e governi, sperando che ciò rilanciasse la crescita, ma anche quando ha funzionato non è stato abbastanza ed ora tutte le economie nazionali del mondo si trovano alle prese con un debito sostanzialmente fuori controllo.

Che fare? Non è certo la prima volta che degli stati si trovano sommersi da un debito impagabile e ci sono parecchi modi per uscire dalla stallo. Vediamoli brevemente.

L’austerità consiste nel contenere al massimo le spese e, contemporaneamente, cercare di aumentare le entrate con ogni mezzo. Cosa che, nel caso dei governi, significa tagliare i servizi ed aumentare le tasse. In alcuni casi ha funzionato. Per esempio, l’Inghilterra del XIX secolo riuscì in questo modo a ripagare l’enorme (per allora) debito contratto durante le guerre napoleoniche. Ma la cosa richiese circa un secolo e fu possibile grazie al fatto che, in quello stesso periodo, l’Inghilterra era la maggiore potenza coloniale del mondo e la sua economia cresceva comunque, malgrado un livello di povertà estremo per la maggior parte della sua popolazione. (…)

In un contesto di stagnazione o, peggio, di recessione, l’austerità non fa che accrescere le difficoltà delle persone, senza risolvere la situazione debitoria. In altre parole, l’austerità è un eccellente strumento preventivo se usato per rallentare la crescita (oltre che per ridurre il debito) nei periodi economicamente favorevoli, in modo da alleviare la situazione nei seguenti, immancabili, periodi sfavorevoli. Se, invece, la si usa crisi economica durante, può aggravare anche di molto la situazione (Grecia e Italia docunt).

La ricusazione significa che il debitore dichiara che non pagherà determinate somme, appellandosi ad una qualche motivazione legale, oppure mediante un accordo con i creditori o ancora con un'azione di forza. Ad esempio è stato parzialmente fatto per la Grecia (il cosiddetto “haircut”). Inutile dire che ciò è possibile solo in casi molto particolari e parziali. Nel caso degli stati, quando la cosa è trascurabile dal punto di vista dei creditori; oppure se questi hanno una contropartita politica di altro genere. Comunque, bisogna che chi ricusa il debito sia in una posizione di forza nei confronti del creditore o, perlomeno, è necessario sia in grado di concordare con i creditori una strategia di interesse comune poiché, se la ricusazione favorisce chi riduce il proprio debito, danneggia chi vede invece svanire il proprio credito.

La bancarotta significa che il debitore non paga perché non può. Nel caso di privati, i creditori si rivalgono sui beni del debitore, finché ce ne sono. Nel caso degli stati, significa che i servizi pubblici, gli stipendi, le pensioni e molto altro svaniscono nel nulla, per poi eventualmente riapparire sotto differenti spoglie, ma comunque drasticamente ridimensionati. Per i cittadini dello stato in questione si tratta comunque di stringere molto la cintura, ma non solo. Il rischio sistemico è che la bancarotta di un soggetto importante può provocare effetti a catena imprevedibili. Il caso di Lehman Brothers è solo il più recente e conosciuto. La bancarotta di uno stato economicamente importante potrebbe scaraventare nel caos la finanza mondiale.

La crescita è considerata la panacea di tutti i mali. Se, infatti, l’economia cresce più rapidamente del debito, questo sarà ripagato senza problemi e con grande soddisfazione di tutti. Solo che se ci sono dei problemi, tipo la progressiva riduzione della produttività dell’energia o l’incremento delle esternalità negative (inquinamento, sanità, bonifiche, ecc.), la crescita economica reale sarà limitata o addirittura negativa (anche a fronte di un PIL positivo). Cioè la crescita, anche quando ci fosse davvero, non può pagare un debito in territorio di “ritorni decrescenti”. In altre parole, il keynesismo ha funzionato nel contesto in cui lavorava Keynes. Nel contesto attuale, almeno in molti casi, no. Anzi si traduce in un ulteriore accelerazione del debito.

La privatizzazione consiste nella vendita a privati del patrimonio pubblico. Una cosa che ha senso solo in misura molto limitata. Abbiamo infatti visto che il patrimonio netto degli stati (perlomeno di quelli occidentali, su cui si hanno dati affidabili) è circa zero in quanto il valore del debito pubblico equivale grosso modo al valore del patrimonio pubblico. Ciò significa che, teoricamente, gli stati potrebbero azzerare il debito vendendo strade, caserme, palazzi ed uffici governativi, navi da guerra, scuole, gendarmerie, ecc. Ma a parte il fatto che per alcuni di questi “asset” non sarebbe facile trovare compratori, una simile operazione comporterebbe che invece di pagare un interesse sul debito, gli stati dovrebbero pagare degli affitti per continuare ad usare le infrastrutture e le attrezzature essenziali al loro funzionamento. Non un grande affare.

L’imposta straordinaria sul patrimonio (alias Patrimoniale) consiste nell'imporre un prelievo massiccio sui patrimoni privati. Piketty valuta che, complessivamente in Europa, un prelievo del 15% dei patrimoni privati sarebbe sufficiente ad azzerare il debito degli stati, liberando ingenti risorse pubbliche per investimenti e/o ridurre la tasse sul reddito. Apparentemente fattibile, specie se la misura fosse ben studiata nel dettaglio, gradualizzandola nel tempo ed articolandola per scaglioni con quote di imposizione fortemente progressive così da proteggere i piccoli risparmiatori e torchiare i super-capitalisti.

Del resto, provvedimenti del genere si sono già visti in casi di emergenza. La tassa straordinaria sui patrimoni imposta dal primo governo De Gaule nel 1945 raggiunse il 25% per lo scaglione più alto. USA ed Inghilterra, durante la II Guerra Mondiale, arrivarono a tassare per il 90% l'aliquota massima dei redditi. Dunque perché non si fa? Lo stesso Piketty (…) ammette che non è così facile come sembra. Intanto i grandi e grandissimi capitalisti sono persone ben addentro alle stanze del potere, dove hanno ampio margine per influenzare le decisioni politiche. (…)

Un secondo motivo è che i grossi capitali finanziari mutano in continuazione di natura e localizzazione, cosicché è praticamente impossibile tracciarli con sicurezza. Ma non basta: anche i capitalisti possono spostarsi con estrema facilità nei paesi che gli offrono le condizioni migliori. (…) Un provvedimento di questo genere, oggi, potrebbe essere efficace solo se concordato e coordinato dai tutti gli stati principali. Diversamente, sarebbe un'ulteriore "stangata" alla classe media, come già avvenuto con le patrimoniali che si sono succedute nei decenni scorsi.

L’inflazione è da molti considerata l’ultima e più efficace delle medicine, ampiamente usata da tutti gli stati durante il XX secolo. Se il denaro perde di valore ad un tasso superiore a quello dell’interesse, il debito gradualmente diminuirà fino a diventare insignificante; così da permettere l’accensione di nuovi debiti a tassi maggiori che, però, saranno a loro volta surclassati dall'inflazione. E’ sostanzialmente così che tutti i paesi europei si sono sbarazzati degli immensi debiti conseguenti la II Guerra Mondiale e la ricostruzione.

Ed è la strategia che da un paio di anni ha avviato la BCE, su pressante insistenza di parecchi stati dell’UE (fra cui l’Italia). Ma anche questa medaglia ha un rovescio: assieme ai debiti svaporano i risparmi, gli stipendi e le pensioni, tranne per coloro che sono in grado di fare investimenti molto redditizi, o di ottenere aumenti frequenti e consistenti.

Nel periodo del “miracolo economico” postbellico, la combinazione di una forte crescita economica e di agguerrite organizzazioni sindacali fece si che la maggior parte delle persone non ebbero a soffrire dell’elevata inflazione (al netto di qualche vecchio possidente). Viceversa, il contesto di stagnazione (o recessione) in cui vivono e vivranno la maggior parte degli occidentali (e poi anche degli altri) fa sì che l’inflazione oggi non sia che un sistema molto efficace per pompare soldi dalle tasche dei cittadini, al netto di coloro che possono contare su stipendi molto elevati e/o di patrimoni molto importanti.

Insomma, come dicevano sia Keynes che Lenin, l’inflazione è il modo più efficace con cui uno stato può appropriarsi della ricchezza dei cittadini senza che questi si possano difendere. In altre parole, l’inflazione tende a favorire chi ha molti debiti (a partire dallo stato), chi dispone di grandi patrimoni finanziari e chi è in grado di accrescere rapidamente le proprie entrate, mentre danneggia tutti gli altri e soprattutto le “formichine”. (…)

Il debito pubblico e privato stanno schiacciando le economie del mondo, sia pure con situazioni molto diverse a seconda dei paesi. Ci sono molti modi per sbarazzarsene, ma tutti hanno un punto in comune: i super ricchi se la cavano, mentre la gente normale si fa molto male. Finché il debito permane e cresce, si soffre perché bisogna pagarlo (direttamente od indirettamente); quando cessa, invece si soffre perché svaniscono anche buona parte dei risparmi, degli stipendi e delle pensioni. Amen. >>

JACOPO SIMONETTA

venerdì 19 luglio 2019

Punti di vista – 9

LIBERO ARBITRIO
Le cognizioni oggi offerte dalle neuroscienze e dall’economia comportamentale ci hanno privato di quello che ritenevamo il libero arbitrio, il potere di compiere scelte indipendenti: sappiamo ormai che intervengono miliardi di neuroni nel cervello per calcolare le probabilità di successo in una frazione di secondo e quello che riteniamo ci piaccia d’istinto può, in realtà, essere pilotato da chi conosce i nostri comportamenti abituali meglio di noi stessi. (…)
L’intelligenza artificiale è destinata a superare le prestazioni persino nei compiti che prevedono l’intuizione.
Perfino le forme artistiche, come la musica ad esempio, possono essere replicate grazie agli algoritmi biometrici e addirittura ‘migliorate’, rese più facilmente accette, benché tutto ciò non significhi produrre arte di miglior livello.
Anche le decisioni politiche, i voti di elezioni e referendum dipendono non da ciò che pensiamo, ma da ciò che proviamo.
E i sentimenti non guidano soltanto gli elettori, ma anche i leader.
YUVAL HARARI


GUERRE PERDUTE
Tutti sanno che le guerre si possono vincere e si possono perdere, ma non tutti tengono conto di una distinzione importantissima che sta a monte: ci sono guerre che si possono vincere e guerre che non si possono vincere.
E un governo avveduto deve essere in grado di riconoscere queste ultime, in modo da evitarle.
Qualcuno potrebbe pensare che capire questa cosa in anticipo sia impossibile, ma così non è.
Al riguardo è indimenticabile il caso della guerra nel Vietnam, quando il Generale Mc Arthur, che avrà avuto un caratteraccio ma certo era competente, raccomandò caldamente di non impegnarsi in quel conflitto.
Non fu ascoltato e sappiamo com’è finita.
GIANNI PARDO


SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE
Lo schiavo e lo schiavista dell’impero romano, come il servo della gleba e il feudatario in epoca medioevale conducevano una vita sostanzialmente eco-sostenibile.
Il danno procurato all’ambiente dagli stili di vita produttivi e alimentari delle classi pre-moderne era impercettibile.
Con l’avvento della rivoluzione industriale e l’esplosione del capitalismo tecno-scientifico l’eco-insostenibilità del sistema ha subito un balzo in alto esponenziale ed asintotico.
Ed esso coinvolge insieme, come in un abbraccio mortale, servo e padrone, operaio e capitalista.
Certamente l’oligarchia parassitaria e plutocratica, che manipola le sorti del mondo, è infinitamente più colpevole del più povero dei disoccupati, ma anche quest’ultimo non sfugge alla legge ferrea dello stupro ecologico, in quanto adotta, più o meno volontariamente, stili di vita che alimentano più squilibri ambientali di un qualsiasi Re o Imperatore dell’antichità. (…)
E tutti ci sentiamo in diritto di etichettare come pazzo chiunque predichi la rinuncia ai privilegi o la decrescita.
Perché i privilegi sono di tutti e non solo di una minoranza come accadeva nell’ancien regime.
SOLLEVAZIONE (Mauro Pasquinelli)


GELOSIA
Il possessivo è colui che vuole avere la persona amata. Il geloso, invece, è che colui che non vuole che altri l’abbiano.
Il geloso vuole che ciò che ha lui non lo abbiano anche altri. Il puro possessivo vuole semplicemente averlo lui, e se poi l’hanno anche gli altri, va bene.
Certo, parlando di una persona, se gli altri la hanno troppo, non ne rimane per te, perché la vita è limitata nel tempo. Quindi la possessività rappresenta comunque un limite alla disponibilità del proprio partner per altri.
Ma un limite relativo, dovuto alla limitatezza del tempo e delle energie, non allo specifico bisogno (la gelosia, appunto) che nessuno goda della persona amata e che lei non goda di nessuno.
EDOARDO LOMBARDI VALLAURI


GIORNALISMO ITALIANO
Mi dispiace ma il livello dell’approfondimento dei media italiani, con poche eccezioni, è molto basso: ogni giorno mi imbatto in articoli frettolosi e superficiali, forse perché il giornalista deve scrivere tanto per mettere assieme un guadagno decente, ma anche perché sopra di lui non c’è nessuno che pretende rigore; e in un italiano sciatto, sensazionalistico, narcisistico e frammentato che sembra servire più a schiaffeggiare il lettore che a fargli capire qualcosa.
Per non parlare dell’abitudine di copia-incollare comunicati stampa o inchieste altrui, e farci un pezzo intero – può essere utile, ma se ne sta abusando, e poi i comunicati stampa sono praticamente propaganda, non integrarli è pigrizia pura.
Insomma, c’è tanta robaccia in giro, robaccia che chiunque o quasi può fare, e il giornalista che lavora così, cioè male, finisce nello stesso calderone di quello bravo la cui bravura nessuno apprezza, o addirittura nessuno vede perché siamo abituati a sentir urlare più che riflettere.
GAIA BARACETTI

sabato 13 luglio 2019

Storia della disuguaglianza

LUMEN – Abbiamo oggi qui con noi il grande filoso francese Jean-Jacques Rousseau, padre dell’illuminismo e del pensiero politico moderno. Con lui parleremo di uno dei problemi fondamentali della società umana, ovvero quello delle disuguaglianze.
ROUSSEAU – Bonjour a touts.

LUMEN – Monsieur Rousseau, come possiamo spiegare le origini della disuguaglianza sociale ?
ROUSSEAU - L’opinione comune sul corso generale della storia umana si può riassumere più o meno così: circa duecentomila anni fa, alla comparsa dell’Homo sapiens anatomicamente moderno, la nostra specie viveva in gruppi piccoli e mobili che comprendevano tra i venti e i quaranta individui. Cercavano i territori migliori per cacciare e procurarsi da mangiare, seguendo i branchi, raccogliendo noci e bacche.

LUMEN – E quando le cose andavano male ?
ROUSSEAU - Quando le risorse cominciavano a scarseggiare o emergevano tensioni sociali, reagivano spostandosi altrove. Per questi primi esseri umani – potremmo parlare di infanzia dell’umanità – la vita era piena di pericoli, ma anche di possibilità. C’erano pochi beni materiali, ma il mondo era un posto incontaminato e invitante. La maggior parte di loro lavorava solo poche ore al giorno, e le dimensioni ridotte dei gruppi sociali per­mettevano di mantenere un disinvolto cameratismo, senza strutture formali di dominio.

LUMEN – Voi lo avete definito “stato di natura”.
ROUSSEAU – Probabilmente quella fu l’unica era in cui gli umani riuscirono a vivere in autentiche società di uguali, senza classi, caste, capi ereditari o governi centralizzati. Purtroppo questo idillio era destinato a finire. La versione condivisa della storia mondiale colloca questo momento intorno a diecimila anni fa, al termine dell’ultima era glaciale.

LUMEN – Che cosa avvenne ?
ROUSSEAU - A quel punto, i nostri antenati umani erano sparsi in tutti i continenti, e cominciarono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame. Quali che fossero le ragioni a livello locale, gli effetti furono epocali, e sostanzialmente identici dappertutto. L’attaccamento al territorio e la proprietà privata dei beni acquistarono un’importanza prima sconosciuta, e cominciarono scontri sporadici e guerre.

LUMEN – Poi sorsero anche le famose eccedenze.
ROUSSEAU – Infatti. L’agricoltura garantiva un’eccedenza di cibo, che permise ad alcuni di accumulare ricchezza e potere al di là del ristretto gruppo familiare. Altri usarono l’affrancamento dalla ricerca di cibo per sviluppare nuove abilità, come costruire armi, utensili, veicoli e fortificazioni o per dedicarsi alla po­litica e alla religione organizzata. Di conseguenza, questi “agricoltori del neolitico” ebbero presto la meglio sui loro vicini cacciatori-raccoglitori e cominciarono a eliminarli o assorbirli in un nuovo stile di vita, superiore ma meno ugualitario.

LUMEN - A complicare ulteriormente le cose, l’agricoltura provocò un aumento globale della popolazione.
ROUSSEAU - Man mano che si univano in concentrazioni sempre più grandi, i nostri progenitori fecero un altro passo irreversibile verso la disuguaglianza e circa seimila anni fa com­parvero le città: a quel punto il nostro destino fu segnato. Con le città arrivò l’esigenza di un governo centrale. Nuove classi di burocrati, sacerdoti e politici-guerrieri assunsero cariche permanenti per mantenere l’ordine e garantire i servizi pubblici e la regolarità degli approvvigionamenti. Le donne, che un tempo avevano un ruolo preminente negli affari umani, furono isolate o imprigionate negli harem. I prigionieri di guerra diventarono schiavi. Arrivò la vera e propria disuguaglianza, e non ci fu modo di liberarsene.

LUMEN - Eppure la nascita della civiltà urbana ebbe anche aspetti positivi.
ROUSSEAU – Certamente. Fu inventata la scrittura, in un primo momento per tenere la contabilità dello stato, che consentì progressi straordinari nella scienza, nella tecnologia e nelle arti. A prezzo dell’innocenza siamo diventati moderni, e ora possiamo solo guardare con compassione e invidia a quelle poche società “tradizionali” o “primitive” che in qualche modo hanno perso il treno.

LUMEN – Alcuni libri recenti guardano alla preistoria per trarre conclusioni politiche più generali.
ROUSSEAU – Sì, è vero. Così per esempio il politologo Francis Fukuyama nel suo libro ‘The origins of political order’ scrive: “Nelle sue prime fasi, l’organizzazione politica umana è simile alla società in bande che si può osservare nei primati superiori come gli scimpanzé. Può essere considerata come una forma quasi automatica di organizzazione sociale. Rousseau ha sottolineato che l’origine della disuguaglianza politica va ricercata nello sviluppo dell’agricoltura, e ha in larga misura ragione.”

LUMEN – Vedo che siete citato spesso.
ROUSSEAU – Beh, modestamente. Il biologo Jared Diamond, nel suo saggio ‘Il mondo fino a ieri’, suggerisce che queste bande, in cui si ritiene che gli esseri umani abbiano vissuto “fino ad appena undicimila anni fa”, comprendevano solo “poche decine di individui”, per lo più biologicamente imparentati, e conclude che solo in questi gruppi primordiali la specie umana ha raggiunto un grado significativo di uguaglianza sociale.

LUMEN – Quindi – volendo riassumere - a mettere fine a quell’uguaglianza primordiale furono l’invenzione dell’agricoltura e il conseguente aumento della popolazione.
ROUSSEAU – Sicuro. L’agricoltura provocò una transizione dalle “bande” alle “tribù”. Le eccedenze alimentari consentirono la crescita della popolazione, portando alcune “tribù” a svilupparsi in società gerarchiche governate da un capotribù. Ben presto i capitribù si proclamarono re e perfino imperatori. Resistere non aveva senso.

LUMEN – In effetti, una volta adottate forme di organizzazione grandi e complesse le conseguenze erano inevitabili.
ROUSSEAU – Appunto. E quando i capi cominciarono a comportarsi male – appropriandosi delle eccedenze di cibo per favorire parenti e lacchè, rendendo la loro posizione permanente ed ereditaria, collezionando crani come trofei ed harem di schiave o strappando il cuore dei rivali con coltelli di ossidiana – era troppo tardi per tornare indietro.

LUMEN – Quindi le disuguaglianze di oggi vengono da lontano, da molto lontano.
ROUSSEAU – Proprio così. Come sostiene, molto correttamente, Jared Diamond: “Le popolazioni numerose non possono funzionare senza capi che prendono le decisioni, esecutori che le attuano e burocrati che amministrano le decisioni e le leggi”.

LUMEN – Vi ringrazio, monsieur Rousseau, siete stato davvero molto chiaro e illuminante.
ROUSSEAU – Bien sûr. D’altra parte, se la mia epoca è stata chiamata l’“età dei lumi”, ci sarà pure un motivo, no ?

sabato 6 luglio 2019

Evoluzione a 4 zampe

Una delle locuzioni latine più conosciute in campo naturalistico è probabilmente “natura non facit saltus”, un detto che – anche se coniato da Leibniz con riferimento alla natura atomistica della materia - venne ben presto utilizzato in campo biologico, per indicare il flusso lento e costante delle variazioni naturali (soprattutto darwiniane).
Di questo principio, e delle conseguenze che i suoi limiti pongono (indirettamente) al nostro immaginario fantastico, ci parla con competenza, ma anche con leggerezza ed ironia, l’ottimo Marco Pierfranceschi in questo breve pezzo tratto dal suo blog (Mammifero Bipede).
LUMEN


<< Uno dei più grossolani “mis-understanding” sull’evoluzione è l’idea che questa proceda per salti. Ad esempio nella saga super-eroistica X-MEN della Marvel si ipotizza la nascita di individui dotati dei poteri più disparati a causa di un “salto evolutivo”. Purtroppo (per la credibilità del fumetto) la natura non “salta”.

L’evoluzione attua un percorso di adattamento progressivo nel quale ogni “mutazione” deve essere immediatamente vantaggiosa, pena la sua scomparsa. Strutture complesse come le penne degli uccelli, ad esempio, non appaiono dal nulla, ma derivano dalla progressiva trasformazione di strutture più semplici. Come peli, che successivamente si ispessiscono e diventano piume (molti dinosauri ne erano ricoperti, consentiva un migliore adattamento termico), e finalmente, una volta conseguita la capacità di volare, si trasformano in penne.

Il corno del rinoceronte è l’evoluzione di un singolo pelo, le ali degli uccelli sono l’evoluzione degli arti anteriori di creature in origine quadrupedi e successivamente divenute bipedi. Tutti i vertebrati discendono dai pesci attraverso un adattamento alla vita in ambienti asciutti (anfibi, rettili, uccelli e mammiferi), e tutti gli animali terrestri appartengono al sub-phylum dei tetrapodi: animali dotati di quattro arti. In pratica tutta l’evoluzione terrestre si è sviluppata a partire da una struttura a quattro arti, che sono diventati di volta in volta quattro zampe, due zampe e due ali, due zampe e due braccia, per addirittura ridiventare nuovamente pinne nei cetacei.

Per quale motivo non esistono vertebrati a sei zampe mentre ne hanno un tale numero gli insetti, ed addirittura otto gli aracnidi? Non si sa, ma quello che ci insegna l’evoluzione è che la natura ha una pazienza sconfinata e scale temporali enormi, e che molto poco avviene per caso. Quello che possiamo provare ad attuare è una sorta di “reverse engineering”, ovvero dedurre dalla situazione attuale quali possano essere stati gli eventi che vi hanno condotto, ricostruendo i numerosi “pezzi mancanti”.

Quindi l’assenza di vertebrati esapodi ci offre un primo indizio, e ci spinge a ragionare sui motivi per cui il processo evolutivo non ha potuto seguire quella strada. Un secondo indizio sta nel fatto che la meccanica del movimento delle zampe negli insetti è spesso molto rudimentale (le zampe avanzano a tre a tre, due su un lato ed una sull’altro, alternandosi). Un ulteriore indizio è dato dalla presenza, nel cervello, di aree dedicate per ogni arto.

Avere una coppia di zampe in più, nei millenni in cui i pesci provavano a colonizzare gli ambienti asciutti, non deve aver rappresentato un vantaggio, probabilmente perché richiedeva una maggior complessità nelle strutture cerebrali a danno di qualcos’altro, ed obbligava ad una complessità di coordinamento che ne rendeva il moto meno efficiente. Per lo stesso motivo un paio di arti in più non può ricomparire più avanti nel processo evolutivo, o se ricompare rappresenta una mutazione immediatamente svantaggiosa, che non ha tempo e modo di evolvere in una creatura funzionale.

Cosa scompare sotto questa “falce logica”? Di fatto buona parte delle creature fantastiche di ogni tempo e luogo. Non possono esistere i centauri, ad esempio, perché quattro zampe e due braccia sono sei arti. Non possono esistere (in natura) creature come gli angeli dell’immaginario cristiano, perché due ali, due braccia e due gambe sono di nuovo sei arti. Non possono esistere i draghi volanti, le sfingi e nemmeno l’ippogrifo.

Oltretutto, se questo processo ha avuto luogo sul nostro pianeta, non c’è motivo perché, a parità di struttura genetica (l’unica possibile) non abbia avuto luogo ovunque si siano create analoghe condizioni favorevoli allo sviluppo della vita. Quindi tali creature non potranno esistere nemmeno su altri pianeti. E se anche proveremo a realizzarle in futuro con l’ingegneria genetica, dotarle di strutture cerebrali in grado di gestire sei arti sarà molto, molto meno banale che farglieli crescere artificialmente.

Quindi salutiamo i nostri bizzarri amici che ci hanno tenuto compagnia nei secoli, e con loro anche creature chimeriche più semplici come ad esempio i fauni. Il fauno tecnicamente è un tetrapode, ma ha arti troppo diversificati: due mani umane e due zampe dotate di zoccoli. Quello che osserviamo negli animali esistenti ed esistiti è una sostanziale somiglianza strutturale nei quattro arti. Le nostre mani hanno cinque dita come i nostri piedi, e tutte le dita hanno le unghie, mani e piedi. Quelle delle mani ci servono ancora, quelle dei piedi no, ma non possiamo perderle a causa della codifica che ne fa il DNA.

Apparentemente il DNA forma delle strutture similari per i quattro arti, e le diversifica nel corso dello sviluppo embrionale. Strutture ossee analoghe, strutture muscolari analoghe, più o meno sviluppate a seconda della funzionalità dell’arto. Il massimo della diversificazione si ha negli uccelli, dove le dita degli arti superiori sono lunghe, hanno membrane e penne, e diventano ali, mentre quelle degli arti inferiori restano zampe.

Ma gli uccelli rappresentano un caso atipico, perché il volo è del suo un grosso successo evolutivo, tale da giustificare gli adattamenti successivi. Mentre tutti i quadrupedi hanno strutture analoghe negli arti superiori ed inferiori, probabilmente perché il grado di complessità raggiunto dal DNA è tale da non consentire una ulteriore diversificazione che possa essere funzionale sul breve periodo. Un processo evolutivo tale da produrre una diversificazione tanto drastica tra arti superiori (mani) e inferiori (zoccoli) richiederebbe tempi estremamente lunghi e situazioni di contorno molto forzate, difficili da prodursi spontaneamente. >>

MARCO PIERFRANCESCHI