sabato 28 giugno 2014

Pax Romana - 1

Le lezioni che, ancora oggi, si possono trarre dal quel grandioso fenomeno che è stato l’ascesa ed il declino dell’Impero Romani sono sempre moltissime.
Gli studiosi più attenti sanno che i grandi imperi, come tutti i sistemi sociali complessi, crollano principalmente per una crisi profonda dei propri flussi energetici; e questo è stato sicuramente vero anche per la Città Eterna.
Ma qualcuno, analizzando la parabola dell’Impero Romano in un’ottica meno convenzionale, è riuscito a trovare un collegamento – che mi pare molto interessante e curioso – tra il declino della potenza militare di Roma e l’esaurimento dei metalli preziosi.
Ce ne parla Ugo Bardi in questo lungo articolo, tratto da Effetto Risorse.
LUMEN


 
<< Quando ho sentito dire per la prima volta che l'Impero Romano è caduto a causa dell'esaurimento delle sue miniere di argento ed oro ero scettico.
In confronto alla nostra situazione, in cu affrontiamo l'esaurimento dei combustibili fossili, il caso Romano mi sembrava completamente diverso.
Oro e argento non producono energia, non producono niente di utile. Perché quindi l'Impero Romano è caduto a causa di qualcosa che potremmo chiamare “picco dell'oro”?
 
Eppure, quando ho approfondito l'argomento, ho notato quanto fosse evidente la correlazione della disponibilità in declino di oro e argento col declino dell'Impero Romano.
Abbiamo dati scarsi sulla produzione delle miniere Romane, dislocate principalmente in Spagna, ma comunemente si crede che la produzione raggiunse il picco ad un certo momento durante il primo secolo EV (o forse all'inizio del secondo secolo). In seguito, è rapidamente diminuito a quasi zero, anche se l'estrazione mineraria dell'oro non si è mai fermata completamente.
 
La perdita della produzione del prezioso metallo è riflessa nel contenuto di argento della moneta Romana. I Romani non avevano la tecnologia necessaria per stampare banconote, quindi hanno semplicemente deprezzato la loro moneta d'argento, il “denarius” aumentando il suo contenuto di rame.
Per la metà del terzo secolo, il denarius era costituito quasi da puro rame: “denaro forzoso”, se ce ne è mai stato uno. Durante quel periodo, le monete d'oro non furono deprezzate, ma scomparirono di fatto dalla circolazione. (…)
 
La scarsità progressiva dei metalli preziosi si collega bene coi vari eventi che ebbero luogo durante la fase di declino dell'impero e con la sua scomparsa finale. Naturalmente, correlazione non significa causazione ma, qui, la correlazione è così forte non si può pensare che sia solo una questione di fortuna.
Col tempo, mi è sembrato chiaro che ci fossero collegamenti chiari anche fra diversi fattori nel collasso dell'Impero.
 
In generale, i sistemi complessi tendono a crollare in maniera complessa e l'Impero Romano non cadde semplicemente a causa della mancanza della sua fonte primaria di energia che, a quel tempo, era l'agricoltura.
Energia (e potenza) sono inutili senza controllo e per i Romani controllare l'energia generata dall'agricoltura richiedeva investimenti di capitale per truppe e burocrazia. Entrambe furono colpite dal declino della produzione di metalli preziosi. Col tempo, la ridotta efficacia militare dell'impero ha distrutto la capacità di controllare il sistema agricolo. Ciò condannò l'Impero al collasso.
 
Questa è una storia enormemente complessa, (…) ma credo sia possibile esporre gli elementi principali dell'interazione fra oro, potenza militare e cibo ai tempi dei Romani in uno spazio relativamente ridotto.
In definitiva, ciò che crea e tiene insieme gli imperi è la forza militare. L'Impero Romano era così grande e di successo perché era, probabilmente, la più grande potenza militare dei tempi antichi.
 
I Romani hanno avuto tanto successo in questo non a causa di particolari innovazioni militari. La ricetta del loro successo era semplice: pagavano i loro combattenti con moneta di metallo prezioso.
La tecnologia combinata dell'estrazione dell'oro e del conio di monete aveva consentito ai Romani di creare uno dei primi eserciti regolari della storia.
Ancora oggi, chiamiamo i nostri uomini arruolati “soldati”, un termine che deriva dalla parola Romana “Solidus”, il nome della moneta d'oro del tardo impero.
 
Non solo i soldi possono creare un esercito regolare, possono anche farlo crescere fino a grandi dimensioni.
Arruolarsi nelle legioni – la spina dorsale dell'esercito – era privilegio dei cittadini Romani, ma chiunque poteva arruolarsi nelle “auxilia”, le truppe “ausiliarie”. (…)
Gli “auxilia” erano notoriamente un po' indisciplinati, (…) ma ai tempi di Traiano erano diventati una parte fondamentale dell'esercito Romano e sarebbero rimasti tali per il resto della vita dell'Impero.
 
Oro e argento erano elementi essenziali per i Romani nel pagamento delle truppe e questo era particolarmente vero per quelle straniere.  
Mettetevi nei panni di un combattente germanico. Perché dovreste mettere la vostra lancia al servizio di Roma se non perché vi pagano? E voleva essere pagati in soldi veri; le monete di rame non venivano accettate.
Si, volevano le monete d'oro e d'argento che si sapeva potevano essere riscattate ovunque in Europa e in particolare in quel gigantesco emporio di ogni sorta di beni di lusso che era la città di Roma, la più grande del mondo antico.
 
E, a proposito, da dove venivano quegli articoli di lusso? In gran parte erano importati. Seta, avorio, perle, spezie, incenso e molto altro provenivano da India e Cina.
Importare quegli articoli non era solo un hobby stravagante per l'élite Romana, era una manifestazione tangibile della potenza e della ricchezza dell'impero, qualcosa che costituiva un fattore importante nel convincere la gente ad arruolarsi nelle auxilia.

Ma i cinesi non avrebbero spedito a Roma la seta in cambio di monete di rame senza valore – volevano l'oro e lo ottennero.
Poi, quell'oro è stato perso per sempre dall'Impero che, fondamentalmente, poteva produrre solo due cose: grano e truppe, nessuna delle quali poteva essere esportata a lunghe distanze.
Questa situazione spiega il graduale declino militare dell'Impero Romano. Col declino delle miniere di metallo prezioso, divenne sempre più difficile per gli imperatori reclutare le truppe.
 
La mancanza di un forte potere centrale portò l'Impero ad essere inghiottito in guerre civili; con l'esercito principalmente impegnato a combattere pezzi di sé stesso e l'Impero che si divise in due parti: l'Oriente e l'Occidente.
Durante questa fase, il numero di truppe non era ridotto, ma la loro qualità era fortemente declinata. Dopo la riforma militare dell'Imperatore Diocleziano durante il terzo secolo DC, l'esercito Romano era formato principalmente di limitanei; non proprio un esercito ma una polizia di frontiera incapace di fermare qualsiasi tentativo serio da parte di stranieri di bucare i confini.
 
Per mantenere insieme l'Impero, gli Imperatori si affidarono ai “comitatenses” (chiamati anche con altri nomi), truppe mobili scelte che avrebbero tappato (o cercato di tappare) i buchi nel confine appena si formavano.
La combinazione di limitanei e comitatenses ha funzionato nel mantenere i barbari al di fuori dell'Impero per un po'. Ma l'emorragia di oro e argento continuava.
 
Così, durante l'ultimo decennio dell'Impero, le paradigmatiche truppe Romane erano i “bucellarii”, un termine che significa “mangiatori di gallette”. Il nome si può interpretare come se implicasse che quelle truppe combattessero in cambio di cibo. Naturalmente questo poteva non essere sempre vero, ma è una chiara indicazione della scarsità di soldi del tempo
 
Ci sono anche rapporti di truppe pagate con ceramica e in qualche caso con della terra (questa seconda pratica potrebbe essere stata un fattore nella creazione del sistema feudale che ha sostituito l'Impero Romano in Europa).
In un certo senso, i Romani erano condannati dal loro “picco dell'oro” (ed anche dal “picco dell'argento”). A causa della perdita della fornitura del loro prezioso metallo, i Romani persero la loro capacità di controllare le proprie truppe e di conseguenza le loro risorse. E la potenza è niente senza controllo.
 
Ma l'Impero Romano non cadde solo perché fu invaso da stranieri o perché si spaccò in molteplici settori. Sperimentò un collasso sistemico che non era solo un collasso militare, coinvolgeva l'intera economia e anche i sistemi sociale ed economico. >>
 
UGO BARDI
 

(continua)

sabato 21 giugno 2014

Salvo complicazioni

Il dialogo virtuale di oggi ha come controparte Paul R. Ehrlich, biologo ed ambientalista americano. Con lui parleremo dell’intreccio perverso (ma purtroppo inevitabile) che si viene a creare tra sovrappopolazione, complessità burocratica e riduzione della libertà.  LUMEN


LUMEN – Buongiorno professore. Voi affermate che la libertà civile, come la conosciamo, sarebbe incompatibile con la sovrappopolazione. Perchè ?
EHRLICH – E’ inevitabile. L’aumento della dimensione della popolazione, come motore della crescita, porta ad un inevitabile aumento del peso e della complessità del governo ed ai numeri della sua burocrazia.

LUMEN – Viene in mente Joseph Tainter ed il suo famoso libro “Il crollo delle società complesse”.
EHRLICH – In effetti, Tainter ha analizzato la varie ragioni per cui le civiltà collassato, ed attribuisce una causa primaria ai rendimenti marginali decrescenti, nello sforzo che queste società compiono per gestire la crescente complessità. Ad esempio per mobilitarsi e mantenere le difese contro aggressori esterni, per nutrire e fornire altri servizi e risorse alla popolazione crescente, o per mantenere l’ordine interno e la giustizia. Tutti questi maggiori sforzi , in presenza di crescita demografica, si rivelano sempre più inefficaci ad assicurare il supporto necessario ad una civiltà avanzata per espandersi ulteriormente.

LUMEN – Come si può descrivere il rapporto tra numero di abitanti e la complessità del governo ?
EHRLICH – Ritengo che si tratti di un rapporto non lineare, ma fortemente “a salire”, per cui al crescere della popolazione, il tempo per evitare il collasso si riduce molto rapidamente. In questi casi, il peso crescente del governo, in termini di strutture burocratiche necessarie, il suo costo, la sua invasività in tutti gli aspetti della vita dei cittadini, sono inevitabili e ben visibili sia nelle società antiche che in  quelle recenti.

LUMEN – Qualche esempio antico ?
EHRLICH - Se osserviamo come erano organizzate le società primitive di 5.000 anni fa, vediamo, dallo studio delle sistemi idraulici di irrigazione che usavano, che al crescere della popolazione crescevano le richieste e la complessità di questi sistemi idraulici che, a loro volta, richiedevano lo sviluppo di estese burocrazie per la loro gestione.

LUMEN – Per quanto riguarda l’oggi, invece, non c’è che l’imbarazzo della scelta: basta guardarsi intorno.
EHRLICH – Esatto. Le variabili dell’aumento della complessità sono molte e  per tutte si assiste ad aumento annuale delle cifre relative. Provo ad elencarne qualcuna: bilanci militari, costo del funzionamento del governo, numero dei dipendenti pubblici, gettito annuo, costo delle strutture di sicurezza sociale (polizia, pompieri, protezione civile, ecc.), numero delle agenzie governative e relativi addetti, popolazione carceraria, strutture di controllo del territorio (discariche, rifiuti, smaltimenti), strutture sanitarie, e così via.

LUMEN – Ma ci sono anche i costi impliciti, quelli derivanti dalla complicazione normativa.
EHRLICH – Anche qui, la disfunzionalità dei governi cresce di pari passo col numero della popolazione. I parametri non mancano, e sono tutti in aumento: numero di comitati governativi necessari per approvare determinati tipi di legislazione; numero di passaggi e di tempo necessario per processi, audizioni, consultazioni, conciliazioni di posizioni diverse, ecc.; numero dei procedimenti e varie tappe necessarie, tempo occorrente ecc., per l’assunzione di personale nel settore pubblico e privato; tempo e complessità delle procedure giuridiche, contenziosi, trattati, contratti; complessità degli aspetti formali richiesti (moduli fiscali, codici, regolamenti, gestione dei conflitti ecc.); numero di casi non risolti dalla giustizia ordinaria o trattati in maniera inadeguata, in presenza di alta densità demografica (in Italia abbiamo gli esempi di mafia e camorra in aree del sud con popolazione numerosa); misure di intrusione nella vita privata delle persone da parte del governo, dei suoi organi, ma anche da parte di organizzazioni sociali (sindacati, partiti, centri sociali ecc.) e di forme di pressione sociale sulla libertà individuale

LUMEN – Tra i meccanismi della complessità entrano in gioco anche i sistemi di comunicazione.
EHRLICH – Certamente. Il numero dei collegamenti in genere cresce con il quadrato del numero dei centri collegati. Se applichiamo questi principi alle città, vediamo che con l’aumento dimensionale della popolazione cresce il flusso materiale e di informazioni in maniera esponenziale, fino ad aversi una crescita della complessità sproporzionata per mantenere la stabilità del sistema e un accesso equo e crescente alle infrastrutture, oltre al dover assicurare il mantenimento del cibo, acqua, prodotti farmaceutici, servizi di sicurezza, controlli, gestione del territorio, impatti ambientali, rifiuti, smaltimenti ecc.

LUMEN – Tutti sistemi strettamente collegati alla crescita demografica.
EHRLICH -  Appunto. Con l’aggravante che non si tratta di sistemi isolati autonomi, ma che esistono inseriti in un contesto ambientale in cui gioca un ruolo essenziale il livello di risorse. E dobbiamo tener presente che siamo in un contesto generalizzato di esaurimento delle risorse.

LUMEN – Non tutte, per fortuna.
EHRLICH - Anche dove le risorse attualmente non mancano, le curve di disponibilità sono tutte in esaurimento o comunque al picco e in via di declino. Tutte queste società sovrappopolate funzionano e funzioneranno sempre più in futuro con risorse marginali e in un contesto di declino di disponibilità. Il governo, in questa situazione, deve espandersi per aumentare i controlli che assicurino la gestione equa di risorse minori, deve aumentare i regolamenti, la tassazione, aumentare i prezzi, gestire i conflitti crescenti e le situazioni di pericolo sempre più frequenti. In presenza di rendimenti marginali decrescenti il governo si deve espandere per mantenere i controlli sulla situazione sempre più precaria.

LUMEN – Quali saranno, secondo voi,  i conflitti che si accentueranno di più ? Quelli interni tra la popolazione o quelli tra le nazioni per l’accaparramento delle risorse ?
EHRLICH – Difficile dirlo; forse entrambi. Per la maggiore densità di popolazione si accentueranno le lotte per la terra, per l’uso del territorio, la localizzazione delle discariche, gli alloggi, le politiche di consiglio scolastico, la suddivisione dei profitti sempre più scarsi, la fruizione dell'acqua, dell'energia, e i conflitti chiederanno una maggiore regolamentazione e l’intervento di governo e di polizia. C’è un inevitabile aumento della disuguaglianza che si verifica quando le persone di capacità economica variabile competono per le opportunità sempre più limitate. I governi hanno così la necessità di aumentare le burocrazie per gestire gli squilibri sociali ed economici. Maggiori burocrazie e spese sono inoltre richiesti nei paesi soggetti a crescenti flussi di immigrati o di rifugiati ambientali. Si creano burocrazie apposite che gestiscono e lucrano sulle migrazioni.

LUMEN – In effetti quello dell’eccessiva immigrazione è un problema di estrema gravità.
EHRLICH - L’industria della sovrappopolazione toglie risorse all’organismo sano per alimentare la malattia demografica. Il numero dei problemi è quasi infinito e stupisce che gli studiosi non abbiamo ancora dedicato sufficiente attenzione a questi problemi, chiusi ancora nei temi e nelle analisi dei secoli scorsi sulla divisioni economiche tra imprenditori e lavoratori, colonialismo-decolonialismo, giustizia e ingiustizia ecc. tutti temi avulsi dal contesto contemporaneo perché inseriti ormai in una crisi più vasta e di fondo: quello tra gli eccessi della specie umana e il pianeta.

LUMEN – Sembra però che la politica non se ne curi molto, almeno per il momento.
EHRLICH – L’impressione è questa, ma la sovrappopolazione incide  direttamente anche a livello politico. Con l’aumentare della popolazione e l’esplodere dei conflitti i governi divengono più controversi ed inefficaci, la stabilità politica diminuisce. Inoltre, come previsto dei fondatori anti-federalisti del governo degli Stati Uniti, i rappresentanti diventano meno rappresentativi con la crescita della popolazione. Man mano che avanza il multi-culturalismo e le differenze, e aumenta il numero complessivo dei richiedenti diritti,  è sempre più difficile arrivare ad una sintesi condivisa delle politiche di governo.

LUMEN – In effetti uno Stato deve avere una propria coesione culturale per funzionare bene.
EHRLICH – Così, per assicurare la pace sociale, può diventare necessario allentare le regole della democrazia fino ad arrivare a governi autoritari. L’esperimento democratico nei paesi arabi è fallito anche per le forti dinamiche di crescita demografica che hanno portato a situazioni estreme non gestibili con metodi legalitari. Anche gli esempi dei grandi paesi sovrappopolati come Cina e India non sono molto confortanti sulla democrazia e sulla libertà delle persone. La gestione di tali numeri di popolazione non consente democrazie come quelle che esistono in Norvegia o in Svezia, paesi con numero di popolazione ancora compatibile con l’ambiente originario e le risorse locali.

LUMEN – D’altra parte, non a caso, la democrazia è nata ad Atene, che era una piccola città per li parametri di oggi.
EHRLICH - E’ tempo quindi di valutare e rendere pubblici i legami tra la dimensione della crescita della popolazione umana e la dimensione della crescita e della disfunzione delle strutture di governo necessarie per tentare di mantenere la pace, la giustizia, e il benessere per le nostre popolazioni.

LUMEN – Grazie professore. In fondo, anche per la democrazia si potrebbe dire “parva, sed apta mihi”.

(N.B - il testo base dell’intervista è tratto dal blog “Un pianeta non basta” dell’amico Agobit).

venerdì 13 giugno 2014

Il mito di Europa

Nel 2004 Jeremy Rifkin (economista e saggista americano) pubblicò un libro dal titolo molto ottimistico ed intrigante: “Il Sogno Europeo”.
Oggi, a distanza di 10 anni, che ne è di quel sogno ? Procede ancora a gonfie vele, o incomincia a mostrare qualche crepa ?
Ce ne parla il politologo Aldo Giannuli, che, dopo aver analizzato con attenzione i risultati delle ultime elezioni europee di fine maggio, prova a fare il punto della situazione (dal sito “aldogiannuli.it”).
LUMEN


.<< Volendo riassumere il senso di queste elezioni europee in poche sinteticissime battute, le riassumeremmo così:

a) - la linea dell’austerità è battuta senza possibilità di equivoco.

b) - la Germania è sola

c) - il resto dei sistemi politici dell’ex Europa occidentale subisce la più grave crisi di legittimazione dal 1945 in poi. Il che, a sua volta, si traduce in una frase ancora più semplice: qui non è europeo nessuno e l’Europa non esiste. O, se preferite: l’Europa è solo una espressione geografica (con licenza di riproduzione del principe di Metternich). (…)

Sulla carta, lo sappiamo, il blocco “europeista” (popolari, socialisti, liberali, verdi, conservatori) dispone ancora della maggioranza non solo a Strasburgo, ma anche nei rispettivi paesi. I partiti che genericamente definiamo “antisistema” (populismi euro-scettici vari e sinistre antagoniste o quasi, oltre che separatisti di vario genere) non sono in maggioranza da nessuna parte, ma raccolgono percentuali da capogiro in alcuni paesi chiave:

Inghilterra (Ukip e separatisti vari) = 31,1%
Francia (Fn, Fg, varie minori) = 31,3%
Italia (M5s, Lega, Fdi, lista Tsipras) = 34,9%
Con una mediana del 32% circa.

Assumiamo come minimo comune denominatore di questi blocchi elettorali l’opposizione alle politiche di austerità, che si traduce in una richiesta di riforma più o meno radicale della UE o in un suo scioglimento.
Ovviamente, si tratta di una sommatoria assolutamente non omogenea, e caratterizzata solo in negativo, ma si tenga presente che, sin qui, il voto di protesta, nelle fasi di “acqua alta”, si aggirava fra il 10 ed il 15% e non ha mai raggiunto il 20% in nessun paese dell’Europa occidentale (salvo il voto a Le Pen padre nelle presidenziali del 1999).

Ora siamo oltre il 30% nei tre paesi maggiori della UE, dopo la Germania. Inoltre, si tratta di un voto largamente polarizzato intorno alle tre principali formazioni (Ukip, Fn, M5s) che costituiscono veri e propri partiti di massa, quantomeno dal punto di vista elettorale e, a tutto questo, si aggiunge ad un picco inedito dell’astensionismo.

Questi partiti, pur se con accentuazioni diverse e differenti indirizzi di marcia, si configurano come diretti antagonisti (più o meno radicali) del sistema politico europeo, che è una delle colonne portanti dei rispettivi sistemi politici nazionali.
Neppure l’ondata del 1968 mise in crisi la legittimazione dei sistemi politici europei come, sta accadendo in questo momento, anche a causa della perdurante crisi.

E’ del tutto evidente che i partiti “europeisti” di governo non possono non tenere conto di una tendenza che minaccia molto seriamente di travolgerli e non è affatto detto che una alleanza di ampie convergenze, di tipo italiano, riesca a salvarli.
In Germania, il totale dei voti antisistema euro-critici (Linke, Afd, Npd e vari) raggiunge il 17,5%, cioè ben 14 punti sotto la mediana che abbiamo calcolato per Italia, Francia ed Inghilterra.

Avevamo predetto che se il differenziale dei risultati “antisistema”, fra Germania ed altri paesi UE, avesse superato il 10% il sistema sarebbe entrato in fibrillazione. La media del differenziale su tutti i paesi europei si aggira appunto intorno al 10% per di più esso si concentra nei tre paesi maggiori dell’Unione, dove i ceti di governo devono tener conto dell’urto subito.

In Italia il governo può giovarsi del successo del Pd che “assorbe” la presenza del M5s che, simmetricamente, vede la sua azione indebolita dal risultato elettorale. Però, l’Italia non può che schierarsi contro la politica di austerità perché sta soffocando (…).
L’Inghilterra è meno toccata dalla questione, non facendo parte dell’Eurozona, ma il governo conservatore ha l’urgenza di prendere il largo dalla Ue e, soprattutto, dalla Germania, se vuole avere qualche speranza (…).

Ma il risultato più critico è sicuramente quello francese, dove la vittoria della Le Pen si somma alla dèbacle socialista. Hollande è un “dead man walking”: può sperare in una ripresa, nelle elezioni politiche, ma può farlo solo prendendo di corsa le distanze dalla Merkel e dalla sua politica rigorista.
Né stanno molto meglio i governi di alcuni alleati storici della Germania, come l’Olanda dove, se pure il Pvv di Geert Wilders non è andato bene, resta il problema di una economia stagnante.

In Finlandia e Norvegia ci sono formazioni politiche nazionaliste che vedrebbero di buon occhio una uscita dall’Euro “dall’alto”, cioè per separazione dei paesi “ricchi”. In ogni caso, la Merkel ha perso il suo principale alleato – la Francia - ed anche l’appoggio di qualche alleato minore non risolverebbe il problema. Come la si rigiri, la Germania è sola. E deve fare i conti con una formazione piccola, ma influente, come Afd che tira per una uscita “dall’alto”.

Dunque, la linea dell’”austerità espansiva” (uno dei più divertenti ossimori che abbia mai sentito) è virtualmente liquidata, a meno di azioni di forza della Germania, che, però, potrebbero andare incontro a reazioni imprevedibili da parte di altri. Vedremo cosa farà domani la Bce, sollecitata dagli americani a fare una sostanziosa iniezione di liquidità ed a tenere bassi i tassi, il che, però, non può che indebolire l’Euro, prospettiva vista con orrore dai tedeschi che vedremo come reagiranno ad un corso troppo “lassista” dal loro punto di vista. Un minimo di ragionevolezza economica farebbe pensare che, in presenza di un dollaro “basso” sui mercati, occorre abbassare anche la soglia dell’Euro, per far salva la bilancia commerciale.

Ma l’opposizione dei tedeschi non è determinata da chissà quale teutonica irragionevolezza. Ci sono motivi contingenti e più di lungo periodo che li spingono su questa strada.

In primo luogo, la Germania è creditore netto in Euro ed, ovviamente, considera con sfavore la svalutazione del suo credito, soprattutto perché lo stato di salute delle sue banche è tutt’altro che florido e una svalutazione dei titoli in Euro, che hanno in pancia, potrebbe seriamente compromettere il loro asset.

Poi, la Germania, è paese importatore di materie prime, che acquista con una moneta “forte”, mentre, come paese manifatturiero, sarebbe interessata a tenere bassa la moneta, ma preferisce affidarsi al vantaggio competitivo tecnologico delle sue merci, per cui può fare a meno della manovra monetaria. Infine, i tedeschi hanno una paura patologica dell’inflazione, che gli viene dalla loro storia. E questi sono i motivi più o meno contingenti.

Poi c’è un motivo strategico di fondo: la moneta “forte” per la Germania è molto più che uno strumento di politica economica. E’ il mezzo politico, attraverso il quale essa ripropone il sua assalto al potere europeo. Nel 1871-78, nel 1914 e poi nel 1939, la Germania ha tentato il suo assalto all’Europa attraverso le armi. Duramente sconfitta nel 1918 ed ancor peggio nel 1945, la Germania divisa ha dovuto adattarsi ad un ruolo di “nano politico” per mezzo secolo, durante il quale il discorso militare non poteva neppure essere evocato, ma gli schemi geopolitici di Karl Hausofer è rimasto dormiente, ma non eliminato, nella cultura politica tedesca.

La riunificazione del 1989 ha ridestato quella concezione e la prima aperta manifestazione di ciò fu il documento elaborato, nel 1994, da Wolfang Schauble per conto della Cdu-Csu, che teorizzava apertamente il ruolo centrale della Germania – in asse con la Francia - nella costruzione europea, che vedeva tutti gli altri paesi come semplici satelliti. Una sorta di “Nuovo Ordine Europeo” (…) fondato non più sulla supremazia militare ma su quella finanziaria: l’unità europea diventava così la carta argentata nella quale Berlino avvolgeva il suo disegno egemonico.

Poi, la crisi e l’evolvere della politica internazionale hanno messo a dura prova l’asse franco tedesco finendo per dissolverlo. E la Germania è rimasta, puramente e semplicemente, la Germania di sempre.

E qui veniamo al punto che dicevamo all’inizio: qui nessuno è europeo e, pertanto, l’Europa non esiste. Una nazione non è solo un apparato statale componibile e scomponibile a piacimento e non è neppure solo una cultura ed una lingua, è, prima di ogni altra cosa, un campo magnetico di interessi sociali organizzati. E non si tratta solo delle classi dominanti, che, ovviamente, sono le più interessate alla conservazione dell’ordine esistente.

Si tratta anche delle classi medie e subalterne che vengono consociate attraverso mille strumenti (dalla struttura del salario alla particolare politica fiscale, dalla distribuzione territoriale delle risorse all’organizzazione della pubblica amministrazione, ai meccanismi di mobilità sociale ed al tipo di stato sociale).

In questo quadro ogni gruppo sociale occupa uno spazio e trova una sua convenienza. Su questa composizione di interessi riposa la stabilità della singola formazione economico-sociale di ogni paese. (…)

Fare l’Europa avrebbe dovuto significare, in primo luogo, sostituire gli equilibri sociali nazionali con nuovi equilibri continentali, dunque, realizzare convergenze dei diversi meccanismi di distribuzione delle risorse, dar luogo a contratti di lavoro europei, avvicinare i modelli amministrativi, unificare gradualmente la politica fiscale, ridurre i differenziali di trattamento pensionistico o sanitario, garantire le stesse condizioni di mobilità sociale per tutti, superando le barriere nazionali, omogeneizzare realmente i sistemi scolastici ed universitari.

Ma questo avrebbe richiesto (oltre che superare lo scoglio linguistico) anche una centralizzazione delle risorse da redistribuire, senza della quale non si sarebbe potuta realizzare quella unificazione di standard di stato sociale, realizzare contratti europei ecc. E, sulla base di queste premesse, si sarebbe potuto parlare di unificazione politica che, ovviamente, avrebbe sottratto quote di potere ai ceti politici nazionali, che, invece, hanno avuto buon gioco ad opporsi a questa espropriazione, proprio sfruttando la diversa polarizzazione degli interessi sociali di ciascun paese.

La risultante è stato questo coacervo istituzionale incoerente che è la UE: un sostanziale compromesso fra le burocrazie politiche nazionali (che mantengono il predominio nel Consiglio e nel Parlamento) e la tecnocrazia europea (che ha le sue roccaforti nella BCE ed, in parte, nella Commissione, dove però, i vertici sono nominati per accordo fra i ceti politici nazionali).

E nessuno è diventato europeo, perché tutti siamo restati francesi, tedeschi, polacchi, italiani, spagnoli, boemi…
E dunque, l’Europa è restata solo una espressione geografica. L’unificazione politica europea in queste condizioni ? Retorica, pura retorica che queste elezioni hanno dissolto. >>

ALDO GIANNULI

sabato 7 giugno 2014

Scommettiamo che ?

LUMEN – Abbiamo oggi con noi il grande pensatore francese Blaise Pascal, matematico, fisico, filosofo, teologo e chi più ne ha, più ne metta. Un nome talmente noto che non ha bisogno di presentazione.
PASCAL – Troppo gentile.

LUMEN – Per il momento.
PASCAL – Prego ?

LUMEN – Niente, niente. Dunque, monsieur Pascal, voi avete speso molto del vostro tempo a riflettere su Dio, sulla sua esistenza e sui suoi attributi.
PASCAL – “Cogito, ergo sum”.

LUMEN – Veramente, questa non è vostra, è di Cartesio.
PASCAL – Lo so, lo so. Volevo vedere se eravate preparato.

LUMEN – Oh, santo cielo.
PASCAL – “Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato”.

LUMEN – Ah, questa invece è proprio vostra. Ed è anche molto commovente.
PASCAL - Grazie.

LUMEN – Peccato che sia sbagliata.
PASCAL – Come vi permettete ?

LUMEN – Lasciamo perdere. Parlatemi piuttosto della vostra famosa scommessa.
PASCAL – Ah, quella. Ha colpito molto anche voi, vero ?

LUMEN – In un certo senso. Allora, sentiamo.
PASCAL – Dunque, se c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos'è, né se esista.

LUMEN – Una premessa ineccepibile.
PASCAL – Resta però la domanda: “Dio esiste o no ?”.

LUMEN – Ma se avete appena detto che…
PASCAL – Non mi interrompete, che poi perdo il filo.

LUMEN – Pardon. Prego continuate.
PASCAL - Da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla. 

LUMEN – Può darsi. Ma il calcolo delle probabilità, dal punto di vista della scienza, non è certo 50 e 50 come presumete voi. L’esistenza di Dio è infinitamente più improbabile della non esistenza.
PASCAL – Vi ho detto di non interrompere. Qualcuno potrebbe dire: “ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutte e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere punto”.

LUMEN – Io, nel mio piccolo, non scommetto mai.
PASCAL - Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. 

LUMEN – Forse perché, come diceva il buon Dario Bernazza, l’esistenza di Dio è “il problema dei problemi” ? 
PASCAL – Esattamente. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l'errore e l'infelicità. 

LUMEN – Non ho capito.
PASCAL – Peggio per voi.

LUMEN - Allora continuate pure.
PASCAL - La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. 

LUMEN – Questo lo dite voi !
PASCAL – Certo che lo dico io. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste.

LUMEN – Posso anche ammettere che bisogna scommettere, ma il rischio di perdere c’è in entrambi i casi, non in uno solo.
PASCAL - Vediamo. Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di beatitudine. 

LUMEN – Veramente ci sarebbe anche l’inferno, per chi crede in dio.
PASCAL – L’inferno ?
 
LUMEN – Certo, in fondo siamo tutti peccatori. E per un peccatore è più facile finire all’inferno che in paradiso, non trovate ?
PASCAL – Diable ! Non ci avevo pensato !
 
LUMEN – Ecco, allora pensateci su con calma, e poi ne riparleremo. Au revoir, monsieur Pascal.