giovedì 28 luglio 2016

Il Fiore del deserto - 2

LA GINESTRA o il Fiore del Deserto 
di Giacomo Leopardi


(seconda parte)

Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.

Spesso in questi luoghi desolati alle pendici del vulcano, che la lava indurita ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde del mare, trascorro la notte; e sulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, alle quali da lontano il mare fa da specchio, e vedo tutto intorno, nella cavità serena, immensa, del cielo, brillare di scintille il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo?

E quando fisso quelle luci, che agli occhi sembrano un punto, mentre sono tanto grandi che un punto, rispetto a loro, sono in realtà la terra e il mare; alle quali luci non solo l’uomo, ma anche questo pianeta, dove l’uomo è nulla, è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa, che a noi pare quasi nebbia, alla quale non solo l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel numero e nella grandezza, compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa; al pensiero mio cosa sembri allora tu, genere umano ?

E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.

Ed io, ricordando la tua condizione miserevole, di cui è testimonianza il suolo che calpesto; e poi, dall'altra parte, ricordando che ti credi di essere stata destinata ad essere dominatrice e fine ultimo dell’universo; e ricordando quante volte ti piacque raccontare che in questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra, scendevano per causa tua gli dei, creatori dell’universo, e conversavano spesso, per diletto, insieme agli uomini; e ricordando che perfino il secolo attuale, che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, reca insulto agli uomini saggi rinnovando sogni ormai ridicoli; quale sentimento o quale pensiero, infelice umanità, assale alla fine il mio cuore?
Non so se prevale il riso oppure la pietà.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Come un piccolo frutto, in autunno inoltrato, la sola maturazione, senza il concorso di altre forze, fa precipitare a terra, e, cadendo, schiaccia, annienta e sommerge in un attimo i nidi scavati nel molle terreno dalle formiche con grande fatica e lavoro, e le provviste che quel popolo laborioso aveva accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; così, allo stesso modo, la tenebra ed una valanga di ceneri, di rocce laviche e di pietre, miste a ruscelli di lava, piombando dall’alto, dopo esser stata scagliata verso il cielo dalle viscere fragorose del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, e di metalli e di sabbia infuocata, scendendo furiosa tra l'erba lungo il pendio della montagna, sconvolse, distrusse e ricoprì in pochi istanti le città, che il mare lambiva là sulla costa: per cui su quelle città ora pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte, sopra quelle sepolte e l’alto monte quasi calpesta con il suo piede le mura cadute.

Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

La natura non nutre più attenzione, né maggiore considerazione per la specie umana che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno numerosa.

Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli.

Ben milleottocento anni passarono dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose, e il contadino, intento alla cura dei vigneti, che a stento in questi campi la terra arida e bruciata fa crescere, ancora alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano, che per nulla divenuta più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia strage a lui ed ai figli e ai loro miseri averi.

E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
su l'arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.

E spesso il meschino, trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione, e sobbalzando più volte per la paura, scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico, che si riversa dalle viscere inesauribili del vulcano sul pendio sabbioso, al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.

E se vede avvicinarsi la colata, o se sente gorgogliare nella profondità del pozzo di casa l’acqua che ribolle, subito sveglia i figli e la moglie e fugge via, portando con sé quante più cose può, e vede da lontano la sua abitazione di sempre, e il piccolo campo, che fu l’unica difesa dalla fame, preda della lava che avanza crepitando, e che inesorabile, per sempre, si distende sul campo e sulla casa.

Torna al celeste raggio
dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.

Dopo un oblio di secoli, torna alla luce del sole l’estinta Pompei, come uno scheletro, che il desiderio di tesori o la pietà restituisce all'aria aperta, togliendolo dalla terra; e dal foro deserto degli scavi, il visitatore, in piedi tra le file delle colonne spezzate, contempla da lontano la doppia cima del vulcano il pennacchio di fumo che ancora minaccia le rovine sparse intorno.

E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

E nell’orrore della notte che cela ogni cosa, per i teatri vuoti, per i templi deturpati e per le case distrutte, dove il pipistrello nasconde i piccoli, come una fiaccola sinistra che lugubre si aggiri per i palazzi spopolati, corre il bagliore della lava mortale, che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno.

Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star.
Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

Così, indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni dagli avi ai nipoti, la natura si mantiene sempre giovane e vigorosa, ed anzi il suo cammino è così lungo ch'ella sembra star ferma.
Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue diverse: ella non se ne avvede, e nonostante questo l'uomo si vuole arrogare il vanto di essere eterno.

E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste.

E tu, flessuosa ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate, anche tu presto soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava tornando al luogo già altra volta visitato stenderà il suo mantello avido di morte sulle tenere selve di ginestre.

E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.

E, senza opporre resistenza, piegherai il tuo capo innocente sotto il peso della lava: ma senza averlo piegato prima inutilmente dinnanzi all'oppressore futuro, ma neanche levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove sei nata ed hai dimora non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma lo farai ben più saggia, tanto meno insensata dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che le tue stirpi, per merito tuo o del destino, siano diventate immortali.

mercoledì 27 luglio 2016

Il Fiore del deserto - 1

LA GINESTRA o il Fiore del Deserto
di Giacomo Leopardi


Qui su l'arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti.
 

Qui sulla pendice riarsa del tremendo e distruttore monte Vesuvio, che nessun altro arbusto o fiore allieta, tu odorosa ginestra spargi i tuoi cespugli solitari intorno, appagata dai luoghi deserti.
 

Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de' mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
 

Già ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli le solitarie contrade che circondano la città di Roma, la quale fu un tempo dominatrice di popoli, e sembra che con il loro cupo e silenzioso aspetto, testimonino e ricordino al viandante il grande impero perduto.
 

Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante,
e d'afflitte fortune ognor compagna.
 

Ora ti rivedo in questo suolo, tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal mondo, e sempre compagna di grandezze decadute.
 

Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme.
 

Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava impietrita, che risuona sotto i passi del viandante; dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio; furono città opulente e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, soggiorno gradito all'ozio dei potenti; e furono città famose che il vulcano indomabile, eruttando torrenti di lava dalla sua bocca di fuoco distrusse insieme con i loro abitanti.
 

Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola.
 

Ora invece una sola rovina avvolge tutto quanto, là dove tu dimori, o fiore gentile e, quasi compiangendo le altrui miserie, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione.
 

A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all'amante natura.
 

Venga in questi luoghi colui che suole esaltare con enfasi la nostra umana condizione e guardi quanto la natura amorevole si curi del genere umano.
 

E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell'umana gente
le magnifiche sorti e progressive.
 

E qui potrà anche giudicare esattamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento, e può con scosse un po’ meno lievi annientare del tutto all'improvviso. In questi luoghi sono raffigurate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità.
 

Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
 

Qui guarda ed ammira rispecchiato te stesso, secolo superbo e stolto, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora, prima di te, dal pensiero risorto con il Rinascimento e, tornato indietro, per di più ti vanti del procedere a ritroso e lo chiami progresso.
 

Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch'a ludibrio talora
t'abbian fra sé.
 

Tutti gli uomini d'ingegno, di cui la sorte malvagia ti rese padre e queste tue manifestazioni di infantile insensatezza, vanno applaudendo la tua follia, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano.
 

Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch'io sappia che obblio
preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
 

Ma a me non accadrà di lasciare questa vita macchiato di una simile vergogna, ed avrò prima mostrato nel modo più esplicito il disprezzo che è chiuso nel mio animo verso di te, benché io sappia che chi non piacque al proprio secolo è destinato alla dimenticanza.
Di questo male dell’oblio, che condivido con te, fin da ora non mi importa nulla.
 

Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell'aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè.
 

Sogni la libertà e nel contempo vuoi servo il pensiero, in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto è cresciuta la civiltà, che sola guida i destini dei popoli verso il progresso. Al punto che ti spiacque la verità relativa alla sorte dolorosa e alla condizione miserevole che la natura ci ha dato.
 

Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume 

che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
 

Per questo volgesti le spalle al pensiero illuminato che lo rivelò e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine e magnanimo colui che esalta fino alle stelle la condizione umana, illudendo se stesso o gli altri, e mostrandosi così o astuto o folle.
 

Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto, 

non chiama sé né stima
ricco d'or né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
 

Un uomo di umile condizione ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma si lascia vedere, senza vergognarsene, debole e povero, e si dichiara tale apertamente e mostra la sua condizione secondo la realtà.
 

Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest'orbe, promettendo in terra
a popoli che un'onda
di mar commosso, un fiato
d'aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì, che avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
 

Non credo che sia un essere nobile, ma stolto colui che, nato per morire, cresciuto in mezzo ai dolori, dice: sono stato fatto per essere felice e stende scritti pieni di orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e nuove felicità, quali persino il cielo intero ignora, a popoli che un maremoto, una pestilenza o un terremoto può distruggere in un modo tale, che a stento rimane il ricordo di essi.
 

Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
 

Nobile creatura è invece quella che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano e apertamente, senza togliere nulla al vero, ammette il male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante e fragile condizione; quella che si rivela grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l'uomo del suo dolore, ma dà la colpa alla natura, che ne è davvero responsabile, che è madre dei mortali perché li ha generati, ma ne è matrigna nel comportamento. 

Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
 

Chiama questa nemica, e pensando che contro costei sia unita, come realmente è, ed ordinata fin dalla sua prima origine, la società umana, ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettandolo nei pericoli che minacciano or gli uni or gli altri, e nelle sofferenze della lotta che li accomuna.
 

Ed alle offese
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti,
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici, 

e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
 

Ed armarsi e porre insidie e ostacoli per contrastare un altro uomo, pensa che sia cosa stolta, così come sarebbe sciocco in un campo di battaglia circondato da nemici, nel più aspro infuriare degli assalti, dimenticandosi dei nemici, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni e fare stragi con la spada tra i propri soldati.
 

Così fatti pensieri
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contra l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo
così star suole in piede quale star può quel
ch'ha in error la sede.
 

Quando siffatte considerazioni saranno, come furono un tempo, evidenti al popolo, e quel terrore che per primo spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro la natura malvagia sarà ricondotto a una vera sapienza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine, la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento, che non le fantasie piene di presunzione e prive di consistenza; basandosi sulle quali la probità del popolo sta in piedi malamente, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore.
 

(segue)

mercoledì 20 luglio 2016

Estrazioni del Lotto

L’estrazione a sorte delle cariche di governo (in particolare nelle democrazie) può sembrare una barzelletta. Ed invece è stata spesso una scelta storica ben precisa, più utile ed efficiente di quanto non si creda. Un post di Jacopo Simonetta, da Effetto Risorse. Lumen


<< Nella Repubblica Ateniese, gli ingredienti con cui confezionare la dirigenza erano sostanzialmente 4: ereditarietà, partecipazione, sorteggio e voto. Coloro che avevano i diritti politici erano solo i discendenti diretti di cittadini ateniesi residenti in città, maschi adulti liberi, proprietari di immobili, in regola con le tasse e che avessero completato l’addestramento militare. In pratica circa il 10% della popolazione.

Costoro si conoscevano almeno di vista e passavano parecchio tempo a discutere fra di loro e non solo dei giochi olimpici. Dunque era gente che partecipava quotidianamente alla vita politica della città, con un controllo sociale incrociato molto stretto e soggetta ad una fiera e frequente selezione. Erano infatti loro a costituire la prima linea di battaglia nelle guerre che decidevano di fare. Come erano loro che pagavano per intero le tasse che decidevano di imporre.

Tutti insieme costituivano l’Ekklesia, vale a dire l’assemblea che aveva sostanzialmente la funzione di votare le leggi proposte da altri cittadini, di eleggere i comandanti militari ed un centinaio di funzionari, e di votare le dichiarazioni di guerra ed i trattati internazionali. In questo gioco, evidentemente, contavano moltissimo il prestigio personale e familiare, la ricchezza e la capacità oratoria. Si formavano quindi dei “partiti” che non si riferivano a differenti ideologie, bensì alle famiglie principali.

Proprio per limitare questo fenomeno, quasi tutti i magistrati ed i funzionari (circa un migliaio) erano designati per sorteggio e turnati rapidamente. Su questo elemento vorrei attirare l’attenzione, perché, forse, fu l’invenzione chiave del funzionamento delle repubbliche urbane della Grecia classica e di moltissime altre forme di governo nella storia europea.

Facciamo un salto di un migliaio di anni diamo un occhiata al funzionamento delle istituzioni feudali. Non propriamente un esempio di democrazia, eppure vi troviamo gli stessi ingredienti visti ad Atene, sia pure confezionati in diverso modo. Tanto per cominciare, il monarca veniva eletto dall'assemblea dei nobili e dei vescovi, la quale poteva anche, in casi estremi, revocare la designazione.

Di solito il nuovo re era uno dei figli del precedente monarca, ma non necessariamente e, comunque, neppure l’Imperatore poteva diventare tale se non veniva designato da un parlamento, cui doveva poi rendere conto delle decisioni principali, specialmente in materia di tasse, politica estera e guerra. In epoca merovingia i nobili laici erano nominati dal re, mentre i vescovi erano eletti dalle assemblee cittadine (tutti gli adulti: uomini e donne). (…) Successivamente e gradualmente, i feudi divennero prevalentemente ereditari, mentre la nomina dei vescovi passò al papato e/o a re ed imperatori. (…)

Viceversa, sugli affari quotidiani della gente comune, la chiave di volta del sistema era il “costume”. Vale a dire la tradizione, così come ricordata dagli anziani e dai "prudent’uomini" che erano dei notabili, ma mai dei nobili. Perlopiù contadini ed artigiani particolarmente stimati. Qualunque questione rilevante si discuteva in un tribunale, che in città era presieduto da un funzionario del re o del vescovo, mentre in campagna dal signorotto locale. Ma la decisione era presa da una giuria di persone scelte per sorteggio. (…)

Non tutti gli stati medievali erano monarchie. Vi furono anche diverse repubbliche, (…) [come, ad esempio,] la Repubblica di Venezia. Anche questa retta su di una complicata combinazione di partecipazione, ereditarietà, elezioni e sorteggio. Aveva una sua logica e, infatti, funzionò bene molto a lungo.

L’ereditarietà aveva la funzione di fornire persone preparate e conosciute, non ricattabili in quanto non potevano essere private del loro privilegi. La partecipazione di un numero consistente di persone garantiva la più ampia visione possibile dei problemi. L’elezione consentiva di selezionare le persone più stimate per i differenti ruoli. Il sorteggio serviva, come sempre, a spezzare gli inciuci, le camarille e le “lobby” che, allora come oggi, costantemente insidiavano il buon funzionamento degli organismi statali.

Con un altro salto giungiamo nel XVIII secolo. (…) Profittando dell’utopia illuminista del “dispotismo illuminato” gli stati principali sono diventati delle monarchie assolute. Con la parziale eccezione dell’Inghilterra che più degli altri aveva conservato la tradizione medioevale. Eppure proprio in Inghilterra scoppiò la prima e più importante rivoluzione della storia moderna: la Rivoluzione Americana.

Una pietra miliare non solo perché ne nacque lo stato più potente della storia (per ora), ma anche perché ne nacque l’identificazione fra democrazia ed elezioni che oggi diamo per scontata. Dei quattro ingredienti base degli ordinamenti precedenti: partecipazione, ereditarietà, elezione e sorteggio, la costituzione americana ne conservò uno solo: l’elezione. Il sorteggio rimase, ma solo per le giurie dei tribunali e con un ruolo molto ridotto rispetto al passato. Tutte le cariche pubbliche, a partire dallo sceriffo, furono assegnate per elezione, tranne quelle che divennero appannaggio del governo, a sua volta nominato mediante votazione.

Una scelta fatta sostanzialmente per due ragioni. La prima furono le distanze enormi e le difficoltà di comunicazione. Gli ordinamenti europei erano relativi a comunità in cui le persone si conoscevano almeno di vista e, comunque, potevano comunicare fra loro. Una cosa che in America era molto difficile, al netto di alcune città principali.

La seconda fu che i padri fondatori non avevano nessuna fiducia nella capacità di autogoverno delle plebe raccogliticcia che stava popolando il continente. (…) Un sistema esclusivamente elettorale, si pensò, avrebbe necessariamente favorito le poche persone capaci di raggiungere una certa notorietà in ambiti sufficientemente vasti. Quindi persone presumibilmente capaci e motivate, sostenute da famiglie importanti o da gruppi consistenti di cittadini.

Fu proprio in questo periodo che il Visconte Alexis de Tocqueville visitò gli Stati Uniti per studiare questo strano fenomeno politico, (…) e con acume individuò il pericolo che avrebbe potuto portare al disastro un sistema siffatto. Tocqueville lo chiamò “la dittatura della maggioranza”.

In un sistema esclusivamente elettivo, disse, il rischio maggiore era rappresentato dal fatto che si potesse catalizzare un blocco di opinione pubblica abbastanza coeso ed esteso da marginalizzare qualunque opposizione. In una tale situazione, le libertà civili sarebbero venute meno e il rischio di decisioni dissennate alto. Un pericolo che avrebbe dovuto essere contrastato dalla libertà di stampa, ma il nostro era abbastanza smaliziato da aver capito che l'alfabetizzazione di massa e la diffusione dei giornali potevano anche essere usati per costruire una tale dittatura.

Molto di più egli contava quindi sul più antico dei quattro elementi base: la partecipazione. Cioè, ai suoi tempi, sulla rete ufficiosa di comitati locali ed associazioni mediante cui i cittadini si auto-organizzavano per far fronte alle difficoltà. Questo tessuto non istituzionale sosteneva [la società]: aveva infatti il compito di mantenere viva la coscienza collettiva ed alta la guardia contro le derive autoritarie ad ogni livello.

Circa un secolo più tardi la repubblica americana servì da esempio per la democratizzazione degli stati europei, con risultati finora tutto sommato positivi. In effetti, è un fatto che le democrazie hanno assicurato ai loro cittadini una vita migliore e maggiori livelli di libertà rispetto agli altri paesi. E, nel frattempo, hanno vinto sia contro le dittature di matrice nazi-fasciste, sia contro le oligarchie comuniste.

Ma quando si è trattato di affrontare pericoli provenienti dalla propria struttura sociale ed economica, questi sistemi si sono dimostrati del tutto incapaci sia di prevenire, sia di reagire al pericolo. Con una classe dirigente composta da professionisti dell’intrallazzo e della propaganda; ed una popolazione atomizzata in individui che lottano disperatamente per sé stessi, sognando un impossibile ritorno della prosperità, non ci sono segni di luce in fondo al tunnel.

La dittatura della maggioranza alla fine si è verificata. (…) [Oggi] abbiamo due strumenti per cercare di contrastare il fenomeno: sviluppare la democrazia di base ed il ripristino del sorteggio per l’assegnazione di molti ruoli. Purtroppo, il tentativo di reintrodurre elementi di democrazia diretta si scontra con la capacità dei poteri elettivi e delle lobby economiche di manipolare e/o vanificare questi processi.

Il sorteggio non viene neppure preso in considerazione, mentre potrebbe essere proprio il grimaldello per spezzare i meccanismi perversi e ridare senso anche alle elezioni. L'ereditarietà oggi suona anacronistica perché era basata su di una tradizione completamente perduta, ma nomine a vita di persone particolarmente capaci, lungi dall'essere poco democratiche, potrebbero mettere in circolazione persone non ricattabili e non interessate al prossimo turno elettorale.

Ovviamente, non esiste nessuna garanzia che una riforma radicale degli ordinamenti funzionerebbe. Tanto più che dovrebbe essere fatta dalle stesse persone ed organizzazioni che sarebbe necessario scaricare. Dunque non accadrà. Ma intanto ci sono gruppi di persone che cercano di organizzarsi fra di loro.

A costoro vorrei semplicemente ricordare che, da quando esistono e finché sono esistite, la maggior parte delle forme di governo non autocratiche sono state basate su diverse combinazioni di quattro ingredienti: partecipazione, ereditarietà, votazione e sorteggio. (…) E credo che sarà così anche in futuro. > >

JACOPO SIMONETTA

mercoledì 13 luglio 2016

Populorum progressio

LUMEN – Abbiamo oggi con noi un religioso, ma un religioso molto speciale: il reverendo Thomas Robert Malthus, con il quale parleremo della sua opera più famosa, ovvero il “Saggio sul principio della popolazione”.
MALTHUS - Sarà un piacere. E’ un libro a cui sono molto affezionato.

LUMEN – E che, in effetti, vi ha dato grande notorietà. Allora, reverendo, da quale idea siete partito ?
MALTHUS - In una indagine sui futuri progressi della società, il modo naturale di condursi è quello d’investigare in primo luogo le cause che hanno finora impedito i progressi del genere umano verso il suo benessere ed, in secondo luogo, le probabilità di rimuovere, in tutto o in parte, queste cause.

LUMEN – Temo che le cause siano parecchie.
MALTHUS – In effetti, entrare pienamente nel primo esame, ed enumerare tutte le cause che hanno finora ostacolato i progressi umani, sarebbe cosa superiore alle forze di un solo uomo.

LUMEN – Quindi ?
MALTHUS – Quindi lo scopo principale del mio saggio è stato di esaminare gli effetti di una sola gran causa, intimamente legata alla natura dell’uomo, la quale, quantunque abbia costantemente ed energicamente operato fin dalle origini sociali, pure ha attirato poco l’attenzione degli autori che si sono occupati di questa materia.

LUMEN – E quale sarebbe questa causa ?
MALTHUS - La causa a cui alludo è la costante tendenza, che hanno tutti gli esseri viventi a moltiplicarsi più di quanto permettano i mezzi di sussistenza di cui possano disporre.

LUMEN – Molto giusto.
MALTHUS - Nel regno animale e vegetale, la natura ha profuso i germi della vita, ma è stata comparativamente avara dello spazio e degli alimenti necessari al loro moltiplicarsi. I germi esistenti in un piccolo angolo di terra, se avessero con loro abbondanza di cibo e di spazio, nel corso di poche migliaia d’anni avrebbero occupato milioni di mondi. La necessità, legge universale e prepotente in natura, li reprime entro i limiti prescritti. Le piante e gli animali son costretti a piegarsi sotto l’impero di questa legge; e la razza umana, qualunque sforzo facesse, sarebbe sempre, come ogni altra, costretta ad ubbidirle.

LUMEN – Le leggi della natura valgono per tutti.
MALTHUS - Per le piante e per gli animali, la cosa procede in modo ben semplice. Sono tutti portati da un poderoso istinto a moltiplicare la loro specie; istinto che non viene frenato da alcun ragionamento o dubbio sul modo di provvedere all’esistenza delle loro generazioni. Perciò spiegano la loro forza di procreazione dovunque possono, e tutto il sovrappiù viene eliminato in un secondo momento per mancanza di spazio e di viveri; e fra gli animali, inoltre, per la voracità che li fa preda gli uni degli altri.

LUMEN – Per l’uomo, invece ?
MALTHUS - Nell’uomo, gli effetti di questa legge sono molto più complicati. Mosso dal medesimo istinto di procreazione, la ragione lo arresta, e gli propone il quesito se gli sia lecito far sorgere esseri nuovi nel mondo, per i quali egli non possa provvedere sufficienti mezzi di sussistenza. Se egli cede a questo ragionevole dubbio, il suo astenersi si converte spesso in causa di vizi. Se non vi bada, la razza umana si vedrà di continuo tendente ad accrescersi al di là dei suoi mezzi di sussistenza.

LUMEN – Un bel dilemma.
MALTHUS - Ma siccome, per quella legge della nostra natura che fa dipendere la vita dal cibo, la popolazione non può moltiplicarsi più di quanto permetta il più limitato nutrimento capace di sostenerla, così s’incontra sempre un forte ostacolo al suo incremento nella difficoltà di nutrirsi; difficoltà che di tanto in tanto deve necessariamente apparire, e deve risentirsi nella maggior parte del genere umano, sotto l’una o l’altra fra le varie forme della miseria, o della paura della miseria.

LUMEN – Si possono fare delle previsioni statistiche, anche approssimative ?
MALTHUS - Si può, con tutta franchezza, asserire che la popolazione, quando non è arrestata da alcun ostacolo, si raddoppia ad ogni periodo di 25 anni, crescendo così in progressione geometrica. La “ragione” secondo cui si possa credere che aumentino le produzioni della terra non è altrettanto agevole a determinarsi. D’una cosa, tuttavia, siamo ben certi, che questa “ragione” dev’essere affatto diversa da quella secondo cui procede l’aumento della popolazione

LUMEN – Voi usate qui il termine “ragione” per indicare il tasso percentuale.
MALTHUS – Esattamente. Se guardiamo ai miei tempi, ovvero verso la fine del ‘700, l’Europa non è di certo popolata quanto potrebbe.

LUMEN – Se vedeste oggi, invece… Ma continuate, vi prego.
MALTHUS - Ed è in Europa – sempre parlando di allora - che esistono le migliori speranze di vedere ben diretta l’industria. Quanto alla scienza agraria, essa è molto studiata nell’Inghilterra e nella Scozia; e nondimeno vi sono ancora molte terre incolte. Esaminiamo con quale progressione il prodotto di quest’isola potrebbe accrescersi sotto le più propizie circostanze.

LUMEN – Proviamo.
MALTHUS - Se supponiamo che, con il miglior governo e i migliori incoraggiamenti all’agricoltura, il prodotto medio dell’isola si raddoppi nei primi 25 anni, faremo la più generosa ipotesi che si possa. Nel periodo seguente, è impossibile immaginare che il prodotto si troverà quadruplicato. Ciò sarebbe in opposizione con quanto conosciamo sulle attitudini produttive del suolo. Il miglioramento delle terre sterili è opera che richiede tempo e lavoro; ed è evidente per chiunque abbia le minime nozioni agricole che, quanto più la coltivazione si estende, tanto più diminuisce l’aumento possibile del prodotto.

LUMEN – Pare ovvio anche a me, che pure sono un profano.
MALTHUS - Immaginiamo che l’incremento annuo di prodotto, invece di decrescere, come certo fa, rimanga sempre costante; e la produzione dell’isola si accresca, ad ogni periodo di 25 anni, di una quantità eguale a quella del prodotto attuale: il più esagerato speculatore non potrebbe immaginare di più. In pochi secoli, ogni palmo di terreno in questo paese sarebbe divenuto un giardino. Se la medesima ipotesi si applicasse a tutta la terra, e se si ammettesse che la sussistenza agli uomini fornita dalla terra si potesse aumentare ad ogni 25 anni di tanto quanto se ne produce oggi, ciò sarebbe un supporre una progressione molto superiore a quanto sia dato sperare da qualsiasi sforzo dell’industria umana.

LUMEN – Sicuramente.
MALTHUS - Perciò possiamo dire che, considerando lo stato presente della terra, i mezzi di sussistenza, nelle circostanze più favorevoli all’industria umana, non potrebbero crescere che in proporzione aritmetica.

LUMEN – Cosa ben diversa da una progressione geometrica.
MALTHUS – Appunto. La conseguenza inevitabile di codeste differenti progressioni è palpabile. Posto che la popolazione attuale ascenda a 1.000 milioni, la razza umana crescerebbe secondo i numeri 1, 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, e i viveri secondo i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9. In due secoli la popolazione si troverebbe, rispetto ai viveri, come 256 a 9; in tre secoli, come 4.096 a 13; in duemila anni la differenza sarebbe quasi impossibile a calcolarsi.

LUMEN – Beh, i numeri ed i rapporti, per fortuna, non stanno proprio così, ma si tratta comunque di una prospettiva spaventosa.
MALTHUS – Notate che in questa ipotesi non si suppone alcun ostacolo all’incremento dei prodotti della terra. Possono sempre aumentarsi indefinitamente; e, tuttavia, la forza generativa supera talmente la produzione dei viveri che, per mantenerla ad uno stesso livello in modo che la popolazione esistente trovi sempre gli alimenti indispensabili, è necessario che ad ogni momento una legge superiore formi ostacolo ai progressi della popolazione, che la dura necessità la soggioghi.

LUMEN – Legge superiore che dovrà provenire dalla natura, con tutta la sua brutalità, visto che i nostri governanti non sembrano preoccuparsi molto di questi problemi.
MALTHUS – Appunto.

LUMEN - Grazie reverendo, per le vostre interessanti considerazioni.
MALTHUS – Interessanti forse, ma di certo inascoltate.

LUMEN – Che ci volete fare ? E’ la sorte di tutte le Cassandre, di tutti i tempi e di tutti i paesi.

mercoledì 6 luglio 2016

Catene in paradiso

La triste pratica della schiavitù è, probabilmente, antica quanto l’uomo.
Adesso facciamo i delicati ed inorridiamo (giustamente) di fronte a certe notizie, ma le civiltà del passato non avevano altra forza motrice che quella muscolare, per cui, a fianco degli animali da lavoro, non potevano permettersi il lusso di rinunciare all’attività degli schiavi.
Ma Dio e la religione giudaico-cristiana da che parte stavano ? Dalla parte dei poveri schiavi, miseri e maltrattati, o a difesa dei costumi dell’epoca ?Basta conoscere la Bibbia ed un po’ di storia della Chiesa, per non avere molti dubbi al riguardo:
Quelle che seguono sono alcune considerazioni dello scrittore Walter Peruzzi sul difficile e controverso rapporto tra Chiesa Cattolica e schiavitù (dal sito Civiltà Laica). Segue breve poscritto con alcune citazioni.
LUMEN


<< Secondo un luogo comune molto diffuso, il cristianesimo avrebbe “abolito” la schiavitù. A riprova si cita Paolo «Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Lettera ai Galati). In realtà Paolo afferma sì l’uguaglianza, ma solo su un piano spirituale, davanti a Dio e nell’altra vita.

Ed ancora nel 1888 Leone XIII nell’ “In plurimis” ripeteva: «Non si attribuiranno mai abbastanza elogi né si sarà mai abbastanza grati alla Chiesa cattolica, che per somma grazia di Cristo Redentore abolì la schiavitù, introdusse tra gli uomini la vera libertà, la fratellanza, l’uguaglianza, e perciò si rese benemerita della prosperità dei popoli». Ma ciò è contraddetto dalla storia.

La schiavitù dall’Antico al Nuovo Testamento

Già nei testi che, secondo la Chiesa, sono ispirati da Dio, si legittima la schiavitù. Il Decalogo ordina di «non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino» con ciò riconoscendole “proprietà” legittime e anzi da rispettare. La Bibbia vietava agli ebrei di avere schiavi ebrei, ma consentiva loro di fare schiavi i pagani.

Paolo nella Lettera agli Efesini dice «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo» e nella Prima lettera a Timoteo: «Quelli poi che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio». E in effetti i nobili romani, benché convertiti, continuarono ad avere schiavi.

Nel Medioevo cristiano

Nel Medioevo cristiano la pratica della schiavitù era prevista e codificata. Nel V secolo Agostino afferma che Cristo «non ha preso i servi e ne ha fatto dei liberi, ma ha preso dei servi cattivi e ne ha fatto dei buoni». E aggiunge con involontario umorismo: «Quale debito hanno i ricchi verso Cristo, per il modo come ha loro sistemato la casa !» (Esposizione sui salmi).

Agostino sostiene poi, come ripeteranno Tommaso d’Aquino e Leone XIII, che «a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo» come castigo del peccato. Le Istituzioni (VI sec.) del cattolicissimo imperatore Giustiniano stabilivano «che i padroni abbiano diritto di vita e di morte sugli schiavi» e vari concili locali vietavano a vescovi e frati di vendere «case, schiavi e gli arnesi» della Chiesa.

Il concilio di Toledo del VII sec. decretava: «chi dal vescovo, giù giù fino al suddiacono, abbia generato dei figli da nozze esecrande, sia con una donna libera sia con una schiava, dev’essere punito secondo la legge canonica; i figli generati da tale incesto devono appartenere per sempre come schiavi alla Chiesa». I frati della Casa della Santa Trinità (XII secolo) avevano come regola di riscattare i cristiani fatti schiavi da pagani dando in cambio denaro o schiavi pagani di loro proprietà.

I papi e il commercio di schiavi

I papi, pur episodicamente vietando di trarre in schiavitù questa o quella categoria (i cristiani, gli indi, i catecumeni ecc.), non condannarono la schiavitù in generale, anzi la giustificarono e la ordinarono.

Qualche esempio: il canone 27 del Concilio Lateranense III (1179) autorizza a ridurre in schiavitù le bande anticristiane della Brabanza, Aragona e Navarra; Niccolò V “concede” al re del Portogallo di «ricercare, catturare, conquistare e soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo (…) e di gettarli in schiavitù perpetua» (Romanus pontifex, 1454). Paolo III mente intima agli spagnoli di non trarre in schiavitù gli indii, autorizza le ricche famiglie romane a servirsi di schiavi (1549).

Il traffico di schiavi fu poi pratica costante dello Stato della Chiesa in età moderna, come attestano il fitto scambio epistolare di vari papi con funzionari vaticani per la compra-vendita di esseri umani, soprattutto turchi: a titolo di esempio citiamo la lettera con cui Innocenzo X informa nel 1645 mons. Raggi di aver ordinato «al Principe Nicolò Ludovisio generale delle nostre galere che le provegga di 100 schiavi Turchi». E ancora nel 1794 tal Colelli ricopriva la carica di «intendente pontificio per gli schiavi».

Finalmente, la Chiesa “condanna”

Solo nel 1839, con l’enciclica In supremo, Gregorio XVI condannò come “delitto” la schiavitù in quanto tale, ormai bandita dai maggiori paesi europei. E tuttavia pochi anni dopo un’Istruzione del Santo Ufficio approvata da Pio IX, dichiarava “Non contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato” (1866). La condanna di ogni forma di schiavitù fu invece ripetuta dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 1965).

In conclusione la Chiesa non ha abolito fin da principio la schiavitù anzi l’ha praticata per secoli, ha giustificato la sua conservazione e ha speso la sua influenza per perpetuarla. E quando si è decisa a condannarla non ha ammesso di aver predicato l’errore per quasi due millenni. Né potrebbe, senza doversi riconoscere umanamente fallibile anziché divinamente ispirata.

Una spia di tale contraddizione, e del tentativo di tenere insieme, occultandole sotto una apparenza di “continuità”, dottrine contrastanti fra loro, può vedersi anche nel Catechismo attuale (1992) che riporta a fronte il decimo comandamento odierno, molto sobrio («Non desiderare la roba d’altri») e il testo assai più inquietante, anche per l’attuale asserita parità uomo-donna, del decalogo biblico da cui deriva: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». >>

WALTER PERUZZI


POSCRITTO
E per concludere, alcune citazioni – fra le tante – tratte dal Vecchio e Nuovo Testamento:

Dal Levitico: << Quanto allo schiavo e alla schiava, che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle nazioni che vi circondano; da queste potrete comprare lo schiavo e la schiava. Potrete anche comprarne tra i figli degli stranieri, stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi, tra i loro figli nati nel vostro paese; saranno vostra proprietà. Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli dopo di voi, come loro proprietà; vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. >>

Dal Genesi: << Abramo disse a Sara "Ecco, la tua schiava è in tuo potere falle ciò che ti pare". Sara allora la maltrattò tanto che quella si allontanò. La trovò l'angelo del Signore presso una sorgente d'acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur, e le disse "Agar, schiava di Sara, da dove vieni e dove vai ?". Rispose "Vado lontano dalla mia padrona Sara". Le disse l'angelo del Signore "Ritorna dalla tua padrona e restale sottomessa". >>

Dal Vangelo di Luca: << [Gesù disse] "Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. >>