venerdì 30 agosto 2019

La parabola del Sapiens – 2

Le considerazioni di Marco Pierfranceschi sul travolgente successo della nostra specie e le sue terribili conseguenze per l’eco-sistema (seconda parte). LUMEN


<< Prima di proseguire, (…) dobbiamo avere chiaro perché il successo senza precedenti della nostra specie rappresenti un problema.

Di fatto abbiamo ottenuto quanto desideravamo: cibo a sazietà, agi e comodità, la sconfitta di numerose malattie che affliggevano la nostra specie dalla notte dei tempi, oltre a conquiste strabilianti dal punto di vista tecnologico… cosa c’è di male in tutto questo? Per comprenderlo dovremo fare un passo indietro, comprendere come funziona la biosfera ed il suo principale motore: la catena alimentare.

La catena alimentare non è altro che il meccanismo in grado di riciclare la materia organica. La Vita si nutre di sé stessa, ed ogni individuo che nasce e cresce finisce prima o poi per diventare il nutrimento di qualche altra creatura. I vegetali vengono mangiati dagli erbivori, che a loro volta sono predati dai carnivori, che finiscono vittime di altri carnivori o muoiono finendo decomposti dai vermi, in un processo che mira al riutilizzo di tutta la materia organica disponibile, ed all’occupazione di ogni possibile ‘nicchia ecologica’.

Gli organismi autotrofi (le piante) sono anche in grado di costruire materia organica a partire dal carbonio presente nell’aria (sotto forma di CO2) e di materia inorganica, avendo a disposizione la giusta quantità di acqua e di luce solare. Dove è in grado di svilupparsi vegetazione non tardano a comparire erbivori e carnivori.

Perché il processo funzioni è però necessario instaurare un equilibrio, affinché la predazione non sia eccessiva e non conduca all’estinzione la specie predata. In genere questo equilibrio si trova da sé: ad un aumento della popolazione nella specie predata (per esempio a causa di una trasformazione climatica favorevole) corrisponde un aumento dei predatori, il cui numero cresce finché la popolazione predata non si riduce al di sotto della soglia di sostentamento dei predatori.

Cosa accade quando questo equilibrio non riesce ad instaurarsi ce lo racconta la vicenda di un branco di bovini abbandonati su un’isola disabitata del Pacifico all’epoca dei grandi viaggi di esplorazione oceanica. Pochi capi di mucche e vitelli vennero abbandonati su un’isola ricca di erba. Al successivo passaggio della nave, diversi anni dopo, in assenza di predatori e con abbondante cibo a disposizione i bovini si erano moltiplicati, ed assommavano ad alcune decine.

Al terzo passaggio, trascorsi altri anni, i bovini erano ormai oltre un centinaio ed avevano colonizzato ogni angolo dell’isola. Al quarto passaggio, tuttavia, i marinai non trovarono traccia di bovini vivi: l’isola era coperta di ossa e non si vedeva più nemmeno un filo d’erba. La proliferazione di un predatore ‘alieno’ troppo massiccio ed efficiente per il microscopico habitat insulare aveva condotto all’esaurimento delle risorse e, in ultima istanza, all’estinzione del predatore stesso.

Purtroppo non sono riuscito a rintracciare la fonte di questo racconto, ma ho trovato un articolo in rete che racconta dell’abitudine settecentesca di lasciare capre sulle isole oceaniche per fornire cibo ad eventuali naufraghi. L’articolo racconta anche i danni ambientali prodotti dalle capre, e di come si siano dovuti investire fondi ingenti per eradicarle nuovamente in modo da preservare i delicati equilibri ecologici di habitat unici.

Il punto è che, come spiega bene Charles Darwin, l’evoluzione viaggia a velocità diverse e su scale diverse nelle masse continentali rispetto alle piccole isole. Un grande continente ha spazi e risorse molto maggiori, tali da consentire il processo di ‘gigantismo’ che ha dato vita ai dinosauri prima, ed all’attuale macro-fauna mammifera poi: gli erbivori crescono di dimensioni come difesa rispetto ai carnivori, che a loro volta devono seguire un percorso analogo per risultare predatori efficaci.

Tutto questo è in relazione alle risorse disponibili ed agli spazi. I casi di gigantismo nelle piccole isole sono relativamente rari: le tartarughe giganti delle isole Galapagos, i Draghi di Komodo e le palme giganti, ora estinte, dell’isola di Pasqua, per quello che riesco a rammentare su due piedi.

Nelle isole avviene anzi un processo inverso, in cui animali originariamente di grandi dimensioni rimpiccioliscono per adattarsi ad habitat meno ricchi di quelli dove si erano precedentemente sviluppati. È il caso degli elefanti nani del Mediterraneo, ridotti, dalla necessità di adattarsi ad ecosistemi meno ricchi rispetto a quelli originari, ad un’altezza di poco superiore al metro.

L’atipicità della nostra specie consiste nell’aver ideato strumenti che ci hanno consentito da un lato di raggiungere l’apice della catena alimentare, dall’altro di diversificare il nutrimento aggredendo più nicchie ecologiche simultaneamente. Mentre ogni specie animale ha un ventaglio di risorse alimentari limitato alle specie di cui si nutre, la nostra ha fatto in modo di metabolizzare non solo più varietà (siamo onnivori, possiamo nutrirci di carne, vegetali, frutta) ma, attraverso il fuoco, l’allevamento e l’agricoltura, di convertire in forme alimentari anche ciò che originariamente non era per noi commestibile.

Quindi, fin dall’antichità, siamo una specie inconsapevolmente votata all’obiettivo di divorare l’intero pianeta, eliminando selettivamente le forme di vita non commestibili per lasciare spazio solo a quelle edibili. (…) Cosa poteva andare peggio? Semplicemente che trovassimo il modo di trasformare in nutrimento anche la materia inerte. Cosa avvenuta, su larga scala, con la Rivoluzione Industriale. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

(continua)

venerdì 23 agosto 2019

La parabola del Sapiens – 1

Non credo che ci possano essere dubbi sul grande successo evolutivo della nostra specie, l‘homo sapiens’.
Passo dopo passo, millennio dopo millennio, abbiamo riempito (letteralmente) ogni angolo della terra, sottomesso tutti gli altri animali e modificato la struttura stessa dell’eco-sistema planetario.
La nostra vittoria, pertanto, è un dato di fatto, incontestabile; ma potrebbe trattarsi di una ingannevole vittoria di Pirro ? Uno di quei successi effimeri che portano poi alla disfatta ?
Quella che segue è la ricostruzione della parabola dell’homo sapiens, con tutte le sue luci e le sue ombre, raccontata da Marco Pierfranceschi sul suo blog (Mammifero bipede). Il testo, molto lungo, è suddiviso in 4 parti, per comodità di lettura. 
LUMEN


<< Dopo esser stati sepolti sotto il tappeto per qualcosa come tre decenni, i nodi legati allo sfruttamento eccessivo del pianeta stanno tornando al centro del dibattito pubblico. Per gli ambientalisti di vecchia data, che hanno monitorato impotenti l’evoluzione delle vicende umane fino ad oggi, si tratta di un fatto inevitabile quanto necessario. Il punto, ormai, non è ‘se’ stiamo danneggiando il pianeta, ma semplicemente quanto possiamo ancora andare avanti a farlo e cosa ne resterà nel momento in cui, eventualmente, decideremo di smettere.

Il saccheggio delle risorse globali è una costante dell’azione umana fin dalla notte dei tempi, al punto che la nostra specie si è giunta ad identificare con tale processo, costruendo nei millenni mitologie fondate sul successo nell’antropizzare il mondo naturale, e giungendo in ultima istanza a modellare la divinità totemica del ‘progresso’, cui sacrificare, come ad un moderno Moloch, gli ultimi residui di foreste vergini, gli animali che le popolano ed in ultima istanza noi stessi.

Ripercorrendo la storia dell’umanità in questa chiave di lettura possiamo identificare il momento di inizio con la scoperta del fuoco. Non è un caso che questo evento sia stato mitizzato e personificato nella figura di Prometeo che, nella leggenda, ruba il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. La scoperta del fuoco fu il primo vero passo nell’evoluzione tecnologica della nostra specie, perché portò con sé non solo un accorciamento dei tempi necessari alla digestione, quindi un maggior periodo di operatività, ma anche una miglior difesa contro i predatori e, non da ultimo, la possibilità di incendiare le foreste.

Quest’ultima divenne un fattore chiave col successivo passaggio tecnologico: il controllo della produzione alimentare attraverso allevamento ed agricoltura, che sostituirono le attività di caccia e raccolta ponendo termine al nomadismo e consentendo la nascita di comunità stanziali, che portarono allo sviluppo delle prime città.

Le risorse intellettuali del cervello umano, prima necessarie alla sopravvivenza nomade (caccia, raccolta, orientamento, difesa dai predatori, fabbricazione di utensili), vennero quindi messe al servizio dello sviluppo di ulteriori nuove tecnologie. Nacquero quindi da un lato i sistemi di regimentazione idraulica, necessari a garantire una efficiente irrigazione delle colture, dall’altro la costruzione di edifici per ospitare la crescita della popolazione generata dall’aumentata disponibilità di cibo.

La nascita delle prime città comportò un netto salto di qualità nell’organizzazione della conflittualità nella nostra specie. Le scaramucce tra tribù caratteristiche dei piccoli nuclei di cacciatori/raccoglitori, a fronte dell’incremento demografico, si trasformarono in vere e proprie guerre per il controllo di territori e risorse. Le città stesse, dal canto loro, tendevano spontaneamente al controllo del territorio circostante mediante la creazione di insediamenti coloniali e, con essi, l’avvio di ulteriori attività di allevamento ed agricoltura.

Un ulteriore portato della scoperta del fuoco fu la metallurgia, che consentì la realizzazione di armi via via più potenti e micidiali. L’età del bronzo vide la nascita dei primi imperi.

Dal punto di vista ambientale, le trasformazioni avviate già all’alba della storia dell’uomo potranno apparire insignificanti, ma nel complesso non vanno sottovalutate. Come fa notare Jared Diamond in “Collasso, come le società scelgono di morire o vivere”, le terre che furono un tempo la culla dell’agricoltura e delle prime civiltà, la ‘mezzaluna fertile’ compresa fra i fiumi Tigri ed Eufrate, sono oggi ridotte a deserti. Molto probabilmente questo non è dovuto, al caso ma semplicemente il risultato di secoli di agricoltura.

Ciò che sappiamo oggi non è ancora sufficiente a dirimere la questione (secondo altri pareri la desertificazione del Medio Oriente sarebbe dipesa da fluttuazioni climatiche di lungo periodo), ma a supporto della prima tesi esistono evidenze che non possono essere sottovalutate.

La prima, un’acquisizione relativamente recente, è che le foreste pluviali generano da sé il proprio microclima: la pioggia che cade quotidianamente non fa che restituire alla foresta l’umidità che essa stessa ha emesso, per evaporazione, col riscaldamento diurno. Questo consente un rigoglioso sviluppo della vegetazione, che marcendo si deposita al suolo formando un substrato fertilissimo, che a sua volta si accumula nel corso dei secoli.

L’azione umana [invece], da qualche millennio a questa parte, consiste nella distruzione delle foreste, mediante abbattimento degli alberi o incendi, e nella successiva esposizione e coltivazione del suolo con varietà vegetali commestibili o variamente utilizzabili (come mangimi o per la produzione di tessuti).

Ciò causa una trasformazione drammatica dal punto di vista ambientale. Da un lato la scomparsa della foresta elimina il frequente ricambio d’acqua, che deve essere appositamente trasportata da fiumi e laghi, con opere idriche imponenti. Dall’altro il suolo, privato dello strato protettivo rappresentato dalla vegetazione permanente, è soggetto alle aggressioni degli elementi: lo strato superficiale secca e si polverizza, ed il vento ha facile gioco nel soffiarlo via.

Questo potrà apparire un problema minore sul breve periodo, ma su un arco temporale di secoli, quando non di millenni, diventa un meccanismo devastante, perfettamente in grado di dar luogo alla desertificazione di intere porzioni di pianeta. A ciò va aggiunto che i deserti, privi di uno strato di vegetazione in grado di assorbire la radiazione solare, si surriscaldano molto più delle foreste preesistenti, creando condizioni atmosferiche di alta pressione che ostacolano le piogge, in un processo molto difficile da invertire.

Le foreste stesse, da un punto di vista sistemico, si comportano come dei macro-organismi viventi: catturano l’acqua e la utilizzano per prosperare e creare le condizioni per la propria stessa sopravvivenza. Distruggere una foresta per sfruttarne il suolo sottostante significa uccidere l’entità che ha prodotto quel suolo. Cosa non diversa dall’uccidere un animale per nutrirsi della sua carcassa. Una volta completata l’opera, l’animale non c’è più.

Come se non bastasse, l’aumentata disponibilità di cibo innesca un processo di crescita della popolazione, con un progressivo aumento della domanda di terre coltivabili, o da destinare all’allevamento. La crescita della popolazione ha come riflesso l’aumento della potenza militare, quindi è impensabile che una singola nazione possa porre un argine a tale tendenza, pena essere attaccata e sconfitta dalle nazioni confinanti.

Il risultato è una corsa alla distruzione delle foreste ed alla coltivazione di terre fertili, quindi, in ultima istanza, al consumo di suolo. Cosa poteva accadere di peggio a questo punto ? Inutile dirlo: la Rivoluzione Industriale e la nascita dell’agricoltura meccanizzata. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

(continua)

venerdì 16 agosto 2019

Punti di vista – 10

DEMOCRAZIA
Il primo straordinario merito della democrazia è quello di potersi coricare la sera senza il timore di essere prelevati nottetempo dalla polizia segreta.
Questo è l’approccio “minimalista” alla democrazia: da questo sistema dobbiamo aspettarci la tutela delle libertà fondamentali (componente “liberale”) e alcune regole fondamentali (come le regolari elezioni o il principio della maggioranza) che aumentano per i cittadini la probabilità di fare sentire la propria voce ma soprattutto che favoriscono la rotazione del potere (impedendo che posizioni di comando vengano mantenute in maniera esclusiva e per troppo tempo da una manciata di individui).
Eccellente la sintesi di Popper: la democrazia è rotazione del potere senza spargimento di sangue.
Non è poco, è invece moltissimo. È il nucleo centrale del valore della democrazia, che non deve essere tralasciato soltanto perché da 70 anni viviamo in tempi di pace e diritti fondamentali tutelati.
GABIELE GIACOMINI


SCIENZA ECONOMICA
L’economia è una scienza e tuttavia, mentre essa condivide con le altre il fatto di essere complicata – soprattutto agli alti livelli – se ne differenzia nell’incertezza e nell’incostanza dei risultati.
I grandi economisti danno dei consigli che si rivelano catastrofici, fanno previsioni che poi sono smentite dai fatti, formulano teorie economiche che rimangono in auge anche per decenni, finché non ci si accorge che esse provocavano più miseria che prosperità.
Una volta Sergio Ricossa, un economista in cui il buon senso prevaleva sull’enorme dottrina, scrisse che se gli economisti fossero in grado di fare previsioni serie, giocherebbero in borsa e diventerebbero miliardari, invece di rimanere attaccati come cozze al loro stipendio di professori.
Probabilmente l’andamento della macroeconomia, così come quello della Borsa, dipende da una tale miriade di decisioni individuali, che in fin dei conti risulta inconoscibile e imprevedibile.
GIANNI PARDO


LAVORO DIGITALE
L'autostrada dell'informazione non è che ai suoi inizi e il posto di lavoro virtuale è ancora in larga parte sperimentale, ma le loro conseguenze sono fin troppo facili da prevedere alla luce della storia recente.
Dopo mezzo secolo di rivoluzione digitale, le persone oggi lavorano più a lungo, in condizioni peggiori, con più ansia e più stress, meno competenze, meno sicurezza, meno potere contrattuale, meno benefici e salari più bassi.
In questi anni la tecnologia informatica è stata chiaramente sviluppata e utilizzata per de-mansionare, disciplinare e rimpiazzare il lavoro umano, in un crescendo globale di proporzioni mai viste.
DAVID NOBLE


RAZZISMO E DEMOGRAFIA
Il razzismo è un giudizio di inferiorità che pesa su un intero gruppo di persone come conseguenza della loro nascita o, in un’estensione più ampia, della loro appartenenza etnica o culturale. (…)
[Da parte mia], al di là di preferenze e gusti personali, non ritengo si possa considerare oggettivamente una cultura, una serie di tratti somatici o una provenienza geografica superiore ad un’altra.
Non ritengo nemmeno che il giudizio a priori di una persona, basato su aspetto e provenienza, possa essere più importante del giudizio a posteriori, basato sulla conoscenza del singolo individuo.
Intendo giudizio in senso lato, come opinione. Quindi non sono razzista.
Però lo stesso mi ritengo preoccupata per la crescita demografica soprattutto in Africa, e in alcuni paesi arabi o asiatici, e per l’assalto migratorio insostenibile (di cui comunque siamo corresponsabili).
Sono arrivata (…) alla conclusione che la crescita demografica africana sia la più grande minaccia planetaria di questo momento storico e che se non facciamo qualcosa ne verremo tutti travolti.
GAIA BARACETTI


MARX ECOLOGISTA
Qualcuno ha affermato che Marx sarebbe stato un “ecologista ante-litteram”. Ahimè, questa asserzione è falsa.
Certo non mancano nel Capitale, come in altri scritti, le note in cui Marx denuncia i danni prodotti dallo sviluppo dissennato dell’industria capitalistica non solo all’ambiente (aria e acqua), ma alla salute, anzitutto quella degli operai.
Ma basta questo a farlo passare per “ecologista” ? No, non basta.
Diversi sono i passi nel Capitale (…) in cui Marx afferma che per aria e acqua non vale la regola della scarsità: «dall’appropriazione di acqua e aria non deriva un danno per nessuno perché ne resta sempre abbastanza, essendo esse illimitate».
Oggi non solo sappiamo che acqua e aria non sono risorse illimitate, ma conosciamo le leggi della termodinamica e dell’entropia, che Marx evidentemente non prese in considerazione.
La qual cosa non è certo una colpa per un uomo della sua epoca, anche perché Rudolf Clausius introdusse il concetto di entropia nel 1864.
[Abbiamo invece] una serie sterminata di citazioni che ci farebbero apparire Marx come un portabandiera, non solo del massimo sviluppo delle forze produttive, ma dei processi di industrializzazione e modernizzazione, che egli considerava la ‘conditio sine qua non’ del progresso e dell’emancipazione sociale.
LEONARDO MAZZEI

venerdì 9 agosto 2019

Il Fascismo non tornerà

Sono passati quasi 100 anni dalla nascita del Fascismo e del suo conseguente reciproco, ovvero l’anti-fascismo.
Che cosa si può ancora dire, oggi in Italia su questi argomenti che non sia già stato detto e ridetto mille volte ? Ben poco, ormai.
Si può dire però che il Fascismo è passato e non ritornerà, con buona pace delle continue lamentazioni degli anti-fascisti in servizio permanente effettivo.
E proprio di questo ci parla uno storico esperto come Aldo Giannuli, nel post che riporto qui di seguito (tratto dal suo sito).
LUMEN


<< Credo che sia necessario porsi un problema: l’antifascismo (e, dunque, il fascismo) sono categorie ancora utili a capire il tempo presente ed orientare la lotta politica? Direi proprio di no.

In questo anno cade il centenario del “diciannovismo” anticamera immediata del fascismo, fra sei anni cadrà il centenario del manifesto antifascista di Croce, e già questa semplice constatazione dovrebbe suggerire qualche dubbio sulla attualità di queste categorie: ve l’immaginate se nel 1968 avessimo ragionato in termini di opposizione fra unificazione monarchica o mazziniana dell’Italia? O se nel 1945 ci si fosse posto il problema del nuovo ordinamento del paese in termini di legittimismo/ anti legittimismo?

Un secolo sono ben cento anni (per chi non lo ricordasse) e in cento anni il Mondo cambia e le categorie di un tempo non sono più utili a capire il presente.

Partiamo da una domanda: c’è un pericolo fascista nell’anno di grazia 2019? Cioè, esiste la possibilità che si affermi un regime a partito unico, ordinamento corporativo, soppressione delle libertà di espressione, di sciopero, di organizzazione politica, repressione generalizzata di ogni dissenso, a totale chiusura nazionalistica? Credo che nessuna persona non affetta da arteriosclerosi galoppante si sentirebbe di sostenerlo. (…)

Certo, questo non esclude nuove forme di autoritarismo, anche molto pericolose, ma, appunto, forme nuove che dobbiamo studiare per capire come contrastare: realizzare grandi concentrazioni mediatiche certamente limitano la libertà di stampa, ma non è come proibire i giornali di opposizione, marginalizzare il dissenso o usare brutalmente la polizia è lesivo delle libertà politiche, ma non è come mandare in campo di concentramento gli oppositori. Il che non significa che siamo di fronte a forme annacquate di fascismo, ma di fronte a regimi per certi versi più pericolosi, perché meno percepibili, comunque diversi.

Può anche darsi che Orban in Ungheria, Bolsonaro in Brasile o anche Salvini in Italia (posto che il suo successo diventi duraturo) riescano a realizzare regimi con singoli aspetti comparabili a quelli di un regime fascista, ma quello che verrebbe fuori non sarebbe un nuovo fascismo quanto, al massimo, una sua nefanda parodia. Non dico affatto che Fedesz, la Lega o il Front National siano migliori del fascismo (per certi versi come l’inqualificabile livello culturale, sono anche peggio) o che siano una sorta di para-fascismo “moderato”, dico che sono diversi, come il fascismo, a sua volta, fu diverso dall’assolutismo monarchico.

Ogni tempo ha la sua specifica forma di tirannia: il fascismo è una categoria del Novecento e noi non siamo più nel Novecento. Oggi lo strumento di dominio sociale è in primo luogo la moneta che condiziona, anzi disciplina, i comportamenti dei singoli e delle nazioni. E questo si associa a forme ideologiche specifiche: dove il fascismo fu massificante e distruttore delle libertà individuali, l’attuale ordinamento è iper-individualista, per cui non c’è affatto bisogno di proibire i sindacati o le organizzazioni politiche antisistema, perché si sono poste le premesse per liquidare i comportamenti collettivi.

Dove il fascismo era iper-politico ed organizzava militarmente il consenso al regime, il regime attuale è ipo politico e scoraggia ogni forma di partecipazione politica. Dove il fascismo era fortemente ideologico, l’attuale ordinamento si nutre dell’ideologia dell’anti ideologia e si accompagna ad una diffusa e profonda regressione culturale. Dove il fascismo agiva repressivamente con la polizia segreta, la violenza ed il carcere, l’attuale ordinamento fa uso molto più parco di questi strumenti (che, comunque, al bisogno possono essere rispolverati) agisce piuttosto in termini di condizionamento psicologico.

E potremmo proseguire con il catalogo delle differenze, ma soprattutto la stragrande maggioranza di questi nuovi movimenti (dalla Lega all’Ukip, dai Veri Finlandesi ai seguaci di Modi in India o di Netanyau in Israele e persino il Front National della Le Pen o il partito di Orban) non si riconoscono affatto nell’etichetta “fascista” che considerano solo come una aggressione degli avversari nei loro confronti. Per cui attaccare questi movimenti con l’accusa di essere fascisti non ha alcuna efficacia, è semplicemente innocuo. Pensare di convincere qualche loro elettore a cambiare voto perché gli si dimostri che quella forza politica odora di fascismo è cosa semplicemente fuori del Mondo.

Usare la categoria di fascismo per inquadrare questi movimenti è possibile solo a prezzo di slabbrare la categoria di fascismo per metterci dentro qualsiasi cosa non ci piace. Ma una categoria cosi indeterminata ed onnicomprensiva a che serve? Magari solo a confonderci le idee e non individuare il reale nemico dei nostri giorni. E, di conseguenza, se il fascismo non esiste più come opzione storicamente presente, anche la categoria di antifascismo è da riporre nell’armadio del vestiti che non si usano più, magari con un po’ di naftalina per evitare che le tarme lo disintegrino.

D’altra parte forse dobbiamo ricordarci che l’anti-fascismo è per sua natura non una categoria positiva, ma una categoria negativa, un’ anti-categoria. Non esiste un antifascismo ma diversi antifascismi che trovarono occasionalmente un punto di mediazione, ma l’antifascismo cattolico, quello liberale, quello socialista, quello comunista eccetera restarono ciascuno più o meno simile a sé stesso, salvo una inevitabile contaminazione reciproca e salvo l’incrollabile convinzione comunista che l’unico vero antifascismo fosse il proprio. Ma l’antifascismo è sempre rimasto una confederazione di anime diverse irriducibili l’una all’altra.

Capisco che per molti l’antifascismo abbia un contenuto positivo, ad esempio, spesso si dice che la nostra Costituzione si fonda sull’antifascismo ed è giusto dirlo, ma nel senso di un fondamento storico che individuava nell’associazione di libertà politiche e diritti sociali la pietra angolare del nuovo ordinamento sorto sulle ceneri del fascismo. E sin qui siamo d’accordo ed è la bandiera sotto la quale ci siamo schierati nel referendum di tre anni fa, ma oggi la minaccia a quel sistema di valori non viene da una improbabile minaccia fascista, ma dal neo-liberismo.

Mi ha fatto sorridere l’affermazione di chi, a proposito del salone del libro di Torino, ha lanciato alte grida contro la presenza dell’editore di Casa Pound sostenendo “Non ci si siede a parlare con i fascisti”. Con i fascisti no e con i neo liberisti si? Posto che la forma di opposizione cui ricorrere sia sempre e comunque il “non parlo con…”.

Se oggi puoi consentirti il lusso di rifiutare ogni confronto con i fascisti è proprio perché non rappresentano niente, ma negli anni trenta il Pci, giustamente, ordinò ai suoi militanti di entrare nei sindacati e nelle organizzazioni universitarie del regime per fare lavoro politico. Magari con un po’ troppe concessioni all’avversario (…) ma pur sempre, giustamente, perché lì era possibile fare una sorta di “entrismo” e, infatti, la seconda generazione dei quadri e dei dirigenti comunisti negli anni successivi (Ingrao, Alicata, Boldrini, eccetera) veniva proprio dalle organizzazioni fasciste che, peraltro, organizzavano tutti gli italiani. (…)

L’antifascismo finisce con l’assolvere ad una funzione ipnotica che conferma i residui militanti di sinistra sulla loro identità, ma politicamente non serve a nulla. A volte ho l’impressione che certi antifascisti, pur di mantenere in vita l’antifascismo, sarebbero disposti a fondare un partito fascista. >>

ALDO GIANNULI

venerdì 2 agosto 2019

La schiavitù dell’automobile

Non è possibile stabilire una data precisa per la nascita dell’automobile, nel senso che alla sua invenzione contribuirono diverse persone in un arco di tempo molto lungo.
La prima automobile in grado di muoversi autonomamente, senza essere trainata da animali, nasce nel 1769 e si chiama il “Carro di Cugnot”. Questa strana automobile, in grado di portare un carico di oltre 4 tonnellate, procedeva lentamente solo per una dozzina di minuti, raggiungendo una punta di velocità stimata inferiore ai 10 km/h.
Da allora, come ben sappiamo, sono successe moltissime cose, sia a livello tecnologico che sociale, compreso (per certi versi) il passaggio dell’automobile da strumento al nostro servizio, a “quasi-padrone” delle nostre vite.
Ce ne parla Marco Pierfranceschi in questo dissacrante articolo tratto dal suo blog (Mammifero Bipede).
LUMEN


<< L’automobile dà dipendenza? La domanda può apparire provocatoria, ma se mi seguirete nel ragionamento finirete col convenire che la risposta non può che essere sì. Dipendenza individuale e collettiva: sul piano del singolo e su quello dell’intera società.

Cominciamo col definire il concetto di “dipendenza”. Dal punto di vista farmacologico si instaura una dipendenza quando, attraverso un processo di assunzione prolungata di una sostanza estranea, un organismo si modifica al punto da andare in sofferenza quando questa sostanza gli viene improvvisamente a mancare.

La sofferenza può essere di natura fisica, come quella prodotta dagli alcaloidi (molecole che si legano alle cellule nervose dell’organismo: caffeina, nicotina, morfina, acido lisergico), o di natura psichica quando l’oggetto della dipendenza venga a colmare un bisogno psicologico dell’individuo.

L’innesco classico delle forme di dipendenza è il piacere, motivo per cui l’individuo procede ad assunzioni ripetute, mentre comportamenti tipici sono l’uso compulsivo e l’assuefazione, ovvero la progressiva necessità di aumentare il dosaggio della sostanza.

La dipendenza individuale dall’automobile si instaura in giovane età, ed è legata sia al piacere edonistico dell’autoaffermazione individuale, sia alla possibilità di svolgere in uno spazio relativamente privato quelle attività sessuali che la cultura diffusa non consente di svolgere in spazi pubblici.

L’automobile diventa quindi uno strumento di affermazione dello status sociale nelle sue diverse forme: al pari dell’abbigliamento le persone utilizzano l’automobile come veicolo di una narrazione pubblica del sé. Non stupisce quindi come ciò finisca con l’instaurare un meccanismo di identificazione psicologica con la propria vettura.

Questo è rilevabile dal fatto che la maggioranza degli autoveicoli in commercio non risponde a criteri di mera efficienza, ma al contrario i fabbricanti concentrino spesso l’appeal del prodotto sull’estetica e/o su prestazioni spesso non necessarie all’acquirente finale, quando non del tutto superflue.

Da un lato abbiamo l’auto sportiva che, almeno nel nostro paese, è da sempre vissuta con desiderio e bramosia nonostante i costi elevati di acquisto e manutenzione, le dimensioni sacrificate degli abitacoli, i consumi spropositati e le velocità di punta inutilmente superiori a quelle massime consentite sull’intera rete viaria.

Più recentemente la moda dei SUV ha imposto come status-symbol veicoli insensatamente pesanti ed ingombranti, oltreché costosi, energivori e del tutto sovradimensionati per gli utilizzi ai quali si è soliti destinarli. Il che dimostra come, in una società ideologicamente basata sul consumo compulsivo, la principale forma di affermazione individuale debba consistere nel consumare, inutilmente, più degli altri.

La dipendenza psicologica dall’automobile e dai suoi “benefici” (la cui percezione, veicolata da campagne pubblicitarie onnipresenti, pervasive e martellanti, è di molto ingigantita rispetto a quella relativa ai danni prodotti) assume diverse gradazioni, laddove il livello base si esprime con l’affermazione classica (ed apodittica): “dell’automobile non si può fare a meno”.

Le forme via via più gravi si caratterizzano con un’attenzione feticistica all’oggetto del desiderio, con la partecipazione emotiva a discipline pseudo-sportive basate sulla guida di autoveicoli, coi pomeriggi passati a lavare a mano l’automobile e tirarla a lucido, con l’acquisto di accessoristica ‘customizzata’ di nessuna reale utilità, con la progressiva cancellazione dall’immaginario personale di ogni possibile forma di trasporto alternativo, con un’attenzione maniacale al mercato dell’automobile, alle marche, ai modelli, alle prestazioni.

Questa dipendenza individuale dall’oggetto automobile in quanto proiezione di sé e della propria identità, non essendo pubblicamente disapprovata ma, al contrario, socialmente accettata e financo incoraggiata (grazie alla quantità ingente di denaro e domanda di manodopera messi in movimento dal mercato dell’auto), ha finito col produrre una deformazione irrecuperabile nell’intera struttura sociale e ancor più nell’organizzazione delle attività individuali e nella sistemazione degli spazi urbani. (…)

Appare evidente come la scelta di adottare l’automobile privata come principale mezzo di spostamento, ed il conseguente progressivo declino delle forme di trasporto collettive ben più efficaci sotto il profilo dei consumi energetici, dell’occupazione di suolo pubblico, della qualità dell’aria e della vivibilità degli spazi urbani, abbia prodotto un adattamento dell’organismo sociale alla “sostanza estranea” tale che una riduzione del dosaggio, o una totale e drastica eliminazione, darà inevitabilmente luogo ad una “crisi d’astinenza” dagli effetti imprevedibili e potenzialmente devastanti. >>

MARCO PIERFRANCESCHI