venerdì 25 dicembre 2020

Esegesi Biblica – 1

Questo post è dedicato a tutti coloro (probabilmente i “poveri di spirito” del Vangelo) ancora convinti che la Bibbia sia la parola illuminata di Dio e che i suoi insegnamenti vadano seguiti alla lettera per un mondo migliore.

Soprattutto per quanto riguarda il ruolo della donna nella società (ma nel Vecchio Testamento ci sono episodi anche più imbarazzanti).

Il testo (diviso in 2 parti per comodità di lettura) è un divertissement di Ugo Bardi ed è tratto dal blog Effetto Cassandra.

LUMEN


<< Nel libro della Genesi della Bibbia, leggiamo come Tamar si prostituì per avere figli da suo suocero, Giuda. È una storia affascinante che ci racconta di tempi remoti, ma non così remoti da non poter comprendere la difficile situazione delle persone che hanno vissuto e lottato in un mondo molto diverso dal nostro.

La storia di Tamar viene spesso commentata per il suo significato morale e religioso, ma prendiamolo qui in considerazione con uno scopo più concreto: capire come l'abitudine delle donne sposate di indossare un velo abbia influenzato le antiche società patriarcali e, occasionalmente, potrebbe essere stata un vantaggio per le donne.

Quindi, iniziamo con i protagonisti. Giuda era uno dei patriarchi degli Israeliti, il pronipote di Abramo in persona. Non era proprio un modello si virtù, e ci viene detto di come avessea tentato di uccidere suo fratello Giuseppe. Più tardi, sembrava aver guadagnato un po' di rispettabilità, si era sposato e aveva avuto tre figli, Er, Onan e Shelah.

Tamar entra nella storia quando sposa Er, il figlio maggiore di Giuda. Non ci viene detto molto sulle origini di Tamar. Fonti diverse dalla Bibbia dicono che era una cananea, altre che era figlia di un sommo sacerdote. La Bibbia non menziona una dote, ma è impensabile che Tamar non ne avesse portata una a Er. Le doti sono tipiche delle società patriarcali dove gli uomini sono considerati più preziosi delle donne. In queste società, una donna può ottenere l'accesso a un uomo di alto rango pagando per il privilegio.

Quindi, Tamar sposa Er e tutto sembra andare per il meglio, ma Er muore improvvisamente. La Bibbia ci spiega che Dio era arrabbiato con Er per motivi non chiari, ma il nocciolo della storia è che Tamar è rimasta vedova senza figli. In questo caso, le società patriarcali avevano una tradizione chiamata "levirato" che favoriva, o addirittura imponeva, che il fratello minore di un uomo deceduto sposasse la vedova. La legge si applicava quando la vedova era senza figli, come nel caso di Tamar.

Le leggi del levirato sono fondate su questioni finanziarie, come la maggior parte dei matrimoni erano nell'antichità, e lo sono ancora. In una società patriarcale, una donna aveva accesso a un uomo di alto rango pagando una dote. Ma se l'uomo fosse morto prima di avere figli, la donna aveva pagato per non avere nulla, perché essendo femmina non poteva ereditare i beni del marito defunto.

La legge sul levirato proteggeva la vedova assicurandosi che avesse un marito e la possibilità di avere eredi maschi. I figli generati dal fratello del marito deceduto sarebbero stati considerati figli e figlie del primo marito per quanto riguarda le questioni ereditarie.

Quindi, leggiamo che la famiglia di Giuda aveva seguito le usanze del levirato e che il cognato di Tamar, Onan, la sposò. Questo sembrava risolvere tutti i problemi, ma qualcosa era andato storto: Onan non era interessato ad avere figli da Tamar. Ci viene detto che "spargeva il suo seme per terra", qualcosa che oggi chiameremmo "coitus interruptus".

Perché Onan lo facesse probabilmente è ancora legato alle implicazioni finanziarie del levirato. Se Tamar avesse generato un erede maschio di Onan, la sua eredità sarebbe stata ridotta perché il figlio sarebbe stato considerato figlio di Er e forse Onan aveva altri figli da un'altra donna. La storia potrebbe essere stata molto più complicata di così, comunque quello che succede è che muore anche Onan. Forse è stato colpito da Dio per il suo cattivo comportamento, ma il punto è che Tamar si ritrova vedova senza figli per la seconda volta.

A questo punto le cose si complicano davvero. La legge sul levirato dice che Tamar dovrebbe ora sposare il figlio rimanente di Giuda, Shelah. Ma lui è troppo giovane, e così Tamar si ritrova promessa sposa di un bambino con la prospettiva che quando sarà cresciuto abbastanza, si comporterà come Onan, per gli stessi motivi.

Poi, dopo aver seppellito due mariti, possiamo immaginare che la reputazione di Tamar era un po' offuscata, per non dire altro. Forse è una strega? Non dimentichiamoci che la Bibbia dice nell'Esodo, "Non permetterai che una strega viva". Riguardo a Shelah, non doveva essere così entusiasta alla prospettiva di dover sposare una donna che poteva avere 10 anni più di lui.

E Giuda, cosa poteva fare? Forse avrebbe potuto rimandare Tamar dalla sua famiglia, ma poi avrebbe dovuto ripagare la dote che aveva ricevuto - non una prospettiva che gli faceva piacere, ovviamente. Stando così le cose, sembriamo avere una classica situazione dove perdono tutti. Ma poi succede qualcosa che cambia tutto. 

Leggiamo la storia dal libro della Genesi: 

13 E fu riferito a Tamar, dicendo: Ecco, tuo suocero sale a Timnath per tosare le sue pecore. 14 Si tolse di dosso le vesti da vedova, si coprì con un velo, si avvolse e si sedette in un luogo aperto, che è sulla strada per Timnath; poiché vide che Shelah era cresciuto e non gli era stata data in moglie. 15 Quando Giuda la vide, pensò che fosse una meretrice; perché si era coperta il viso.

16 E si voltò verso di lei lungo la strada e disse: Va ', ti prego, lasciami entrare in te; (poiché non sapeva che era sua nuora.) E lei disse: Che cosa mi darai, per entrare in me? 17 E lui disse: Ti manderò un capretto del mio gregge. E lei disse: Mi dai un pegno finché non la invierai? 18 Ed egli disse: Che pegno ti darò? E lei disse: Il tuo sigillo, i tuoi braccialetti e il tuo bastone che è nelle tue mani. Ed egli glieli diede, ed entrò in lei, e lei concepì da lui. 19 Ella si alzò e se ne andò, si tolse il velo e indossò le vesti da vedova. 

20 E Giuda mandò il suo amico Adullamita con la capretta, a ricevere il suo pegno dalla mano della donna, ma non la trovò. 21 Quindi interrogò gli uomini di quel luogo, dicendo: Dov'è la meretrice che era qui sul lato della strada? E dissero: Non c'era nessuna prostituta in questo luogo. 22 E tornò da Giuda, e disse: Non riesco a trovarla; e anche gli uomini del luogo dissero che non c'era nessuna prostituta in quel luogo. 23 E Giuda disse: "Lasciamo perdere, che altrimenti ne saremo svergognati". Ecco, ho mandato questa captretta e tu non l'hai trovata. 

24 E avvenne circa tre mesi dopo, che fu detto a Giuda, dicendo: Tamar, tua nuora, si è prostituita; e inoltre, ecco, lei è incinta per prostituzione. E Giuda disse: Falla venire qui e che sia bruciata. 25 Quando fu accompagnata, mandò dal suocero a dirle: "Per l'uomo di cui sono queste io sono incinta; e lei disse: Discerni, ti prego, di chi sono questi, il sigillo e i braccialetti, e il bastone. 26 E Giuda li riconobbe e disse: Ella è stata più giusta di me; perché non l'ho data a Shelah mio figlio.”

 Ora, questa storia ha dei buchi di logica così grandi che ci potrebbe passare attraverso una carovana di cento cammelli. >>

UGO BARDI

(continua)

venerdì 18 dicembre 2020

Il Liberalismo americano

E' ben noto che la politica USA, pur evolutasi da una evidente matrice europea, ha caratteristiche sue proprie, che la rendono peculiare, a partire dalla sua forte impronta liberale e liberista.

Il post di oggi, scritto da Moreno Pasquinelli durante le ultime elezioni presidenziali (e tratto dal sito di Sollevazione), cerca di ricostruire la storia pregressa del liberalismo americano e di ipotizzarne gli sviluppi futuri nel caso – poi verificatosi - di sconfitta elettorale del 'trumpismo'.

LUMEN


<< E’ noto come in filosofia politica (e in scienza del diritto) si presupponga la dicotomia tra 'libertà negativa' e 'libertà positiva'. Teorico della prima concezione fu Thomas Hobbes. Per il nostro la libertà consisterebbe nella assenza di limiti coercitivi esterni che impediscano ad un uomo nel fare quel che gli pare. Scriveva infatti Hobbes che la libertà si situa in tutti i campi che la legge deliberatamente omette e lascia fuori dal suo campo prescrittivo.

Essa si attua: «nella libertà di comprare, di vendere, e di fare contratti l’uno con l’altro, e di scegliere la propria dimora, il proprio cibo, il proprio modo di vita». C’è dunque, per Hobbes, tanto più libertà quanto più sono deboli le interferenze da parte dei pubblici poteri. John Locke, padre nobile del liberalismo moderno, contestò l’assolutismo di Hobbes ma ne adottò la concezione mercatistica e privatistica della libertà.

Di contro i teorici della libertà positiva posero al centro un’altra questione (del tutto dimenticata dai teorici della libertà negativa): posto che la società si deve dare delle norme, chi dev’esserne l’autore? “chi deve comandare? A chi appartiene la sovranità politica?”.

Per Rousseau, per essere davvero liberi, occorre essere autori delle norme, ovvero “non obbedire ad altre leggi se non a quelle che noi stessi ci siamo dati”. Rousseau pose poi una seconda domanda: ha senso dire che sono libero, che posso comprare o vendere ciò che voglio, se non dispongo del denaro e delle risorse per farlo? Se sono povero e non ho alcuna risorsa posso considerarmi libero? Ergo: non c’è libertà in quella società ove i cittadini non dispongano dei mezzi e delle risorse che consentano di esercitarla effettivamente.

E’ noto come in tal modo Rousseau pose le basi, ad un tempo, della teoria democratica e di quella socialista. In estrema sintesi: mentre la teoria negativa assume come proprio paradigma l’individuo privato e proprietario, quella positiva rivendica la centralità della collettività, la sua facoltà di autogovernarsi, il criterio dell’eguaglianza sociale.

E’ certo nel liberalismo individualistico europeo che affondano le radici ideologiche più profonde della cultura politica americana. Radici così potenti e pervasive che hanno impedito che prendessero successivamente piede sia il rousseauismo che il socialismo. Il fatto è che, come ogni altro prodotto d’importazione, una volta trasferitosi in America, il liberalismo ha subito un processo di nazionalizzazione, ovvero radicalizzazione assoluta.

Già nella sua patria d’elezione europea il liberalismo non è mai stato un corpo teorico omogeneo e monocorde. Di liberalismi ne esistono infatti diversi tipi. Vale ricordare la distinzione posta da Benedetto Croce nella sua polemica con Luigi Einaudi tra liberalismo e liberismo. Vero è che questa distinzione lessicale l’abbiamo solo nella lingua italiana, ciò non toglie che essa ci aiuta a capire cosa sia avvenuto negli ultimi decenni in seno alle società capitalistiche occidentali.

Per Croce il liberismo consisteva nella teoria economica smithiana per cui, posta la supremazia della “mano invisibile” del libero mercato, era da condannare qualsiasi interferenza politica che ponesse limiti alla sua provvidenza. D’altra parte il liberalismo poggiava secondo Croce su un’etica che poteva ben conciliarsi con la visione democratica e addirittura socialista, come sia con l’idea di uno stato interventista. (...)

Nel momento in cui la cultura liberal-borghese europea è approdata oltre oceano essa ha subito una metamorfosi profonda e si è venuta consolidando come identità ideologica specifica ed a sé stante; il liberismo britannico, vero padre di questa identità ideologica, ha subito una palingenesi che ha figliato quello che potremmo chiamare ultra-liberismo o meglio, come vedremo, anarco-capitalismo.

Il combinato disposto tra questo ultra-liberismo e le radici religiose del messianismo puritano-calvinista (Weber) costituisce l’ideocrazia americanista — ciò che Hegel avrebbe chiamato volks-geist o spirito del popolo americano; dopo la seconda guerra mondiale, in una lotta senza quartiere contro il suo avversario comunista a trazione russa, questo spirito è venuto avanzando come weltgeist o “spirito del mondo”, fino ad affermarsi come egemone a scala mondiale dopo il catastrofico crollo dell’URRS.

Hegel considerava che il popolo-avanguardia che fosse riuscito ad incarnare lo “spirito del mondo” sarebbe diventato invincibile. Com’è evidente il grande filosofo tedesco si sbagliava. A trenta anni dalla propria apoteosi l’egemonia americana traballa, è già allo stadio della decadenza, quello spengleriano della Zivilisation, della civiltà moribonda condannata a lasciare il posto a quella successiva.

In questo quadro si dovrebbe intendere il 'trumpismo' [come] manifestazione di un doppio fenomeno: da una parte il fatto del tramonto dell’egemonia globale dell’imperialismo americano, dall’altra il tentativo disperato di opporsi a questo destino.

L’icastico slogan trumpiano “Make america great again” esprime plasticamente questo dilemma. Esso non è tuttavia solo un mero back-lash, un contraccolpo di natura interna e/o geopolitica, si presenta come una catarsi dell’americanismo, un ambizioso e radicale tentativo di rinascere riscoprendo e tornando appunto a certe peculiari radici.

Se l’americanismo originario si distingueva per portare alle estreme conseguenze l’individualismo di marca euro-liberale, la vera cifra dell’americanismo trumpiano sta nella tradizione teorica e politica del libertarianism: non si tratta solo dell’idea dello Stato minimo, c’è quella di uno Stato tendente a zero. Evanescente è il confine con l’anarco-capitalismo yankee, la concezione per cui si debba mercatizzare ogni sfera sociale nonché le principali funzioni dello Stato.

Se per democrazia si debbono intendere la sovranità popolare e l’autogoverno dei cittadini attraverso la partecipazione ai processi di decisione politica - quindi il concetto di uno Stato che non possiamo altrimenti qualificare che come Stato etico -, per i libertarians e ancor più per gli anarco-capitalisti una democrazia così intesa non è solo riprovevole, ma una minaccia ai diritti indisponibili dell’individuo.

Se in democrazia la persona è anzitutto cittadino politico, titolare di diritti ma soggiacente alla primazia della comunità, alla base dell’americanismo abbiamo la tesi opposta, quella per cui né la comunità né i poteri pubblicipossono intromettersi nella sfera privata dell’individuo come agente del mercato.

Il libertarismo americano parte dal paradigma lockiano ma lo porta alle estreme conseguenze, alla sacralizzazione del mercato, alla deificazione dell’individuo proprietario. Andando ben oltre il liberismo di Hayek o Milton Friedman, sarà Robert Nozick a cristallizzare questa dogmatica individualista, vera e propria anima oscura dell’americanismo.

Secondo Nozick “lo stato non può usare il suo apparato coercitivo allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri, o per proibire alla gente attività per il suo proprio bene o per la sua propria protezione”. Siamo oltre lo Stato minimo, siamo allo Stato ultra-minimo. Siamo, a ben vedere, oltre la stessa concezione dello Stato come “guardiano notturno”, protettore armato della privata proprietà e dei traffici mercantili (…).

C’è chi teorizza che il populismo trumpiano sia solo una meteora, che vivrà di vita breve come il Partito Populista della fine dell’800 (...). Noi ne dubitiamo e tendiamo a pensare che non possano stabilirsi analogie di destino tra allora (imperialismo nascente) e l’oggi (imperialismo tramontante). L’onda che sorreggeva il trumpismo è lunga, e profondo il solco scavatosi tra popolo ed élite. Il suo impatto sarà quindi duraturo. >>

MORENO PASQUINELLI

venerdì 11 dicembre 2020

Il controllo dell'aggressività umana

Torno sull'argomento, già affrontato più volte ma sempre interessante, dell'aggressività umana, uno degli aspetti in cui appare più evidente (e destabilizzante) la dicotomia tra le spinte genetiche ancestrali e le esigenze culturali della vita di oggi.

Il post è opera di Marco Pierfranceschi ed è tratto dal suo blog Mammifero Bipede.

LUMEN


<< È indubbio che l’abbandono della vita nomade, basata su caccia e raccolta, in favore di un’esistenza stanziale fondata su agricoltura, allevamento ed artigianato, abbia richiesto una importante rimodulazione nelle reazioni istintive dove (...) risultano fortemente coinvolti i meccanismi di autocontrollo e gestione dell’aggressività.

I nostri lontani antenati, adattati alla vita selvatica, avevano necessità di sviluppare abilità diverse dagli individui attuali. La vita all’aria aperta basata su caccia e raccolta, legata al nomadismo che portava ad esplorare luoghi sempre diversi, traeva vantaggio dalla capacità di processare numerosi stimoli contemporaneamente (...). Parimenti utile doveva essere l’attitudine a reagire istintivamente, ed in fretta, ad un pericolo imprevisto.

Un diverso equilibrio tra reazioni istintive e azioni ponderate (ovvero mediate dal pensiero analitico e dai meccanismi di autocontrollo) potrebbe di fatto aver rappresentato la normalità nelle popolazioni del passato. (...) Una condizione destinata a cambiare con lo sviluppo delle pratiche agricole e dell’allevamento, che ha finito col determinare la transizione dallo stile di vita nomade alla stanzialità.

L’adattamento a svolgere mestieri monotoni e ripetitivi ha facilitato l’avvento di individui con tipicità caratteriali completamente diverse da quelle richieste, ad esempio, in una battuta di caccia. Il percorso umano e culturale che ha portato i nostri antenati dal nomadismo delle piccole tribù di cacciatori/raccoglitori alle megalopoli attuali ha obbligato lo sviluppo dei processi mentali legati all’autocontrollo, sia dei pensieri che degli istinti.

In natura, l’occasionale prossimità fra individui sconosciuti della stessa specie è fonte di stress e frequente causa di reazioni aggressive. Con la crescita della popolazione e l’evoluzione dei villaggi in città, il processo di inurbamento ha imposto condizioni di stretta contiguità con una moltitudine di altri individui, richiedendo lo sviluppo di modalità di contenimento delle reazioni più immediate e brutali in favore di interazioni più controllate sotto il profilo emozionale.

La trasformazione delle società umane ha reso la coesistenza fra sconosciuti un fatto frequente, cosa che ha richiesto la compensazione dei preesistenti meccanismi di stress mediante articolazioni mentali in grado di sopprimerli. La transizione, dai rapporti di tipo familiare tipici di una piccola tribù, ad un contesto relazionale esteso, ha richiesto un potenziamento delle capacità individuali di autocontrollo.

Le moderne neuroscienze sono oggi in grado di individuare le strutture cerebrali responsabili del nostro autocontrollo, e quantificarne l’attività ed il livello di funzionalità. Possiamo immaginare come, nell’arco di millenni, queste strutture possano essersi evolute per consentirci di prosperare nel mutato scenario prodotto dall’ascesa delle città e del ruolo da esse svolto nel governo del mondo.

Tuttavia, dati i tempi molto rapidi richiesti da questi adattamenti, nell’ordine di pochi millenni, non si può attribuire tale trasformazione ad una effettiva evoluzione della specie Homo Sapiens, quanto ad un adattamento per accumulo di fattori di natura epigenetica.

I tempi necessari alla propagazione di una modifica di natura genetica sono infatti lunghissimi, ma i geni sono solo una piccola parte del nostro DNA. Una parte ben più consistente è demandata a controllarne l’espressione. L’epigenetica studia le trasformazioni in queste porzioni di DNA.

Rispetto alle mutazioni genetiche, i meccanismi epigenetici consentono, ad individui e popolazioni, di rispondere con prontezza a mutamenti consistenti nell’ambiente, garantendo la sopravvivenza in situazioni in rapida trasformazione. I caratteri acquisiti possono poi, col tempo, fissarsi in una nuova specie, o regredire, nel caso in cui dovessero ripristinarsi le condizioni originarie.

Questo significa che il contesto ambientale può influenzare l’insorgere o meno di determinate caratteristiche negli individui, che queste caratteristiche possono fissarsi ed essere conservate ed è documentato come queste modifiche adattive possono essere trasmesse alla discendenza. È un po’ un rientrare dalla finestra delle idee di Lamarck, dopo che il criterio evolutivo suggerito da Darwin, basato sulla selezione naturale, le aveva buttate fuori dalla porta. (...)

In un lontano passato, i caratteri di curiosità ed irruenza, attualmente tipici dell’età giovanile, venivano preservati negli individui adulti perché funzionali ad una vita nomade basata su caccia e raccolta. Il progressivo inurbamento ha favorito un contenimento generalizzato delle reazioni più istintive e brutali, ma la rapidità richiesta ha attivato processi epigenetici, che non sono né infallibili né irreversibili.

L’occasionale riemergere di tali caratteri arcaici non deve sorprendere in assoluto, e ancor meno deve stupire che ciò avvenga contesti sociali degradati, caratterizzati da modalità relazionali basate sulla sopraffazione e sull’uso diffuso della violenza.

Negli individui cresciuti in condizioni di precarietà affettiva e sociale, elevato stress emotivo, difficoltà economiche e relazionali, i meccanismi di autocontrollo faticano a svilupparsi e fissarsi, e questo è un dato che ci viene confermato dagli studi sui maltrattamenti infantili. Una volta che tali circuiti mentali disfunzionali finiscono col fissarsi nell’individuo adulto, risulta per quest’ultimo più complicato riuscire a sviluppare un soddisfacente equilibrio relazionale. (...)

[Come] affermato da Daniel Goleman nel suo saggio sull'intelligenza emotiva (cito a memoria): “le abilità che non vengono apprese nei primi anni di vita possono essere perse per sempre, o il loro recupero risultare in seguito molto faticoso e nel complesso solo parziale”.

Un individuo penalizzato in gioventù nello sviluppo delle funzioni di autocontrollo avrà una elevata probabilità di diventare un adulto fortemente incline alle reazioni violente ed al rischio di dipendenza da sostanze psicotrope. (…)

Sempre Goleman, in “Intelligenza sociale, afferma che le esperienze traumatiche sperimentate nelle prime fasi della crescita non si limitano a formare un bagaglio culturale, potenzialmente reversibile, ma alterano in permanenza le strutture cerebrali, tanto da rendere ogni successivo tentativo di recupero difficoltoso ed a rischio di insuccessi.

Quindi, non solo dovremmo rivolgere maggior attenzione agli anni dello sviluppo, per evitare che situazioni traumatiche fissino nei giovani modalità relazionali disfunzionali, potenzialmente nocive per sé e per gli altri, ma dovremmo ampliare gli sforzi per consentire ad individui già ‘danneggiati’ un inserimento sociale adeguato, tenendo conto delle limitazioni loro derivanti da meccanismi mentali, di autocontrollo e non solo, potenzialmente compromessi.

In primo luogo andrebbe estesa la consapevolezza delle problematiche legate ad attenzione ed autocontrollo, affinché i portatori possano esserne pienamente consapevoli ed indirizzare al meglio le proprie scelte di vita lavorative e relazionali. Tale consapevolezza andrebbe quindi integrata nel percorso formativo, dalle famiglie alle istituzioni scolastiche, In modo da poter intervenire tempestivamente ove necessario. Da ultimo dovrebbe obbligarci a ripensare la funzione dell’istituzione carceraria.

Perché se quest’ultima deve essere mirata, come nelle formali intenzioni, al recupero e reinserimento nella società civile degli individui che ‘hanno sbagliato’, gli sforzi da impiegare non potranno limitarsi alla detenzione, ma muovere dall’assunto che molte delle persone responsabili di atti incontrollati e violenti risultano già in partenza ‘danneggiate’, ed hanno necessità di terapie sociali, culturali ed emotive, mirate e profonde.

Uno degli assunti fondamentali delle società umane è l’idea che la collettività possa funzionare grazie ad un unico set di regole, valide per tutti, ma ciò ha senso solo se assumiamo che i diversi individui condividano una uniformità caratteriale e relazionale. Le neuroscienze ci raccontano di differenze che possono insorgere a livello fisiologico, tali da obbligarci a rimettere in discussione questo assunto.

Più è ampio il ventaglio di diversità tra gli individui, più il sistema di regole condivise deve prevedere bilanciamenti e contrappesi perché l’equilibrio ottenuto sia funzionale. L’evidenza che, nel momento attuale, un intero ventaglio di diversità caratteriali legate alla gestione dell’autocontrollo non appaia pienamente riconosciuto, suggerisce l’evidenza di un limite strutturale all’efficacia del sistema di regole che ci governa. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 4 dicembre 2020

Il cimitero delle Elites

Vilfredo Pareto fu il primo a introdurre il concetto di élite, che trascende quello di classe politica e comprende l'analisi dei vari tipi di élite. La sua 'teoria delle élites' trae origine da un'analisi dell'eterogeneità sociale e dalla constatazione delle disuguaglianze, in termini di ricchezza e di potere, presenti nella società.

Nel corso del suo sviluppo, ogni società ha dovuto di volta in volta misurarsi con il problema dello sfruttamento e delle distribuzione di risorse scarse. L'ottimizzazione di queste risorse è quella che viene assicurata, in ogni ramo di attività, dagli individui dotati di capacità o di ruolo superiori, i quali constituiscono appunto le élites.

Pareto si è interessato anche al meccanismo di circolazione delle élites, affermando che: "la storia è un cimitero di élite". A un certo punto, infatti, il gruppo di comando non è più in grado di produrre elementi validi per la società e decade. In particolare, nelle élites si verificano due tipi di movimenti: uno orizzontale (movimenti all'interno del gruppo) e uno verticale (ascesa dal basso o declassamento dall'alto).

Allo stato attuale delle élites occidentali (e mondiali) è dedicato l'articolo che segue, scritto da Gennaro Malgeri per il sito “Il dubbio”.

LUMEN


<< La polemica (...) contro le élites da parte dei movimenti cosiddetti 'populisti', invece di innescare una discussione seria sul tema, sembra che stia deragliando verso una sorta di conflitto tra classi dirigenti sconfitte e classi dirigenti emergenti, che come tali oggettivamente tendono a diventare élites a loro volta e, dunque, a rivolgere contro se stesse le imputazioni che ne hanno agevolato le fortune politiche, a dimostrazione che le società prive di élites non sono immaginabili.

Che poi siano attrezzate o meno culturalmente, è un altro discorso. Sulle nuove élites italiane non avrei dubbi: sono tecnicamente abusive, ancorché legittimate dalla posizione che occupano. Il problema è che non immaginano minimamente di essere “provvisorie” e, come tali destinate alla consunzione.

Il tema è di grande impatto (…) e si ha un bel dire che la qualità delle élites non conta: conta eccome. (...) Purtroppo le comunità deperiscono quando esprimono élites inadeguate al ruolo. E dunque la loro mutevole consistenza e qualità è un problema che non si può scansare.

Risalendo alle fonti dell’indagine sulle élites ci si può rendere conto, mettendo da parte per un attimo la discussione corrente, di come il gioco avviato intorno all negazione delle élites per costituirne altre sia piuttosto gravido di incongruenze che non possono che alimentare un conflitto artificioso e pernicioso.

La storia è un cimitero di aristocrazie”, scriveva Vilfredo Pareto. Ed il tempo s’è incaricato di dimostrare la ragionevolezza dell’assunto del fondatore della moderna sociologia italiana, che nel suo monumentale Trattato di sociologia generale ha delineato la formazione delle élites come fattore ineluttabile della vita associata e la loro “circolazione” quale evento insopprimibile del divenire storico delle comunità organizzate.

Le leggi non scritte hanno più senso di quelle vergate e tramandate: il senso della visione paretiana è nella logica della dimensione organizzativa che gli uomini, da quanto hanno scoperto la vocazione alla convivenza ed alla formazione di gruppi omogenei, hanno spontaneamente accettato. Ma le élites, o gruppi di comando, o leadership (come si dice oggi) non sempre rispondono alle esigenze del popolo. Anzi, il più delle volte, soprattutto in democrazia, questo è soggiogato dai centri di potere che guerreggiano tra di loro al fine di stabilire la supremazia.

E’ questa “costante” che si può iscrivere sotto la dizione di “ferrea legge delle oligarchie” la cui formulazione teorica è del pensatore tedesco-italiano Roberto Michels che, per quanto contestato da Antonio Gramsci, lo stesso fondatore del Partito comunista gli dava sostanzialmente ragione individuando nelle classi dirigenti politiche (compreso il suo, si presume) un “naturale” allontanamento dalle masse.

Il che vuol dire che la forza della minoranza è sempre e comunque “irresistibile”, come lucidamente sosteneva Gaetano Mosca, “di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che essa è organizzata appunto perché é minoranza”.

Se questo è il quadro – e mi pare nitidamente incontrovertibile – è assolutamente vero che dalle élites non si può prescindere, al di là delle opzioni politiche che si nutrono e che alla luce anche delle riflessioni indotte dall’evoluzione delle scienze umane appaiono sempre più desuete. Elitisti, insomma, beninteso ognuno a suo modo, tutti gli “ideologi” citati? Non c’è alcun dubbio. (…)

Il popolo, insomma, almeno da due secoli a questa parte, è l’alibi che le classi dirigenti, non più aristocratiche nel senso proprio del termine, utilizzano per compiacere se stesse e servire potentati, soprattutto oggi, economico- finanziari e mediatici che con il “sentimento popolare” hanno ben poco da spartire.

Tuttavia (...), le élites di ogni [società] devono saper interpretare lo spirito del tempo, connettersi con il popolo che le esprime comunque e che resta il loro interlocutore. Insomma, se il consenso manca, in democrazia non c’è classe dirigente; ma il consenso non lo creano forse le classi dirigenti capaci di indirizzare, nel senso migliore, il popolo?

E’ su questo interrogativo che soprattutto Pareto – molto più di Mosca che nutriva illusioni liberali, pur essendo un conservatore – ha molto riflettuto raccogliendo i frutti di un’indagine che praticamente è durata tutta la vita, oltre che nel Trattato, nel saggio I sistemi socialisti, dove si legge: “Le élite si manifestano in parecchi modi, secondo le condizioni della vita economica e sociale”.

Anche nei partiti politici, avrebbe aggiunto anni dopo Michels difendendone la legittimità come fattori storici inestirpabili, tuttavia deprecando l’eccessivo culto dei leader ma si sarebbe ricreduto diventando in seguito un fervente fascista, uno degli intellettuali di punta del movimento e del regime.

Ciò che ci lasciano gli “élitisti”, come approssimativamente sono stati chiamati, è appunto la “codificazione” di un dato non eliminabile che genera conflitti e rimette sempre, anche quando non lo si crede più, la storia. Insieme a tutto ciò, è la valutazione finale che ci intriga – o dovrebbe intrigarci.

Concerne la dimensione “morale” che, come insegna Carl Schmitt, non fa parte della politica e neppure della sociologia. E allora, se questo punto di vista è ritenuto valido, non ci si può che fermare alla constatazione e alla “difesa” del principio stesso, cioè a dire che nessun sistema democratico è immune dalla lotta tra le élites. La storia dirà sempre, con ragionevole ritardo, quali delle “nuove aristocrazie” hanno avuto la meglio ed hanno agito al di là del loro interesse.

Ma la cronaca, nella quale siamo immersi, ci consegna un’altra incontestabile verità: l’assoluta mancanza di visione da parte delle delle élites dominanti ai nostri giorni che non sono “costruzioni” legittimate dal consenso democratico, per quanto fittizio possa essere, ma da invisibili lobbies che si costituiscono in forma di centri di manovra allo scopo di far passare le loro “verità” come “bene comune”, utilizzando (e disprezzando) la democrazia che perciò oggi, in ogni parte del mondo, è “il problema”. (...)

Ed i problemi dovrebbero essere risolti, come si sa. In qual modo oggi è difficile immaginarlo. L’egemonizzazione dello spazio culturale, sociale e politico a cui si riferiva Gramsci, non sembra alla portata. L’alta finanza, il capitalismo globalista, perfino il comunismo tecnocratico (Xi Jinping è un vero genio!), il neo- colonialismo umanitario di fronte alle decadenti democrazie occidentali hanno partita facile.

La rigenerazione di altre élites presuppone complessi di riferimento dai quali possano prodursi e ristabilire una corretta “circolazione”, come Pareto la intendeva. Utopia? E sia. Probabilmente i nuovi conflitti planetari offriranno “spazi” che ancora non si vedono o che forse appena si intuiscono. >>

GENNARO MALGERI

venerdì 27 novembre 2020

Amare tutti ? No, grazie !

Uno dei saggi socio-politici più importanti di Sigmund Feud è sicuramente “Il disagio della civiltà”, in cui il padre della psicanalisi mette in luce la tensione fondamentale tra la civiltà e l'individuo.

Il contrasto principale, secondo Freud, nasce dalla ricerca, da parte dell'individuo, della libertà istintiva, mentre la civiltà tende a richiedere l'esatto contrario, ovvero una limitazione della libertà istintuale degli individui che la compongono.

E' evidente infatti che molti degli istinti primitivi (e per nulla sopiti) degli esseri umani - quali: l'aggressività, il desiderio sessuale ecc. - possono diventare pesantemente dannosi per gli equilibri di una comunità umana. Perciò la società crea leggi che vietano severamente i comportamenti più antisociali e prevede delle punizioni anche molto gravi per chi viola tali norme.

Questo processo, sostiene Freud, è una caratteristica intrinseca e necessaria della civiltà, che inevitabilmente però genera sentimenti di insoddisfazione perpetua nei suoi cittadini, in quanto la repressione degli istinti provoca inevitabilmene della frustrazione.

Da questo saggio è tratto il beve post di oggi, nel quale Freud affronta ed analizza il ben noto (e teoricamente rivoluzionario) comandamento cristiano che ci invita ad “amare” il nostro prossimo senza riserve. Le sue conclusioni sono chiarissime e non lasciano spazio ad alcuna ambiguità.

LUMEN


<< Una delle cosiddette pretenzioni ideali della società civilizzata [è] quella che dice: “amerai il prossimo tuo come te stesso”.

E’ una pretesa nota in tutto il mondo, certamente più antica del cristianesimo, che la ostenta come la sua più grandiosa dichiarazione, ma certamente non antichissima; sono esistite perfino epoche storiche in cui era ancora estranea al genere umano.

Proponiamoci di adottare verso di essa un atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di sorpresa e disappunto. Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può derivare? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo capaci?

Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho il diritto di gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (trascuro i vantaggi che egli mi può arrecare e anche il suo eventuale significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi due tipi non hanno nulla a che vedere col precetto di amare il prossimo).

Costui merita il mio amore se mi assomiglia in certi aspetti importanti, talché in lui io possa amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, poiché il dolore del mio amico, se gli accadesse qualcosa, sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere.

Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva, amarlo mi sarà difficile. E se ci riuscissi, sarei ingiusto, perché il mio amore è stimato da tutti i miei cari un segno di predilezione; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere un estraneo sullo stesso piano.

Ma se debbo amarlo di quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un abitante di questa terra, al pari di un insetto, di un verme, di una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tutto quello che secondo il giudizio della ragione sono autorizzato a serbare per me stesso.

A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale.

Se osservo le cose più da vicino, le difficoltà aumentano. Non solo questo estraneo generalmente non è degno d’amore, ma onestamente devo confessare che avrebbe piuttosto diritto alla mia ostilità e persino al mio odio.

Sembra non avere il minimo amore per me, non mi mostra la minima considerazione. Se gli fa comodo, non esita a danneggiarmi, senza nemmeno domandarsi se il vantaggio che ricava sia proporzionato alla gravità del danno che mi procura.

Anzi, non c'è nemmeno bisogno che ne tragga un vantaggio; pur di soddisfare in tal modo una sua voglia qualunque, non ci pensa due volte a schernirmi, offendermi, calunniarmi, ad ostentare il potere che ha su di me, e quanto più lui si sente sicuro, quanto più io sono privo di difesa, tanto più sicuramente posso aspettarmi da lui un tale comportamento contro di me.

Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo mostrasse rispetto e indulgenza, io a buon conto, a parte qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nella stessa maniera. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te”, non avrei niente in contrario.

C’è un secondo comandamento che mi sembra ancora più incomprensibile e che solleva in me un’opposizione ancora più violenta. E’: “ama i tuoi nemici”. Riflettendoci, ho torto a considerarlo una pretesa ancora più assurda. In fondo è la medesima cosa. (...)

Mi par di sentire ora una voce che mi ammonisce gravemente: proprio perché il prossimo non è amabile ed è anzi tuo nemico, lo devi amare come te stesso. Ma allora io capisco che questo è un caso simile a quello del credo quia absurdum.

Ora, è molto probabile che il prossimo, se è invitato ad amarmi come se stesso, risponderà esattamente come me e mi respingerà con le stesse ragioni. Spero non con lo stesso diritto oggettivo, ma lo stesso penserà anche lui. >>

SIGMUND FREUD

venerdì 20 novembre 2020

Sesso e volentieri

Secondo i biologi gli elementi fondamentali che caratterizzano gli Esseri Viventi sono 6, e precisamente:
Omeostasi: la regolazione dell'ambiente interno per mantenerlo costante - Metabolismo: la conversione di materiali chimici in energia per l'organismo - Crescita: l'aumento delle dimensioni utile per migliorare la sopravvivenza - Interazione: la risposta appropriata agli stimoli dell'ambiente - Riproduzone: la produzione di nuovi esseri simili a sé stesso - Adattamento: la capacità di evolversi lungo le generazioni.
La Riproduzione, a sua volta – come noto - può essere 'asessuata', quando un organismo genera copie identiche di se stesso, oppure 'sessuata', quando la generazione di un nuovo individuo deriva dalla fusione di due nuclei cellulari diversi, provenienti, di norma, da due individui diversi.
Alla riproduzione sessuata ed ai suoi vantaggi evolutivi è dedicato il post di oggi, scritto da Andrea Sacchi per 'Scienza in Rete'.
LUMEN


<< Oltre alla ben più famosa selezione naturale, nei suoi scritti Charles Darwin descrive anche un altro fenomeno selettivo quasi opposto, ossia la selezione sessuale.

Questo contrasto apparente deriva dal fatto che la riproduzione sessuale e i caratteri sessuali secondari (non legati direttamente agli organi genitali), sono spesso costosi a livello biologico. Basti pensare alla coda del pavone o ai canti ininterrotti delle cicale, il cui unico scopo è soltanto attirare una femmina per potersi accoppiare. Eppure, nonostante ciò, la riproduzione sessuale è un meccanismo saldamente fissato nel corso dell’evoluzione.

Il sesso (e di conseguenza la riproduzione sessuale) si è evoluto tra 2,5 e 3,5 miliardi di anni fa, e da allora il meccanismo è rimasto ampiamente conservato. Questo comporta però evidenti svantaggi: innanzitutto la necessità di un partner con il quale accoppiarsi, oltre ad una complessità anatomica e strutturale maggiore (ossia organi appositi).

Riprodursi senza sesso? Si può fare!

Gli organismi più semplici, come per esempio i batteri, non hanno sesso e si riproducono asessualmente, generando copie identiche di se stessi. Esistono anche organismi pluricellulari (formati cioè da più cellule) che si riproducono senza sesso: le spugne di mare (comprendenti l’intero phylum Porifera), come molti tra gli organismi marini più semplici, ne sono un esempio.

La riproduzione di questi esseri avviene per partenogenesi: ogni spugna genera cioè una spugna figlia identica alla spugna madre. Questi organismi sono di un unico sesso, e generalmente indicati come di sesso femminile (avendo la capacità di dare la vita a un organismo figlio, seppur identico alla madre).

Non esistono maschi e nessuna spugna necessita di un maschio per riprodursi. Se fossero in grado, non genererebbero neppure figli di sesso maschile perché, energeticamente parlando, sarebbe uno spreco.

Riprodursi con il sesso? Forse è meglio…

A eccezione di questi organismi più semplici, il resto del regno animale è però caratterizzato da una riproduzione sessuata, ossia con due differenti generi (maschile e femminile). I due individui forniscono ciascuno, attraverso i gameti (cellula uovo e spermatozoi), la metà del materiale genetico necessario per la creazione di un nuovo individuo.

Nel caso di Homo sapiens, lo spermatozoo contiene 23 cromosomi e gli altri 23 l’uovo. Con l’unione di queste due cellule si viene così a creare una cellula diploide, ossia con tutti e 46 i cromosomi necessari alla vita, che in seguito a numerose trasformazioni darà poi origine a un embrione.

Il processo di ricombinazione del materiale genetico ha però anch’esso un costo energetico, che si somma ai costi energetici dell’accoppiamento, del corteggiamento, della ricerca del partner e così via. Potremmo definire tutta questa spesa in termini biologici un “bio-costo”, necessario però alla riproduzione.

Il sesso è quindi costoso ma diffusissimo nel regno animale e deve allora conferire qualche vantaggioselettivo alle specie che lo praticano.

Tutti i biologi concordano sul fatto che il punto chiave della riproduzione sessuata è che questa sia in grado di introdurre variabilità genetica, ossia (grazie al ri-arrangiamento del materiale genetico dei genitori, contenuto nei cromosomi) si generino individui con un nuovo codice genetico, potenzialmente in grado di adattarsi meglio alle modifiche dell’ambiente esterno.

Il sesso risulta così vantaggioso a breve termine per il singolo individuo, perché tra la prole che è in grado di generare (con i suoi stessi geni) è altamente probabile trovarne qualcuno adatto a sopravvivere e a riprodursi a sua volta. Resta però in dubbio il vantaggio effettivo nelle specie che, come l’uomo, hanno elevatissimi costi energetici per la riproduzione, e bassissima fecondità.

Un’ulteriore ipotesi che viene avanzata, riguarda la riparazione dei geni stessi: il danno presente su un cromosoma può essere riparato scambiando la parte danneggiata con il cromosoma omologo (ossia quello corrispondente ma derivato dal gamete del partner, cellula uovo o spermatozoo).

La variazione genetica, secondo questa ipotesi, sarebbe quindi il prodotto dei processi sessuali e non il vantaggio chiave in termini evolutivi, in quanto la riproduzione sessuale stessa si sarebbe evoluta come semplice conseguenza della ricombinazione (effettuata come sistema riparatorio per i geni).

Tutte queste ipotesi hanno però lo svantaggio di poter essere controllate solo in un lungo lasso di tempo: il loro effetto può essere osservato solo in moltissime generazioni successive e l’unico vantaggio a breve termine sembrerebbe essere la lotta contro gli altri organismi competitori (in particolare i parassiti).

In realtà non è ancora stata avanzata un’ipotesi totalmente soddisfacente a riguardo, anche se le caratteristiche principali, qui succintamente riassunte, sono già state ampiamente delineate. Ciò di cui siamo certi è che il sesso porta questi e molti altri vantaggi, motivo per il quale negli ultimi miliardi di anni di evoluzione la tendenza sembra non essersi mai interrotta.

In organismi complessi come Homo sapiens, dove le sovrastrutture culturali e le organizzazioni sociali hanno un ruolo estremamente rilevante nella vita di tutti i giorni, il sesso ha ovviamente assunto valori ben più profondi e radicati. Comprendere però i meccanismi che stanno alla base di tutto ciò, non toglie fascino al sesso, ma aggiunge semmai ancora più suggestione a un fenomeno così ricco e complesso. >>

ANDREA SACCHI

venerdì 13 novembre 2020

I giganti della fede – la Monaca di Monza

Molte sono le strade che portano ai voti religiosi, cioè alla scelta di dedicare la propria vita alla Chiesa, e nessuna può dirsi più sicura di altre, dal momento che il “principale” non esiste e quindi non può inviare la sua chiamata a nessuno.

Vi è una strada, però, che può senza discussioni considerarsi la peggiore, ed è quella di chi è costretto alla vita religiosa dalle pressioni della famiglia, contro la propria volontà.

Il simbolo di questi poveretti può ben essere individuato nella figura della Monaca di Monza, il personaggio immortale creato da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Ed è proprio alla sua triste storia che è dedicato il post di oggi.

LUMEN


<< Era essa l’ultima figliuola del principe ***, un gran gentiluomo milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della città. Ma il concetto indefinito ch’egli aveva del suo titolo gli faceva parere le sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne il decoro; e tutte le sue cure erano rivolte a conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui.

Quanti figliuoli egli s’avesse non appare chiaramente dalla storia; si rileva soltanto ch’egli aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè dei figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nello stesso modo.

La nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi s’ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza.

Quando ella comparve, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa di alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si posero fra le mani; poi immagini vestite da monaca, accompagnando il dono coll’ammonizione di tenerne ben conto, come di cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: “bello eh?”

Quando il principe o la principessa o il principino, che solo dei maschi veniva allevato in casa, volevano lodare l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovassero modo d’esprimer bene la loro idea, se non colle parole: “che madre badessa!” Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Ella era un’idea sottintesa e toccata incidentemente in ogni discorso, che risguardasse i suoi destini futuri.

Se qualche volta la Gertrudina si lasciava andare a qualche atto un po’ tracotante e imperioso, al che la sua indole la portava assai facilmente, “tu sei una ragazzina”, le si diceva: “questi modi non ti si confanno: quando sarai la madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.”

Qualche altra volta il principe, riprendendola di certe maniere troppo libere e famigliari, alle quali pure ella trascorreva assai volentieri, “ehi! ehi!” le diceva: “non son vezzi da una tua pari: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti si conviene, impara fin d’ora a star più in contegno: ricordati che tu devi essere in ogni cosa la prima del monastero: perchè il sangue si porta perchè il sangue si porta tutto dove si va.”

Tutte le parole di questo genere inducevano nel cervello della fanciullina l’idea implicita ch’ella aveva ad esser monaca: ma quelle che venivano dalla bocca del padre, facevano più effetto di tutte le altre insieme. Le maniere del principe erano abitualmente quelle d’un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspirava una immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale.

A sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo di leggieri asserire che egli fosse il feudatario di quel paese.

Comunque sia, egli vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che ivi meglio che altrove la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora.

Nè s’ingannava: la badessa d’allora, e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come suol dirsi, la mestola in mano, trovandosi avvolte in certe gare con un altro monastero, e con qualche famiglia del paese, furono molto liete d’acquistare un tanto appoggio; ricevettero con grande riconoscenza l’onore che veniva loro compartito, e corrisposero pienamente alle intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni del resto assai consonanti al loro interesse.

Gertrude appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto alla mensa, nel dormitorio; la sua condotta proposta alle altre per esemplare; dolci e carezze senza fine, e condito con quella famigliarità un po’ riverente, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che veggiono trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità.

Non che tutte le monache fossero congiurate a trarre la poverina nel laccio: molte ve ne aveva di semplici ed aliene da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sagrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non si accorgevano bene di tutti quei maneggi, parte non discernevano quanto vi fosse di reo, parte si astenevano dal farvi sopra esame, parte tacevano per non fare scandali inutili.

Qualcuna anche, ricordandosi d’essere stata con simili arti condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compatimento della povera innocentina, e lo sfogava col farle carezze tenere e malinconiche sotto le quali ella era ben lunge dal sospettare che ci fosse mistero: e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero.

Ma tra le sue compagne di educazione ve n’erano alcune che sapevano d’essere destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto.

Alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevano elle le immagini varie e luccicanti di sposo, di conviti, di veglie, di ville, di tornei, di corteggi, di abiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, collocato davanti ad un’arnia.

I parenti e le educatrici avevano coltivata e cresciuta in lei la vanità naturale, per farle parer buono il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più affini ad essa, si gettò ben tosto in quelle con un ardore ben più vivo e più spontaneo.

Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva ella che, al far dei conti, nessuno le poteva porre il velo in capo senza il suo assenso, che anche ella poteva torre uno sposo, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che lo avesse voluto; che lo vorrebbe, che lo voleva: e lo voleva in fatti.

L’ idea della necessità del suo consenso, idea che fino allora era stata come inavvertita e rannicchiata in un angolo della sua mente, vi si svolse allora e si manifestò con tutta la sua importanza. Ella la chiamava ad ogni tratto in soccorso, per godersi più tranquillamente le immagini d’un avvenire gradito.

Dietro questa idea però ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e a questa idea l’animo della figliuola era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole.

Si paragonava allora con le compagne, che erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che da principio aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava; talvolta l’odio si esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta la conformità delle inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere una apparente e transitoria intrinsichezza.

Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale, e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire alle altre quella sua superiorità; talvolta non potendo più tollerare la solitudine dei suoi timori e dei suoi desiderii, andava raumiliata in cerca di quelle, quasi ad implorare benevolenza, consigli, coraggio.

Tra queste deplorabili guerricciuole con sè e con altrui, aveva ella varcata la puerizia, e s’inoltrava in quella età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte le idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge ad un corso impreveduto.

Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e di affettuoso che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle sue fantasie.

Si era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che ella poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; quivi dava comandi, e riceveva omaggi d’ogni genere.

Di tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l’aveva ricevuta, non proscriveva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre.

Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la renitenza alle insinuazioni dei suoi maggiori nella scelta dello stato, fossero una colpa, e prometteva in cuor suo di espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.

Era legge che una giovane non potesse venire accettata monaca se prima non era stata esaminata da un ecclesiastico chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro a ciò deputato, affinchè constasse ch’ella vi si conduceva di sua libera elezione: e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che ella avesse con una supplica in iscritto esposto a quel vicario il suo desiderio.

Quelle monache che avevano pigliato il tristo incarico di far che Gertrude si obbligasse per sempre colla minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero uno dei momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e soscrivere una tale supplica. E a fine di indurla più facilmente a ciò, non mancarono di dirle e di ripeterle ciò che era vero, che quella finalmente era una mera formalità, la quale non poteva avere efficacia se non da altri atti posteriori che dipenderebbero dalla sua volontà.

Con tutto ciò la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla scritta. Si pentiva poi di quei pentimenti, passando così i giorni e i mesi in una incessante vicenda di voleri e di disvoleri.

Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel suo fatto, ora per timore di esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di manifestare un marrone. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo e di accattar consiglio e coraggio. V’era un’altra legge, che a quell’esame della vocazione una giovane non fosse ricevuta se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione.

L’anno dall’invio della supplica era già quasi trascorso, e Gertrude era stata avvertita che fra poco ella verrebbe tolta dal monastero e condotta nella casa paterna per istarvi quel mese, e fare tutti i passi necessari al compimento dell’opera ch’ella aveva di fatto incominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma tali non erano più i conti della giovane: invece di fare gli altri passi, ella pensava al modo di tirare indietro il primo.

In tali strette si risolvè d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca e pronta sempre a dar consigli vigorosi. Questa suggerì a Gertrude d’informare per lettera il padre, come ella aveva mutato pensiero; giacchè non le bastava l’animo di cantargli a suo tempo sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo son rari assai, la consigliera fece pagar questo a Gertrude con tante beffe sulla sua dappocaggine.

La lettera fu concertata fra tre o quattro confidenti, scritta di soppiatto, e fatta ricapitare per via di artifizii molto studiati. Gertrude stava con grande ansietà aspettando una risposta che non venne mai.

Se non che alcuni giorni dopo, la badessa, tiratala in disparte, con un contegno di reticenza, di disgusto e di compassione, le toccò un motto oscuro d’una gran collera del principe, e d’una scappata ch’ella doveva aver fatta, lasciandole però intendere che portandosi bene ella poteva sperare che tutto si dimenticherebbe. La giovinetta intese e non osò chiedere più in là. >>

ALESSANDRO MANZONI

venerdì 6 novembre 2020

Economia irrazionale

La teoria economica classica presuppone che i suoi protagonisti appartengano alla categoria del c.d. “Homo oeconomicus”, cioè un uomo le cui principali caratteristiche sono la razionalità (intesa soprattutto come precisione nel calcolo) e la cura esclusiva dei propri interessi individuali, soprattutto in campo economico.

L’homo oeconomicus cerca sempre di ottenere il massimo benessere (vantaggio) per sé stesso, a partire dalle informazioni a sua disposizione, siano esse naturali o istituzionali, e dalla sua personale capacità di raggiungere certi obiettivi.

L’homo oeconomicus, quindi, è visto per definizione come "razionale" nel senso che persegue un certo numero di obiettivi (materiali) cercando di realizzarli nella maniera più ampia possibile e con i costi minori.

Questo è quello che ci racconta la teoria. La realtà dell'economia, però, ci mostra un “homo” ben diverso, molto più impulsivo, istintivo ed irrazionale, tanto da far nascere una nuova disciplina chiamata per l'appunto 'Economia Comportamentale'.

A questi studi è dedicato il post di oggi, scritto da Dario Ronzoni per il sito Linkiesta.

LUMEN


<< Un esempio per cominciare: se, andando a comprare un’agenda che costa 12 euro, il cartolaio confessasse che nel negozio accanto lo stesso modello è venduto a 3 euro, in pochi resisterebbero alla tentazione di girare i tacchi e cambiare negozio (non senza aver ringraziato il generoso cartolaio). Lo stesso, però, è difficile che avvenga se, al momento dell’acquisto di un iPhone da 923 euro, la cassiera vi segnalasse che, nel solito negozio vicino, lo stesso modello costa 914 euro.

Che differenza fa, ci si chiede. Eppure è la stessa cifra, gli stessi nove euro. Nel primo caso si decide di cambiare negozio e nel secondo no, e la ragione è molto semplice: è il principio di relatività, che non ha nulla a che fare con Einstein ma molto con la percezione del denaro e del suo valore. È relativa, appunto, e non assoluta.

Per questo la semplice cifra di nove euro non è percepita allo stesso modo in contesti diversi, ed è sempre per questo motivo che, mentre si compra un’automobile da 30mila euro, l’aggiunta di un accessorio che costa “solo mille euro” appare una sciocchezza. Eppure, in altri contesti, mille euro “pesano” di più.

È solo uno dei casi raccolti da Luciano Canova, docente (tra le varie cose) di Economia Comportamentale (...) e raccontati nel suo libro “Scelgo dunque sono”, edito da Egea. Si tratta di un manuale divulgativo, o meglio “una guida galattica per gli irrazionali in economia”. Perché nonostante le convinzioni degli economisti classici, l’homo oeconomicus non è oeconomicus per la semplice ragione che dovrebbe essere razionale ma, purtroppo, non lo è.

Il libro dimostra che in ogni scelta economica l’uomo è guidato (se non proprio dominato) da una serie di convinzioni, automatismi, vere e proprie fallacie che gli impediscono di fare la scelta più corretta (almeno dal punto di vista economico).

Ad esempio, a nessuno piace pagare. È un fenomeno noto e studiato, che si chiama pain of paying: l’atto stesso di sborsare del denaro è vissuto con difficoltà, provoca dolore. Pagare è quasi “una tassa morale sui consumi”. Per questo conta molto il tempo che viene richiesto e le sue modalità: il dolore si ridurrà quando il tempo impiegato è poco e il contatto con il denaro meno forte.

Si capisce allora che usare le carte di credito, che quasi annullano il pain of paying, condiziona gli acquisti. Lo stesso effetto vale per le fiches nei casinò (chi giocherebbe con la stessa spregiudicatezza se fossero soldi veri?) e, soprattutto, per i prodotti finanziari, che rendono immateriale il denaro, elevandolo quasi a concetto astratto (con tutti i rischi che ne conseguono).

Nonostante le convinzioni degli economisti classici, l’homo oeconomicus non è oeconomicus per la semplice ragione che dovrebbe essere razionale ma, purtroppo, non lo è. La scelta razionale in economia è condizionata dall’incapacità di mantenere, come si è visto sopra, una percezione assoluta del denaro. O dal fatto che si è influenzati dal dolore della perdita. O dal fatto che non si è in grado di mantenere una visione temporale di lungo periodo.

Altro esempio: preferite mezzo pacchetto di caramelle oggi o uno intero tra una settimana? In molti sceglieranno la prima opzione. Ma cosa accade se si offre mezzo pacchetto tra un anno e un pacchetto intero tra un anno e una settimana? Tutti sceglieranno la seconda. Eppure è lo stesso periodo di differenza.

Oppure ancora, dal fatto che un oggetto che ci appartiene tende a essere sopravvalutato (per non parlare di un oggetto costruito da noi – è l’effetto Ikea). O ancora, dalla motivazione nel compiere un progetto e dalla fatica che si mostra nel farlo (si tende a pagare con più soddisfazione, per lo stesso lavoro, coloro che mostrano di averci faticato di più).

L’irrazionalità, insomma, appartiene al dominio del quotidiano – anche se non ce ne si accorge. Non fare errori, cioè agire in modo razionale, diventa sempre più difficile (soprattutto in un mondo sempre più complicato) con il rischio di danneggiare le scelte economiche, sia personali cheaziendali.

Alcuni, come Google, tentano di resistere: per contrastare la tendenza dei “creativi” di Google Labs ad innamorarsi dei propri progetti (che può essere virtuosa se giusta, ma dannosa se significa insistere nel progetto/idea sbagliati), ha scelto di pagarli per ogni idea che mettono da parte. È un modo per compensare la difficoltà di abbandonare un progetto. Altri, invece, hanno adottato una politica di nudge (cioè di piccoli incoraggiamenti) per spingere le persone a comportarsi in un modo anziché in un altro. (...)

In ogni scelta economica l’uomo è guidato (se non proprio dominato) da una serie di convinzioni, automatismi, vere e proprie fallacie che gli impediscono di fare la scelta più corretta. Ma è solo l’inizio. Conoscere il comportamento delle persone e capire i motivi per cui, spesso, si fanno scelte non razionali è importante.

Da un lato, perché permette di evitare errori fatali, specie in campo finanziario – e capita già che gli investimenti operati da un software si rivelino del tutto diversi da quelli compiuti dagli esseri umani, dal momento che non si lasciano influenzare dalle perdite momentanee ma agiscono sul lungo periodo – dall’altro perché permette di pensare politiche nuove e più efficaci.

L’obiettivo, come ricorda di continuo Canova, è la felicità (qualsiasi cosa sia: l’agiatezza economica è solo un criterio). Raggiungerla appare un miraggio. Ma avvicinarsi, ecco, forse quello si può. Facendo, ogni tanto, qualche scelta strana e razionale. >>

DARIO RONZONI