sabato 26 agosto 2023

La mistica del Fascismo

Ho parlato recentemente del Fascismo sotto il profilo più noto, quello socio-economico, ma il movimento fondato da Mussolini è stato anche una sorta di Religione, con la sua mistica, i suoi dogmi ed i suoi riti.
A questo aspetto è dedicato il post di oggi, scritto da Gordano Bruno Gierri e tratto da uno dei suoi libri di maggior successo ('Fascisti').
LUMEN


<< I totalitarismi del XX secolo - fascismo, comunismo, nazismo - rinnegarono lo schema cartesiano fondato sul dubbio che aveva legittimato la libertà individuale e sociale e sul quale si era costruita la coscienza civile moderna. Imposero invece un modello fideistico non molto diverso da quello medioevale, nel quale l'assolutismo religioso diveniva la dimensione suprema che avvolgeva ogni fenomeno dell'esistenza.

Giovanni Gentile scrisse: << Come il cattolico, se è cattolico, investe del suo sentimento religioso tutta la propria vita, e, parli e operi, o taccia e pensi e mediti nella propria coscienza [...] si ricorderà sempre del suo più alto monito della sua mente, per operare e pensare e pregare e meditare e sentire da cattolico; così il fascista, vada in Parlamento, o se ne stia nel Fascio, scriva sui giornali o li legga, provveda alla sua vita privata o conversi con gli altri, guardi all'avvenire o ricordi il suo passato e il passato del suo popolo, deve sempre ricordarsi di essere fascista. >>

Il fascismo dunque non poteva che essere ciò che gli intellettuali e i politici fascisti non si stancarono mai di ripetere, una concezione religiosa della vita che non aveva bisogno né di libertà né di dimostrazioni.

Vale, anche per il regime fascista, l'interpretazione di tipo religioso data da Hans Kohn: << II fanatismo dei totalitari nasce dal carattere assolutista della loro fede. La consapevolezza della verità salvatrice dà loro la fermezza; l'oppositore ha sempre torto; non vi può essere perciò nessun compromesso. In quest'ortodossia secolarizzata, il rigore che nulla teme è un vero servizio per il raggiungimento della meta. La certezza totalitaria della vittoria è fondata su una fiducia escatologica, scevra da connessioni morali. >>

Il fascismo, partito dall' ottocentesco culto della patria, gli sovrappose il nuovo culto del littorio, esasperato poi nel culto di Mussolini, visto non solo come demiurgo ma anche come simbolo e sintesi di tutti gli italiani. Mussolini divenne il dio a cui tutto era possibile e molto era dovuto: rappresentava infatti la miscela micidiale di patriottismo religioso e rivoluzione, ortodossia di valori civili e sradicamento delle norme. Nel duce gli italiani adoravano se stessi, soddisfatti di un uomo-mito che li rappresentasse e li elevasse tutti, purché non chiedesse altro sforzo · che quell'identificazione.

A differenza della classe dirigente liberale - che non conosceva il popolo e ne provava intimamente ribrezzo - quella fascista giunse a idealizzarlo e a sedurlo: non solo infatti lo conosceva bene, ma fu anche capace di catturarne l'energia. Il regime però aveva una reale spinta rivoluzionaria, la più ambiziosa: formare l' «italiano nuovo», educandolo al senso della guerra, necessità ineliminabile che presto o tardi sarebbe divenuta il destino di ognuno; alla socializzazione, momento altissimo dello spirito e base indispensabile per la costituzione di una nazione forte; alla consapevolezza della propria missione nel mondo.

Per arrivare a una trasformazione così drastica il regime aveva bisogno appunto di un consenso religioso che però esisteva soprattutto a due livelli: quello popolarissimo delle campagne e dell'ignoranza, dove l'informazione era minima e Mussolini veniva considerato né più né meno alla stregua di un santo che aveva «fatto del bene» e che sempre avrebbe potuto farne; quello ideologizzato dei giovani, degli studenti, degli intellettuali, degli appassionati di politica che volevano partecipare alla rivoluzione fascista.

In mezzo a questi due c'era il livello della maggioranza (i fedeli della domenica), che senza fanatismi apprezzavano l'ordine, l'orgoglio e le realizzazioni del regime. L'antifascismo invece - attivo o umorale - si manifestava quasi soltanto nei primi due livelli: quello popolare, in ricordo di un passato in cui si sognava tutt'altra rivoluzione, e quello intellettuale.

Per cambiare gli italiani il regime fece leva pure – più inconsciamente che consapevolmente, perché anche i fascisti erano italiani - sulle loro debolezze ataviche, sulla loro religiosità intrisa di elementi paganeggianti, sulla scarsissima educazione alla democrazia, sull'inclinazione alla procrastinazione e all'attesa del soprannaturale, sul bisogno - inalterato nel corso dei secoli - di delegare il proprio destino a un principe.

Era un popolo che si atteggiava a duro e forte mantenendo tutte le debolezze di un carattere formato nei secoli: l'esibita fede religiosa scarsamente applicata, la doppia morale, l'ipocrisia di fondo, l'essere debole con i forti e forte con i deboli, l'apparire e il non essere.

Anche per questo gli italiani si fusero entusiasticamente con un regime cui somigliavano. In genere, però, quale popolo opportunista, facevano mostra di ortodossia ma accettavano del regime quanto piaceva loro e rifiutavano intimamente le spinte a una trasformazione reale della società.

Com'è ovvio, pretendere di cambiare un popolo nel giro di pochi anni - con un modello più idealizzato che reale e un rituale di potenza che strideva con la realtà del Paese - conduceva molto spesso al ridicolo: ma nessuna religione ha paura del ridicolo anzi, più i suoi riti sono assurdi, irrazionali, risibili, più esercita suggestione, quindi potere, sui fedeli. (…)

Italiani e fascismo procedettero felicemente solidali finché il regime si limitò a chiedere ai fedeli prima di tutto un'adesione formale ed esteriore, non essendo alla portata di ciascuno una fede intensa e praticata nell'intimo.

Materialmente stroncato dalle sconfitte militari, il fascismo perse la sua vera guerra non riuscendo a rendere «religiose» le masse borghesi che lo appoggiavano ma che non erano disposte a condividerne fino in fondo il misticismo rivoluzionario fatto di fede cieca e assoluta in se stesso e di spirito guerriero: tanto più quando il regime si volse proprio contro lo «spirito · borghese», inteso come spirito «di soddisfazione e di adattamento, tendenza allo scetticismo, al compromesso, alla vita comoda, al carrierismo. >>

GIORDANO BRUNO GUERRI

domenica 20 agosto 2023

Sempre più veloce

L'Intelligenza Artificiale, nonostante le dichiarazioni entusiastiche dei suoi creatori, presenta numerosi punti oscuri ed infonde una sensazione di timore e diffidenza nella gente comune.
Il pericolo maggiore, però, paradossalmente, potrebbe risiedere proprio nella sua maggiore efficienza.
Ce ne parla Jacopo Simonetta in questo pezzo tratto dal sito Apocalottimismo.
LUMEN



<< [A proposito dell'Intelligenza Artificiale] c’è un rischio profondo di cui la stampa parla poco e che i pensatori sistemici dovrebbero discutere più approfonditamente: si tratta della probabilità che la IA sia un acceleratore significativo di tutto ciò che noi umani stiamo già facendo.

Le ultime migliaia di anni di storia umana hanno già visto diversi acceleratori critici. La creazione dei primi sistemi monetari, circa 5.000 anni fa, ha permesso una rapida espansione del commercio che alla fine è culminata nel nostro sistema finanziario globalizzato. Le armi metalliche hanno reso più letali le guerre, portando alla conquista di società umane meno armate da parte di regni e imperi dotati di metallurgia.

Gli strumenti di comunicazione (tra cui la scrittura, l’alfabeto, la stampa, la radio, la televisione, Internet e i social media) hanno amplificato il potere di alcune persone di influenzare le menti di altre. E, nell’ultimo secolo o due, l’adozione dei combustibili fossili ha facilitato l’estrazione delle risorse, la produzione manifatturiera, la produzione alimentare e i trasporti, consentendo una rapida espansione economica e la crescita della popolazione.

Di questi quattro acceleratori del passato, l’adozione dei combustibili fossili è stata la più potente e problematica. In soli due secoli il consumo di energia pro capite è aumentato di otto volte, così come le dimensioni della popolazione umana. Il periodo successivo al 1950, che ha visto un drammatico aumento della dipendenza globale dal petrolio, ha visto anche la più rapida crescita economica e demografica di tutta la storia umana. Non per nulla gli storici lo chiamano la “Grande Accelerazione”.

Gli economisti neo-liberali acclamano la Grande Accelerazione come una storia di successo, ma i conti stanno appena iniziando a essere pagati. L’agricoltura industriale sta distruggendo il suolo terrestre a un ritmo di decine di miliardi di tonnellate all’anno. La natura selvaggia è in ritirata: le specie animali hanno perso, in media, il 70% dei loro effettivi nell’ultimo mezzo secolo.

E stiamo alterando il clima planetario in modi che avranno ripercussioni catastrofiche sulle generazioni future. È difficile evitare la conclusione che l’intera impresa umana è cresciuta troppo e che sta trasformando la natura (“risorse”) in rifiuti e inquinamento troppo velocemente per potersi sostenere. L’evidenza suggerisce che dobbiamo rallentare e, almeno in alcuni casi, invertire la rotta riducendo la popolazione, il consumo e i rifiuti.

Ora, mentre affrontiamo una poli-crisi globale di tendenze ambientali e sociali convergenti e spaventose, è nato un nuovo acceleratore sotto forma di IA. Questa tecnologia promette di ottimizzare l’efficienza e aumentare i profitti, facilitando così, direttamente o indirettamente, l’estrazione e il consumo delle risorse.

Se ci stiamo effettivamente dirigendo verso un precipizio, l’IA potrebbe portarci sull’orlo del baratro molto più velocemente, riducendo il tempo a disposizione per cambiare direzione. Ad esempio, se l’intelligenza artificiale rende più efficiente la produzione di energia, significa che l’energia sarà più economica, quindi troveremo ancora più usi per essa e ne useremo di più (un fenomeno noto come “paradosso di Jevons”.

Internet e le funzioni di ricerca avanzate hanno già cambiato le nostre capacità cognitive. (...) In un certo senso, abbiamo già fuso le nostre menti con le tecnologie basate su Internet e sui computer, in quanto dipendiamo totalmente da esse per svolgere alcune attività di pensiero al posto nostro.

L’intelligenza artificiale, in quanto acceleratore di questa tendenza, presenta il rischio di un’ulteriore riduzione delle capacità mentali dell’umanità, tranne forse per coloro che scelgono di farsi imiantare un computer nel cervello. E c’è anche il rischio che le persone che sviluppano o producono queste tecnologie controllino praticamente tutto ciò che sappiamo e pensiamo, perseguendo il proprio potere ed il proprio profitto.

Daniel Schmachtenberger (...) ha spiegato che l’IA può essere vista come un’esternalizzazione delle funzioni esecutive del cervello umano. Affidando le nostre capacità logiche e intuitive a sistemi informatici, è possibile accelerare tutto ciò che la nostra mente fa per noi. Ma all’intelligenza artificiale manca un aspetto fondamentale della coscienza umana: la saggezza, il riconoscimento dei limiti unito alla sensibilità per le relazioni e per i valori che danno priorità al bene comune (pare però che anche gli alti dirigenti umani che danno prova di saggezza e si preoccupano del bene comune non siano poi tanti - NdT).

Il nostro barattare la saggezza con il potere è probabilmente iniziato quando le nostre abilità linguistiche e di costruzione di strumenti hanno reso possibile a un piccolo sottoinsieme dell’umanità, che viveva in determinate circostanze ecologiche, di iniziare un processo di evoluzione culturale auto-rinforzante guidato dalla selezine a più livelli. Persone con armi migliori, che vivevano in società più grandi, hanno sempre soggiogato persone con strumenti più semplici e società più piccole.

I vincitori hanno visto questo come un successo, quindi sono stati sempre più incoraggiati a rinunciare alla consapevolezza dei limiti ambientali e sociali, conoscenze conquistate a fatica che hanno permesso alle società indigene di continuare a funzionare per lunghi periodi di tempo, a favore di una sempre maggiore innovazione e potere a breve termine.

I combustibili fossili hanno mandato in tilt questo processo di feedback auto-rinforzante, producendo così tanti benefici e così velocemente che molte persone potenti sono arrivate a credere che non ci siano limiti ambientali alla crescita e che la disuguaglianza sia un problema che si risolverà da solo quando tutti si arricchiranno grazie all’espansione economica.

Ora, proprio nel momento in cui abbiamo più bisogno di frenare l’uso dell’energia e il consumo di risorse, ci ritroviamo a esternalizzare non solo l’elaborazione delle informazioni, ma anche il nostro processo decisionale a macchine che mancano completamente della saggezza necessaria per comprendere e rispondere alle sfide esistenziali che l’accelerazione precedente ha posto. Abbiamo davvero creato apprendista stregone. (...)

Schmachtenberger ritiene che l’unica soluzione sia che i progettisti di sistemi umani infondano saggezza all’IA. Ma, naturalmente, gli stessi sviluppatori dovrebbero prima coltivare la propria saggezza per trasferirla poi alle macchine. E se i programmatori avessero tale saggezza, potrebbero magari esprimerla prima di tutto rifiutandosi di sviluppare l’IA. E così, torniamo a noi stessi.

Noi umani tecnologici siamo la fonte delle crisi che minacciano il nostro futuro. Le macchine possono accelerare notevolmente questa minaccia, ma probabilmente non possono ridurla in modo significativo. Questo dipende da noi. O recuperiamo la saggezza collettiva più velocemente di quanto le nostre macchine riescano a sviluppare un’intelligenza esecutiva artificiale, o probabilmente il gioco sarà finito. >>

JACOPO SIMONETTA

domenica 13 agosto 2023

Pensierini – LX

L'UMILTA' DEI SANTI
Le agiografie dei Santi sono piene di episodi di sofferenze e di martirio, ai limiti del masochismo.
Santa Teresa d’Avila – tanto per fare un esempio che mi è stato raccontato - diceva che se Dio l'avesse condannata all’inferno per l’eternità ne sarebbe felice e avebbe continuato a lodare Dio. Perchè aderendo alla Sua volontà fino all’estremo, si sarebbe identificata con Dio e sarebbe diventa in un certo senso Dio stesso.
Ovviamente è difficile credere che chi soffre le pene dell’inferno (che una volta era visto come un vero tormento fisico) possa essere al tempo stesso felice: sofferenza e felicità sembrano concetti incompatibili.
Ma forse una spiegazione logica esiste. I Santi, infatti, sono anche loro esseri umani e come tali cercano la superiorità.
Ma siccome il massimo della superiorità (per loro) è rappresentata da Dio, ecco che sentirsi come lui costituisce la massima aspirazione della loro vita; qualunque siano le difficoltà (vere o immaginarie) da sopportare.
E la loro tanto sbandierata umiltà, finisce, senza volerlo, per trasformarsi nel suo opposto.
LUMEN


INTELLIGENZA E CREDULITA'
Una cosa curiosa a proposito delle capacità cerebrali è che gli animali, che si presumono (e sono) meno intelligenti di noi, NON credono in un dio inesistente.
Noi umani, invece, che ci consideriamo (e siamo) molto più intelligenti di loro, ci crediamo.
Si potrebbe quasi pensare (e qualcuno lo ha detto) che gli uomini sono più intelligenti proprio perchè sono più creduloni.
Un bel paradosso, no ?
LUMEN


PATRIA
Il concetto di patria nasce con la tribù ed ha un significato strettamente genetico, perchè serve ad indirizzare in modo utile il comportamento altruistico dei membri (che sono tutti, in qualche modo, imparentati tra loro).
Con il passaggio dalla Tribù allo Stato tutto diventa virtuale ed illusorio, perchè i collegamenti genetici non ci sono più (o sono ormai esilissimi).
Però - siccome i tempi culturali sempre più rapidi delle modifiche genetiche - il concetto di Patria continua ugualmente a funzionare anche oggi.
E quindi i reggitori dello Stato, che queste cose le sanno benissimo, ne approfittano tutte le volte che ne hanno bisogno.
LUMEN


DIFFERENZE E DISUGUAGLIANZE
Anche se la cosa non ci piace, le differenze (a partire da quelle genetiche, che non sono colpa di nessuno) portano alle disuguaglianze e se le differenze (come spesso accade) sono notevoli, anche le disuguaglianze diventano notevoli.
E ci danno, giustamente, fastidio.
Ma, una volta raggiunta l'eguaglianza giuridica, che è già un traguardo molto importante, intervenire sulle disuguaglianze imponendo altre regole può diventare pericoloso, perchè occorre stabilire in che misura e con quali metodi intervenire, e si può cadere facilmente in arbitrii anche peggiori.
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DISSENSO
Se si vanno a verificare i finanziatori dei principali gruppi di dissenso del mondo occidentale, ci si accorge  con un certo stupore, che si tratta molto spesso (anzi quasi sempre) di grandi poteri finanziari.
La cosa può sembrare paradossale, ma ha una sua logica ben precisa in quanto è la semplice applicazione della prima legge delle Elites: 'Dissenso finanziato, dissenso controllato'.
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CAPITALISMO DELLA DECRESCITA
Gli economisti sono concordi nell'affermare che il capitalismo si basa sulla crescita continua, per cui quando incomincerà la decrescita (che arriverà di sicuro e che non riusciremo ad evitare) il capitalismo si troverà in difficoltà a gestire la situazione e, secondo l'opinione comune, finirà per essere sostituito da qualche altro meccanismo socio-economico.
L'ipotesi è plausibile. Gli ultimi secoli, però, ci hanno insegnato a non sottovalutare troppo le capacità camaleontiche di adattamento del capitalismo. 
E quindi non sarei troppo sorpreso se, alla fine, le elites capitalistiche riuscissero ad inventarsi un modo per gestire anche la decrescita.
LUMEN
 

lunedì 7 agosto 2023

La settima Arte – (2)

Il post di oggi è nuovamente dedicato al cinema (la 'settima arte') e contiene la recensione di altri 3 film famosi, scelti fra i miei preferiti. Anche in questo caso, i testi sono tratti dal sito 'Gli Spietati'.
LUMEN



I TRE GIORNI DEL CONDOR

TRAMA - Joe Turner, ricercatore della CIA, si salva per puro caso dalla strage in cui cadono i suoi colleghi. Presto scopre di non potersi fidare dei superiori, e di doversi salvare da solo. Non è detto che ci riesca.

<< Il film coglie perfettamente la temperie di anni che videro l'orizzonte luminoso della Nuova Frontiera intorbidirsi di trame oscure (il Watergate), intrighi internazionali (il colpo di Stato in Cile tramato dalla CIA), prospettive angosciose. La perdita dell'innocenza vissuta, anche per il sanguinoso fallimento del Vietnam, dalla coscienza collettiva degli U.S.A. diffuse ovunque i suoi riverberi (...), e il Condor si colloca in tale contesto opponendosi alla (…) agiografia ufficiale.

Al centro del dramma sta l'uomo comune, la cui inflessibile limpidezza lo spinge a sfidare coraggiosamente chi complotta nella partita del potere (e del petrolio); è il paradigma hitchcockiano, senza l'umorismo di Hitchcock e con una cupezza di fondo senz'altro giustificata dalla materia lutulenta.

Il ritmo è serrato (con la prima macrosequenza eccezionale per costruzione drammatica e scenica), e l'aspra inquietudine priva di catarsi non cessa di turbare. L'intatta forza del film dipende certo dalla sobrietà stilistica immune da smancerie romantiche (il rapporto fra Joe e Kathy si regge su un'ammirevole tensione, e la scena di sesso trasmette tutta la disperazione e la furia di cui è pervasa), ma pure da un fattore oggi negletto in tanto cinema virtuosistico e indiavolato: l'assenza della fretta.

Le sospensioni dell'azione sono utili ad affezionarsi ai protagonisti, il cui profilo viene curato con brevi tocchi efficaci - le fotografie scattate da Dunaway, l'affetto di Redford per l'amica ignara - e non mortificano il crescendo della tensione (la scena dell'ascensore, così elementare all'apparenza) anche per il soccorso di espedienti di solido mestiere, come il montaggio alternato che illustra le mosse del sicario. Lezione per i registi ambiziosi: orditi complicati che piombano i personaggi nell'impotenza e nel disagio risaltano meglio dalla trasparente vigoria dello stile di Pollack. >> (Hans Ranalli)


IL CASO SPOTLIGHT

TRAMA - Quando “Spotlight”, il tenace team di reporter del Boston Globe, scava nelle accuse di abuso contro la Chiesa cattolica, la lunga indagine svela l’insabbiamento che per decine di anni ha protetto i livelli più alti del sistema religioso, legale e amministrativo della città, rivelandolo a tutto il mondo.

<< Film di sapore quasi retrò, l’opera di Tom McCarthy rievoca quel cinema civile americano anni Settanta che metteva in scena battaglie e inchieste giornalistiche, gettando luce su scandali e malcostume.

Su quel solco (Lumet è, per il regista, un mentore dichiarato) la messa in scena del lavoro di indagine svolto dal team Spotlight del Boston Globe (vincitore per questo reportage investigativo del premio Pulitzer) sui casi di pedofilia a Boston (numeri impressionanti: 249 sacerdoti implicati, quasi 1500 vittime), su cardinali che hanno sempre saputo, su documenti sigillati, su omertà inaccettabili, rende conto, con la limpidezza argomentativa propria di una cultura cinematografica (quella hollywoodiana, che non sacrifica comunque mai il lato spettacolare) delle subdole tecniche di persuasione, degli abusi anche piscologici esercitati dai ministri della Chiesa, delle sottili strategie per circoscrivere e neutralizzare le conseguenze pubbliche del fenomeno e puntualmente insabbiarlo attraverso laboriose procedure.

Degli accordi sottobanco, delle risoluzioni bonarie lontane da qualsiasi forma di ufficialità, di come le autorità ecclesiastiche non abbiano fatto mai nulla per arginare gli episodi o per mettere in guardia le potenziali vittime delle violenze. La ricerca di testimoni e l’ottenimento della loro fiducia fanno comprendere ai giornalisti della testata le dimensioni reali del caso, quali segni questo ha lasciato sulle persone coinvolte (condannate a convivere con quell’esperienza per tutta la vita), quanto duro sia ingaggiare un confronto con un’istituzione come la Chiesa Cattolica. Cosa vuol dire, in definitiva, farle causa.

Colpisce, soprattutto in un paese come il nostro che un film del genere non se lo può politicamente permettere (...), la denuncia a chiare lettere di un comportamento che non si esita a definire sistematico e predatorio, l'esposizione lineare delle dimensioni del fenomeno e della sua natura (si proclama a chiare lettere che esso, essendo di natura psichiatrica, è indissolubilmente legato al modus vivendi del clero).

Il tutto narrato in modo piano e classico, con uso cosciente di cliché di genere e attraverso vari fili (i percorsi dei singoli giornalisti) con un rigoroso crescendo, senza patetismi (nessuna enfasi o svenevolezza) né trionfalismi (se è vero che sono il team e il suo lavoro il vero centro del film, non si tace sul fatto che il Boston Globe avesse evidenza degli avvenimenti già dieci anni prima dell'inchiesta), con superba resa delle dinamiche ambientali. Gli ottimi interpreti fanno il resto. >> (Luca Pacilio)


VI PRESENTO JOE BLACK

TRAMA - La Morte fa un patto con un milionario morituro: se la guiderà alla scoperta della Vita, gli darà più tempo per vivere. Prende le sembianze di un giovane di cui si è innamorata sua figlia.

<< [Il film] è un rifacimento di 'La morte in vacanza' di Mitchell Leisen del 1934, di cui ripropone le ambientazioni di lusso (scenografie di Dante Ferretti), l’unione bizzarra di serio e faceto, l’anomala accoppiata maschile (...), ma con una traccia d’amore stregato di maggiore impatto.

Entrambe le opere, poi, condividono la poco elegante ipotesi che la Morte, per cogliere il meglio della vita, scelga un uomo ricco e si materializzi in un adone che dà ai potenti l’ulteriore privilegio di contrattare. Nella nuova versione l’intuizione pare più intrigante delle premesse con zuccherosa traccia sentimentale agita da super-belli, prevedibile conclusione e fare moraleggiante (gli affetti familiari e non il lavoro, l'amore monogamo e per sempre, davanti alla morte tutto si ridimensiona: Leisen era più speculativo).

Ma accade il miracolo, lo schermo inghiotte magnetico lo sguardo e ritrova l'incanto perduto delle migliori pellicole della Hollywood classica (non a caso, echeggiano brani musicali di allora, per lo più di Irving Berlin): gli incontri fra Brad Pitt e Claire Forlani tolgono il fiato. Quello di Pitt è un ruolo difficile, giocato fra i divertenti imbarazzi del pesce fuor d’acqua di Starman e l’estrema sicurezza di sé dell’onnipotente: l’attore è a tratti spaesato e gli autori non hanno saputo agevolarlo con tracce coerenti.

La vera sorpresa è la luce che emana Claire Forlani: nei suoi occhi sedotti (degni di Vivien Leigh, Veronica Lake, Greta Garbo: quando bastava un’attrice a fare la differenza) si specchia un'orgia d'amore e commozione che travolge lo spettatore ben disposto. Brest coglie tale potenzialità, il suo cine-occhio s’innamora degli innamorati e li guida magistralmente mentre si esplorano, si assaporano, si desiderano. Lo zucchero diventa miele pregiato.

Senza dimenticare la grande prova di Anthony Hopkins, schiacciato fra il dramma "finanziario" e quello della Morte che conosce (ricorda, nel suo caso) la bellezza della vita: il detto “A pagare e a morire si fa sempre in tempo” è centrato. Una favola nera in rosa e viceversa. >> (Niccolò Rangoni Machiavelli)


martedì 1 agosto 2023

Condannati alla Guerra

Quello della “guerra” è uno dei problemi più importanti, delicati ed angoscianti della storia umana, ed è stato affrontato da moltissimi pensatori, alla ricerca delle possibili soluzioni.
Tra i contributi più famosi, si può citare quello di Immanuel Kant che, nel suo saggio 'Per la pace perpetua', proponeva un governo unico mondiale, ma il progetto mi sembra di difficile applicazione, perchè il mondo è troppo vasto e le differenze tra i vari popoli e le loro culture mi appaiono insuperabili.
Dato il mio pessimismo, ho deciso pertanto di dedicare questo post al sociologo americano John J. Mearsheimer, che sul tema della guerra (vista come inevitabile) ha compiuto studi molto approfonditi.
Il testo, scritto da Umberto Catanzariti, è tratto dal sito 'Sociologicamente'.
LUMEN

 

<< Secondo John J. Mearsheimer, politologo americano (…) appartenente alla scuola 'realista', il pericolo della guerra è ineliminabile, non a causa della natura umana, ma a causa dell’architettura del sistema internazionale.

Questo scatena la competizione per la sicurezza e spinge gli Stati a lottare continuamente per aumentare la propria quota di potere nel sistema internazionale. Gli Stati temendosi a vicenda cercano di accrescere il proprio potere, nel fare ciò rendono insicuri gli altri Stati, i quali reagiscono impiegando la stessa strategia.

Ciò che è realmente decisivo non è la volontà dei singoli Stati ma l’intenzione che ognuno attribuisce all’altro. Le grandi potenze anche quando ambiscono alla Pace passano gran parte del loro tempo nel vortice delle profezie che si autoavverano perchè vivono nel timore di essere attaccati.

La logica di potenza

Per essere una grande potenza, “uno Stato deve disporre di risorse militari sufficienti a “vendere cara la pelle” in una guerra convenzionale totale con lo stato più potente del mondo”

Secondo la teoria offensiva di Mearsheimer, scopo primario di ogni Stato è acquisire quanto più potere possibile a danno di altri Stati; diventare egemone e massimizzare la propria quota di potere mondiale. Le Potenze non si accontentano della distribuzione del potere esistente e non esistono Potenze dedite allo status quo nel sistema internazionale.

Le grandi Potenze sono sempre pronte all’offesa, anche solo per garantire la propria sicurezza. È interessante sottolineare come la sua teoria non consideri i comportamenti individuali o le ideologie di uno Stato come questioni rilevanti ciò che conta è la quantità di potere relativa, ossia le capacità militari di uno Stato.

Il potere è rappresentato dalle specifiche risorse materiali di cui uno Stato dispone, dall’influenza e dal controllo che uno Stato esercita su di un altro. Certo le risorse materiali non assicurano da sole l’esito positivo di una guerra, poiché intervengono una serie di fattori non materiali ad influenzarne l’esito come la strategia, la determinazione, lo spionaggio, il clima, ma di certo esse accrescono di molto le probabilità di successo.

Competizione per la sicurezza… e per la sopravvivenza

Mearsheimer sostiene l’impossibilità, per le grandi Potenze, di perseguire un ordine pacifico mondiale stante la difficoltà che gli Stati incontrano nel concordare su una formula generale, in grado di garantire una pace certa. Gli stessi politici sarebbero incapaci di pervenire ad una visione comune su come creare un mondo stabile.

Per quanto uno Stato si sforzi di promuovere la pace internazionale, non avrà mai la garanzia di riuscire a scongiurare eventuali aggressori. Non è solo la paura del tradimento ad ostacolare il mantenimento di una condizione di cooperazione, ma anche la considerazione del guadagno relativo, ovvero del modo in cui verranno distribuiti, tra gli Stati, profitti e perdite.

Non solo: la stessa cooperazione non impedisce lo scoppio di una guerra . Questo perché il principio dominante è sempre quello della logica della competizione per la sicurezza, ovvero per la sopravvivenza.

È la struttura del sistema internazionale e non la volontà di potenza dei singoli Stati, a indurre le grandi Potenze a ricercare l’egemonia e ad agire conseguentemente: il potere, dunque, sta al centro della politica internazionale.

E il potere effettivo di uno Stato dipende dalla dotazione delle sue forze militari. Non semplicemente la ricchezza dunque, ma le specifiche forze materiali di cui uno Stato dispone rendono contezza della potenza di quello Stato, o meglio quanta parte della sua ricchezza viene destinata alla difesa.

Come operano le grandi Potenze

Secondo Mearsheimer ogni Potenza persegue quattro obiettivi:

= l’egemonia regionale;
= il controllo della maggior percentuale possibile di ricchezza mondiale;
= il dominio dell’equilibrio di terra nel proprio emisfero;
= la superiorità nucleare.

Le strategie di sopravvivenza che le grandi Potenze utilizzano per modificare l’equilibrio di potenza a proprio vantaggio sono:

= la guerra, in primo luogo;
= il ricatto, ossia la minaccia di ricorrere alla forza;
= il bait and bleed ossia nell’indurre i rivali a indebolirsi a vicenda;
= la strategia del bilanciamento e dello scaricabarile, ovvero scoraggiare l’aggressore o indurre un’altra Potenza a contenerlo;
= infine, l’appeasement e il bandwagoning: tecniche entrambe giudicate inefficaci perché basate, la prima, sulla concessione di potere allo stato rivale e la seconda, sull’unirsi alle forze del nemico.

Le strategie utilizzate più frequentemente sono: la guerra, il bilanciamento e lo scaricabarile: queste ultime mirano a mantenere l’equilibrio di potere esistente, non ad alterarlo. Il che, secondo Mearsheimer, altro non è che “realismo difensivo”.


Conclusioni 

Ragionando in base alla logica per cui è sempre la capacità offensiva di uno Stato a preoccupare lo Stato rivale, più che le sue intenzioni, la conseguenza è che le Potenze ricorrono al bilanciamento in relazione alle capacità di uno Stato e non alle intenzioni dello stesso. Per l’autore, i concetti di guerra, di equilibrio o squilibrio del potere sono indipendenti da nozioni morali, giuridiche o psicologiche. Il loro unico riferimento è al potere. In ciò sta la loro natura politica. >>


UMBERTO CATANZARITI