martedì 15 luglio 2025

L'Immigrazione come Problema Sociale

Il post di oggi riporta le considerazioni del movimento progressista 'Fronte del Dissenso' (pubblicate dal sito di Sollevazione - LINK), sul problema dell'immigrazione eccessiva in Italia.
Come si vede, non è necessario essere dei biechi reazionari 'di destra' per rendersi conto del tragico problema sociale che ci attende.
LUMEN


<< Ci sono problemi sociali che possono trovare soluzione senza sovvertire il sistema sociale che li ha prodotti. Altri, data la loro natura e dimensione, possono invece avere soluzione soltanto con la fuoriuscita dal sistema che li ha generati.

Il fenomeno delle migrazioni, degli esodi di massa, dello sradicamento di intere popolazioni, siccome connaturato al sistema capitalistico, non può trovare una soluzione definitiva nel suo seno.

La peculiarità del capitalismo è che gli esseri umani sono considerati una merce, forza-lavoro, manuale o intellettuale, la cui essenziale funzione è valorizzare il capitale. (…) È una legge inesorabile quella per cui la forza lavoro debba spostarsi dove il capitale chiama.

Più è grande la calamita del capitale più forte la sua capacità d’attrazione e ampio il suo raggio di cattura e saccheggio. Il capitale è un vampiro che si sposta ovunque trovi migliori opportunità, la dove ci siano umani a cui poter succhiare sangue per metterlo a valore e trarne profitto, ovunque possa depredare risorse naturali per alimentare la sua vorace macchina produttiva.

Più intenso e veloce il ciclo di “crescita” economica, tanto maggiori sono il disordine e il livello di entropia sistemica, e tanto più massicci saranno i fenomeni migratori.

Nel contesto della ultima globalizzazione capitalistica, segnata dal più radicale libero-scambismo e dal più prodigioso sviluppo delle sue forze produttive, il fenomeno delle migrazioni è diventato una piaga di dimensioni globali: intra e trans-continentale, tra le diverse nazioni, interno alle nazioni.

Possono mutare o addirittura invertirsi, a seconda dei movimenti e delle delocalizzazioni del capitale, le direzioni dei flussi, non il loro carattere sistemico. D’altra parte, come la forza-lavoro è destinata a inseguire il capitale, vale anche il movimento in direzione opposta, ciò accade ove il trasferimento e la delocalizzazione del capitale si presenti più agevole e prometta migliori risultati.

L’emigrazione non è dunque un fenomeno naturale bensì storico-sociale. In natura non esistono il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, e per questo non ha valore esprimere giudizi etico-morali o politici; i fenomeni sociali non solo meritano ma esigono che siano sottoposti alla valutazione etico-politica.

Ogni umana comunità, tra gli altri fattori, si fonda sulla dualità oppositiva tra ciò che è bene per la società e la singola persona e ciò che non lo è, tra condotte giuste e condotte sbagliate e nocive, di qui le leggi e le relative prescrizioni, dunque le sanzioni nei casi di trasgressione.

Così come sarebbe aberrante confondere la facoltà di muoversi e spostarsi liberamente con la condanna al confino o all’esilio, così è inaccettabile, come fa la retorica globalista, scambiare il diritto alla libera circolazione con gli attuali esodi di massa causati dalle ingiustizie e dalle storture abissali che il capitalismo più cresce più produce.

Emigrare per sfuggire alla miseria, abbandonare la propria comunità, la propria famiglia, il proprio Paese, non è esercitare un diritto di libertà, è una condanna all’esilio, una deportazione camuffata. A maggior ragione non saranno pertanto tollerate organizzazioni che pratichino il trasferimento programmato di migranti con la scusa di prestare soccorso in mare.

Non dimentichiamo né l’amara sentenza di Hegel, quella per cui la storia è simile ad un mattatoio “in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui”, e con lui non possiamo non chiederci “a vantaggio di chi, e di qual finalità ultima siano stati compiuti così enormi sacrifici”.

Sappiamo che gli indiscutibili progressi conosciuti dall’umanità si sono realizzati a costo di privazioni e sofferenze indicibili per i popoli e gli oppressi. Questo dato di fatto non può tuttavia essere utilizzato come alibi per giustificare che la storia continui ad essere il banco di un macellaio. (...)

Occorre contrastare il fenomeno delle migrazioni caotiche e forzate di massa non solo per ragioni etico-morali, ma politiche e sociali: esso infatti, mentre impoverisce e depreda i paesi ed i popoli che producono l’esodo, generano nei paesi che lo subiscono guasti crescenti: aumento delle povertà, forme di sfruttamento neo-schiavistiche che concausano l’erosione di salari e diritti per i lavoratori tutti, marginalità sociale, tribalizzazione conflittuale su basi etno-linguistiche e/o religiose.

Come Giano la tradizione ideologica capitalista ha due facce, quelle del nazionalismo e quella del cosmopolitismo (che certa sinistra transgenica scambia con l’internazionalismo). Così come contestiamo entrambi respingiamo con la medesima fermezza le due loro specifiche ramificazioni: la xenofobia razzista e la xenofilia caritatevole.

Se è inammissibile respingere a priori l’immigrazione in base all’idea reazionaria della difesa “purezza etnica” e/o di una concezione mistica della patria, altrettanto sbagliata è la posizione dell’accoglienza indiscriminata, universale, senza regole: ciò che avviene infatti in nome del rifiuto delle sovranità statuali e della cancellazione delle identità nazionali e culturali, ovvero l’ideologia che il massimo progresso sarebbe il melting pot.

Tra le opposte utopie del “respingimento” e della “accoglienza” indiscriminata c’è lo spazio dell’azione articolata per frenare, regolamentare, quindi governare i flussi migratori, non solo in entrata ma pure in uscita visti i gravi danni che produce al Paese ed al suo futuro il fenomeno dell’emigrazione di giovani italiani all’estero.

Governare un fenomeno richiede la capacità di sapere con esattezza quali siano i bisogni della società sul medio lungo periodo, richiede un calcolo quanto più preciso delle risorse pubbliche e private disponibili, richiede che l’economia sia programmata e non lasciata in balia delle cieche leggi di mercato, richiede quindi farla finita col neoliberismo.

Tutte azioni che implicano uno Stato che non sia subordinato ma sovraordinato rispetto alla sfera economica, un governo effettivamente sovrano che metta al primo posto il bene comune, che quindi protegga la nazione dalle scorrerie delle multinazionali, che attivi un processo di sganciamento dalla globalizzazione e l’uscita dall’Unione Europea. >>

FRONTE DEL DISSENSO

mercoledì 9 luglio 2025

Pensierini – LXXXVIII

LA VERITA' DEGLI ALTRI
Il mito della 'conoscenza personale' come unica guida valida ed affidabile della nostra vita è, purtroppo, solo un mito.
Le nostre esperienze dirette, infatti, anche dopo molti anni, restano modestissime se paragonate alle complessità del mondo, per cui non sono assolutamente sufficienti per consentirci una adeguata comprensione della realtà.
Per ovviare a questo inconveniente è necessario pertanto seguire l'opinione degli altri, ovvero, nei primi anni, quella dei nostri genitori e poi, da adulti, quella della maggioranza delle persone.
Ci sono campi, però, in cui l’opinione comune è vittima di pregiudizi infondati e va accolta con molte riserve; occorre pertanto alzare l'asticella e cercare l'opinione prevalente non di tutti, ma dei più competenti (che sono, in genere, gli uomini di scienza).
Questo non modifica il 'criterio di maggioranza', ma ci aggiunge, per usare un termine giuridico, la necessità di una 'maggioranza qualificata'.
Come dice acutamente Gianni Pardo: 
<< L’opinione della maggioranza dei competenti costituisce, nella vita concreta, l’unico criterio di verità. Quando essi pensano tutti la stessa cosa, si ha una verità assoluta, anche nel caso in cui non corrisponda alla realtà: si pensi al sistema tolemaico.
Quando alcuni dissentono, la verità diviene discutibile. Quando i competenti si dividono in due gruppi opposti e pressoché uguali, non esiste verità ufficiale, ma solo un dibattito. La realtà non offre di più. >>
LUMEN


LE CONSEGUENZE DEL POTERE
E' opinione comune che le persone che raggiungono il potere cambino la loro personalità, e la cambino in peggio.
Qualcuno però non è del tutto d'accordo, a giunge ad una conclusione più sottile.
Come, per esempio, il grande attore Anthony Hopkins, che ha fatto questa riflessione:
<< Il potere non cambia le persone, semplicemente toglie loro il bisogno di fingere. Il giusto protegge, l’ambizioso abusa, l’insicuro diventa un tiranno. Non è il potere a corrompere, è il vero volto di ciascuno che emerge quando non si ha più paura delle conseguenze. >>
E se è vero (come sono convinto anche io) che il carattere profondo delle persone non cambia con gli anni, ma resta sempre quello, credo che Hopkins abbia colto nel segno.
LUMEN


IL TEMPO
Hanno perfettamente ragione coloro che sostengono che se non esistesse nulla, cioè non esistessero le 'cose' che compongono l'universo, non esisterebbe neppure il tempo.
Il concetto di tempo, infatti, è strettamente connesso con la legge fisica dell’Entropia (2′ legge della termodinamica), secondo la quale tutte le strutture passano inevitabilmente da uno stato di ordine ad uno di disordine; e questo passaggio costituisce, appunto, lo scorrere del tempo, la cui freccia, come ben sappiamo, può andare solo in avanti e mai indietro.
E siccome il ritmo dell’entropia non è uniforme, questo può forse spiegare (ipotesi mia) la soggettività che proviamo di fronte al passaggio del tempo, che sembra scorrere ora più veloce, ora meno veloce.
LUMEN


ELOGIO DELLA SINTESI
Io adoro la sintesi: la apprezzo ogni volta che la trovo e cerco di utilizzarla ogni volta che posso.
Sono consapevole del fatto che, a volte, una sintesi eccessiva può rendere più difficile la comprensione di un concetto, che rischia di non essere adeguatamente sviluppato, ma in genere la cosa è più forte di me.
Mi ha pertanto molto consolato queste considerazioni sulla sintesi, che Alida Pardo ha pubblicato sul blog del marito Gianni:
<< La sintesi è un momento di gratificazione della mente.
L’essere umano può dire alla realtà: “Cara realtà, ho intaccato la tua durezza, ti ho fatta a fettine e alla fine sono riuscito a penetrare la tua essenza. Le mie conclusioni ti inchiodano, ti imprigionano in un punto chiaro e fermo da cui non puoi uscire”.
La sintesi rappresenta il piacere intellettuale della comprensione. Limitatamente al problema esaminato, ovviamente. Subito dopo comincia un’altra sfida. >>
LUMEN


COSE NUOVE
In genere, ci piace molto aggiungere cose nuove alla nostra vita, perchè pensiamo in questo modo di renderla migliore, dando per scontato (per abitudine mentale) che potremo conservare anche tutti vantaggi delle cose che già abbiamo.
Purtroppo non è sempre così.
Molto spesso per ogni cosa nuova che aggiungiamo, ne perdiamo una vecchia e i pregi della cosa nuova, anche se notevoli, non riusciranno mai a ricomprendere tutti i vantaggi che ci venivano dati dalla cosa vecchia.
Pertanto per migliorare la nostra vita non basta aggiungere, ma occorre anche accettare di perdere qualcosa. Certo, sono cose difficili da prevedere in anticipo, ma la cosa peggiore è di non esserne consapevoli.
LUMEN

giovedì 3 luglio 2025

Il vero Socialismo

Il termine 'socialismo' si presta, suo malgrado, a parecchi equivoci socio-politici e può essere opportuno fare un po' di chiarezza, cercando di distinguere tra il socialismo vero e proprio (che, per motivi storici, è quello marxista) ed i socialismi 'finti' (come fascismo, nazismo e cristianesimo).
Ce ne parla Uriel Fanelli nel post di oggi, tratto dal suo blog (LINK).
LUMEN


<< “Socialismo” non e' una parola qualsiasi. Sebbene abbia avuto dei precursori nelle comuni rivoluzionarie parigine, e abbia dei tratti di illuminismo molto marcati, il termine si riferisce ad una teoria precisa: quella di Marx, Engels, e successori vari. (...)

Quindi, per sapere se un'ideologia e' socialista, il metodo e' semplice: si verifica che la teoria da confrontare non neghi i “pilastri” della costruzione socialista [di Marx e Engels], senza i quali il socialismo non esiste. Questi pilastri, almeno quelli fondamentali, sono tre.

= La lotta di classe. Nel socialismo, le classi si scontrano violentemente mediante scioperi, occupazioni, rivolte , autogestioni e anche la rivoluzione, fino ad ottenere la cancellazione del sistema precedente, il capitalismo, molto spesso mediante l'eliminazione fisica dei capitalisti.

= L'abolizione della proprieta' privata dei mezzi di produzione. Nel socialismo, i mezzi di produzione (fabbriche e terreni agricoli, quindi, ma anche botteghe artigianali o negozi a seconda del tipo di comunismo) sono di proprieta' della societa' e dei lavoratori, che dopo la rivoluzione sono anche lo stato. Se qualcosa produce reddito , detto “plusvalore”, (non, quindi, la vostra bicicletta: potete averne due) allora e' dello stato.

= Il materialismo dialettico. Non c'e' posto , nel socialismo, per qualsiasi ente cerchi di giustificare o spiegare la storia senza passare da cause materiali. Non c'e' posto per “la tradizione”, per “Dio”, per niente che non sia materiale, e quindi economico. Con Marx nasce l'idea che “una guerra si fa per il petrolio”, per dire, mentre prima si sarebbe parlato di “ragione di stato” o di “deus lo vult”.

Senza queste tre cose, il socialismo crolla; non sta in piedi nemmeno a morire. Almeno, non quello Marxista (…) 

Prendiamo per esempio il nazismo: in che modo si relaziona con i tre pilastri del socialismo? 

Partiamo dal primo: la lotta di classe. Non si relaziona proprio. I nazisti hanno sempre stroncato la lotta di classe, i Frei Korps e le SA prima, e le SS poi, hanno sempre negato qualsiasi istanza sindacale, e si fanno vanto di aver messo dalla stessa parte tutti i tedeschi. RIvolte comuniste come gli spartachisti vengono soppresse nel sangue.

Idem per il fascismo, che vanta la “pacificazione sociale”, si definisce totalitarista in quanto rappresenta tutte le classi sociali (volenti o nolenti) e sopprime scioperi e rivolte, dai semplici scioperi dei contadini e mezzadri nel nord, alla rivolta di Parma, giusto come esempi.

Andiamo al secondo: abolizione della proprieta' privata dei mezzi di produzione. Non se ne parlava proprio , ne' col fascismo ne' col nazismo. Il nazismo incamero' molti mezzi di produzione, ma pratico' anche una politica di privatizzazione per fare cash (…).

Hjalmar Schacht, l'ideatore della politica economica nazista, può essere considerato un precursore del keynesismo. (...) La sua politica economica presentava diversi elementi in comune con l'approccio keynesiano: Schacht implementò una politica di investimenti nei lavori pubblici e di deficit spending, mirando a ridurre la disoccupazione e aumentare la domanda attraverso le commesse statali. (...)

Di abolire la proprieta' privata, dunque, non si parlava proprio.

Idem per il fascismo italiano, che, come al solito, faceva un pochino il cavolo che gli pareva. Incamerava le proprieta' degli oppositori politici, ma non perche' odiasse la proprieta' privata, ma fece anche una vasta campagna di privatizzazioni. Non si parlava proprio di abolizione della proprieta' privata dei mezzi di produzione.

Materialismo storico. Questa va via in fretta, perche' qualsiasi regime fascista ha uno strato mistico da far paura, e di certo non esiste posto, nel materialismo dialettico, per gente come Evola, o per degli idealisti hegeliani come Gentile, che mettevano “lo spirito” a guida delle forze razionali.

La Tradizione per il socialismo e' poco piu' di un' “ideologia”, una specie di vezzo che la gente puo' permettersi dopo aver soddisfatto le esigenze materiali, anche quando si decida di tollerarla perche' parte della “cultura del popolo”, ma sono interpretazioni del comunismo abbastanza discutibili e discusse. Non per nulla il sistema di Pechino viene chiamato, da loro stessi, “Socialismo con caratteristiche cinesi”.

Qui proprio non c'e' terreno in comune: l'infatuazione fascista (nel secondo decennio) per il cattolicesimo, cosi' come il misticismo delle SS che facevano battezzare i figli dal proprio tenente, non hanno alcun senso per il socialismo.

Andiamo adesso all'equivoco per il quale fascisti e cristiani vengono chiamati “socialisti”, lo stesso equivoco che ha consentito ad Hitler e Mussolini di autonominarsi “socialisti”, sino a quando qualcuno non si e' accorto della cosa e li ha cacciati. Qualcosa e' andato storto nel travestimento.

L'errore e' di confondere per “socialista” chiunque abbia un interesse per la societa', e in particolare si preoccupi di aiutare economicamente i poveri. Quindi ci ricadono le politiche del cristianesimo, come la beneficenza o l'elemosina, e ci ricadono le politiche sociali di fascismo e nazismo.

C'e' solo un piccolo problemino. Il socialismo marxista non si e' mai occupato dei poveri in quanto tali. Si e' occupato dei lavoratori, e se c'erano poveri disoccupati, questo era dovuto semplicemente a un effetto del capitalismo.

Lo stesso Marx parla molto male del welfare, dell'elemosina e della beneficenza, perche' li considera palliativi che distraggono dal vero problema, ovvero la diseguaglianza di classe.

Non puo' esistere nel mondo del socialismo marxista (...) una chiesa che distribuisce l'elemosina, perche' quei soldi sono gia' plusvalore, che doveva gia' andare ai beneficiati. Idem per il welfare: non esiste, dal punto di vista socialista, che tu prenda soldi del plusvalore tolto ai ricchi con le tasse, e li ridistribuisca: se tutto e' dello stato non c'e' plusvalore, e quindi non ci sono soldi delle tasse da redistribuire.

Nel mondo socialista, cioe', sono TUTTI lavoratori. Non esiste il pasto gratis, e tutti contribuiscono – come possono – alla societa'. Il socialismo non si occupa di poveri, ma di lavoratori, e considera un incidente storico il fatto che i lavoratori siano anche i poveri.

Cristo, quindi, non e' un “socialista”. E' cristiano. Mussolini col suo stato sociale non e' “socialista”, e' fascista. Idem per Hitler, che almeno ha un capro espiatorio per la sua politica sociale. >>

URIEL FANELLI

venerdì 27 giugno 2025

Appunti di Ecologia – (4)

SULLA STESSA BARCA
Uno degli errori dell’ambientalismo politico è l’assunzione 'naive' che “siamo tutti sulla stessa barca o astronave”.
Sì, l’astronave Terra è questa e non c’è via di fuga. Ma non è omogenea. Non crolla tutto insieme. Il collasso sistemico (...) avviene a pezzi. La stagione degli uragani, che parte a giugno, non è uguale ovunque.
Se il sistema diventa invivibile non lo diventerà in modo eguale all’equatore come sul circolo polare artico.
Ci sono zone che si possono difendere più efficacemente dalle invasioni dei probabili emigranti climatici e ambientali e regioni che, al contrario, sono più esposte a questi movimenti di massa. Movimenti che, al di là delle diatribe sovraniste e isolazioniste, creano tensioni impossibili da trascurare e destabilizzano i paesi di arrivo.
Quello che per ora, in Europa, si presenta come uno scontro politico giocato nelle stanze della Commissione o nel Parlamento Europeo, diventerà un confronto sempre più violento.
Inoltre ci sono Stati che ancora controllano ingenti risorse naturali e Stati che ne sono del tutto privi. Zone che saranno interessate all’aumento del livello dei mari e zone che non lo saranno.
In una situazione variegata come questa gli scontri a tutti i livelli saranno la regola.
Potremmo immaginare anche scenari ideologici e religiosi che giustifichino guerre civili e scontri etnici la cui base è tutto fuorché ideologica, religiosa o etnica, ma, come sempre, profondamente materiale.
La guerra degli ultimi giorni tra Israele e Iran è, in realtà, una guerra per procura fra USA e Cina, o, più ampiamente, tra ‘The West and The Rest’.
Essa colpisce l’Iran che, aggirando le sanzioni imposte dalle amministrazioni USA e dai loro vassalli, alimenta il vero nemico, la Cina, di petrolio.
Sullo stretto di Hormuz, controllato dall’Iran, sullo stretto di Bad el-Mandeb (la Porta del Pianto), se non controllato [comunque] minacciato dagli Houthi alleati dell’Iran, e sul Canale di Suez, controllato da un altro paese arabo instabile ed esposto, si giocano gli interessi energetici globali del momento.
E se si ammette che tutti siano informati della situazione energetica si capisce la dimensione dello scontro.
LUCA PARDI (dalla pagina Facebook)


BAMBINI ED ANIMALI
Quello che sarà, e che farà, la prossima generazione [nei confronti degli animali], è responsabilità della nostra.
Purtroppo noi non abbiamo ricevuto, in media, un buon insegnamento, dalla precedente generazione, e le conseguenze si vedono; ma i progressi ci sono: la civiltà comunque avanza, inarrestabile. (...)
Si parla di mettere giustamente i bambini a contatto con la natura e di insegnar loro a conoscerla, cosa necessaria a rispettarla; è una cosa importantissima.
Allo scopo direi che tra un bioparco, dove si guarda e basta, in un ambiente passabilmente simile a quello naturale, ed un circo dove si vedono animali ammaestrati, in un ambiente che di naturale non ha nulla, mentre fanno cose "fantastiche" agli ordini di tizi vestiti in modo improbabile, sotto dei riflettori; [oppure] tra l'interagire con i cetacei in mare ed il guardarli in delle piscine eseguire ordini a comando, il messaggio che passa non sia lo stesso.
Quale dei due modi 'passerà' il messaggio per cui gli animali selvatici vanno rispettati e quale invece quello per cui sono tutti a nostra disposizione e noi padroni che fanno quello che vogliono degli "inferiori"?
Non dico che il secondo modo sia kattivo, mi chiedo solo se è, come dicono alcuni, un modo per mettere i bambini a contatto con la natura e di insegnar loro a conoscerla, capirla e rispettarla.
SCIENZIATI, FILOSOFI E ALTRI ANIMALI (dalla pagina Facebook)


SOGNANDO LA GROENLANDIA
La Groenlandia è un’area geopoliticamente ed economicamente strategica per diversi motivi, che il Presidente Trump evidentemente conosce bene, ed è per questo che società di tutto il mondo (Europa, America, Asia, soprattutto Cina, ed Australia) sono molto interessate a questa regione.
Alla Groenlandia appartiene parte dell’Oceano Artico e questo è un particolare importante, sia per lo sfruttamento della sua piattaforma continentale e quindi della zona economica esclusiva, sia perché la diminuzione dei ghiacci potrebbe portare presto da quelle parti all’utilizzo di rotte marittime, il cui controllo è ambito.
Condizioni per la presenza di giacimenti di idrocarburi sono presenti lungo quasi tutte le coste ad eccezione della parte sudorientale (...)
Ma quello che fa capire il perché di tante mire sul territorio groenlandese, sono le risorse minerarie custodite nelle rocce dell’isola. (…) In particolare si nota la presenza significativa di Terre Rare, sia leggere che pesanti, Niobio, elementi del gruppo del Platino. Meno presente il Litio. (...)
Resta inoltre sul tappeto una questione fondamentale: la Groenlandia è ancora un'area abbastanza incontaminata e le attività estrattive minacciano l'ambiente artico.
E non è solo una minaccia a causa dell'inquinamento e per la fauna artica: l'incremento delle polveri antropiche che risulterebbe ovviamente dalle attività di estrazione mineraria potrebbe depositarsi sul ghiaccio, coprendolo con una patina scura la quale, trattenendo il calore più del ghiaccio bianco, ne provocherebbe una maggiore fusione.
ALDO PIOMBINO (dal blog Scienze-e-dintorni)

sabato 21 giugno 2025

Uomini e Donne – (5)

Le uccisioni di donne da parte di partner respinti (chiamate oggi femminicidi) sono aumentate e compaiono ormai nella nostra cronaca nera con tragica frequenza .
Ho deciso pertanto di dedicare un post a questo argomento, con due interessanti considerazioni di Marcello Veneziani e di Uriel Fanelli, tratte dai loro siti personali. A seguire una breve riflessione del sottoscritto.
LUMEN


FEMMINICIDIO E NARCISISMO
 << [Considero una] deformazione della realtà l’uso becero dei cosiddetti femminicidi per armare il femminismo contro i maschi assassini potenziali e incitare alla lotta per l’autorealizzazione.
Dopo ogni femminicidio c’è questa chiamata alle armi per combattere il maschio violento e mobilitarsi in una specie di lotta di genere, succedaneo della lotta di classe. Il presupposto falso e fuorviante di questo esercito della salvezza è che si fronteggi con un esercito di maschi potenziali femminicidi, che sarebbe lì di fronte a loro e vorrebbe opprimere e anche sopprimere la donna insubordinata.
E invece non c’è nessun esercito maschile contro cui combattere; il novantanove per cento dei maschi non usa violenza verso le donne, semmai è intimidito, in fuga o si arrocca sulla difensiva.
I femminicidi sono aberrazioni di singoli che hanno perso la testa; non sono vittime di uno scontro sociale di genere.
Non c’è nessun esercito nemico da battere ma ci sono solo individui solitari che uccidono per incapacità di vivere, dipendenza assoluta dalla loro partner e fragilità distruttiva e autodistruttiva.
Sono uomini-narciso, che vivono specchiandosi nell’altro e quando lo specchio si rompe (porta male) le schegge diventano coltelli per uccidere chi ha infranto la loro immagine proiettata nella vita di lei.
Alla fine siamo tra due deserti di solitudine: quella di chi ritiene di dover alzare i ponti col resto del mondo perché ama troppo se stessa e quella di chi escluso dalla prima si vendica e uccide l’oggetto proibito del suo ego che chiama amore.
Narciso contro Narciso, solitudine contro solitudine mentre le tifoserie inveiscono e incitano alla lotta. Ma il vero nemico è l’egolatria di massa. Viva Io, a morte l’Io altrui. Così muore una società, non solo un individuo. >>
MARCELLO VENEZIANI


FEMMINICIDIO E CONSENSO
<< Una studentessa [è stata] sgozzata da un ossessivo che la perseguitava, dopo averne respinto le attenzioni. Il copione, purtroppo noto, del femminicidio.
E, come prevedibile, irrompono le solite pasionarie a pontificare sulla necessità di “insegnare ai maschi a gestire un rifiuto”, come se la radice del male risiedesse unicamente in quel “no” pronunciato dalla vittima. (…)
A un uomo capace di sgozzarti, del tuo consenso non importa assolutamente nulla. Non l'ha ascoltato ieri, non lo ascolterebbe oggi, non lo considererà mai. Non lo vede nemmeno. (...)
Quante donne vengono uccise dopo anni di sottomissione, dopo aver acconsentito a ogni umiliazione, a ogni violenza, a ogni degradazione?
Donne che non hanno mai opposto un rifiuto, ma che – al culmine di un delirio paranoide (“lei mi tradisce con un alieno”) – vengono ugualmente strangolate, accoltellate, annientate.
Cosa dimostra tutto ciò? Che continuare a cercare la causa scatenante nel rifiuto femminile è un tragico abbaglio. I casi più aberranti di violenza domestica sfociata in omicidio raramente esplodono per un “no”.
Esplodono per un cortocircuito ossessivo nella psiche dell'aggressore – un dettaglio che, guarda caso, nessuna campagna sul “consenso” potrà mai risolvere. (…)
Non provate a negare l'evidenza statistica. Il “no” della vittima è irrilevante nell'equazione mortale.
Quando un ossessionato sceglie la sua preda, il dado è già tratto: quel corpo è solo un conto alla rovescia ambulante. Il consenso o il rifiuto possono forse modulare i tempi (accelerandoli o rallentandoli), ma non altereranno mai l'esito finale: una tomba.
Perché la verità è questa: non è questione di “sì” o “no”. È questione di un cervello malato che ha deciso di uccidere. Continuare a insistere sul feticcio del consenso non solo è inutile – è perfino grottesco. >>
URIEL FANELLI


FEMMINICIDIO E PATRIARCATO
L'aumento preoccupante dei femminicidi per futili motivi viene spesso considerato una conseguenza del vecchio patriarcato, che, secondo questa tesi, pur essendo ormai in declino, non rinuncerebbe ai suoi colpi di coda.
Secondo me, invece, le cose stanno in maniera opposta: il patriarcato, almeno in occidente, è già finito e l'aumento dei femminicidi per futili motivi è una conseguenza della sua fine.
Il motivo, come quasi sempre nel rapporto tra i sessi, è di ordine psicologico.
Nel patriarcato l'uomo si sentiva superiore alla donna, che considerava un 'bene' di sua proprietà: pertanto la poteva maltrattare liberamente, ma non la uccideva (se non per motivi del tutto eccezionali), perchè ne avrebbe subito un danno materiale.
Nel caso del femminicidio moderno, invece, l'uomo si sente inferiore alla donna, sulla quale non ha più nessun controllo sociale; per cui, quando il rapporto va in crisi, non riesce a vedere altro modo per riaffermare se stesso che l'uccisione della donna.
Non so se il problema dei femminicidi moderni sia risolvibile (forse non lo è); ma se si continua ad indicare la causa sbagliata, non si potrà arrivare da nessuna parte.
LUMEN

domenica 15 giugno 2025

Armiamoci e Partite

Per fare la guerra ci vogliono i giovani; ma se i giovani sono contrari alla guerra, come si fa ?
Il post di oggi, scritto da Filippo Dellepiane e tratto dal sito di Sollevazione (LINK), cerca di fare il punto proprio su questo argomento: cioè sullo 'spirito guerresco' presente oggi, in occidente, tra i giovani.
E le conclusioni sono, a seconda dei punti di vista, deprimenti oppure incoraggianti.
LUMEN


<< La manifestazione dello scorso 15 marzo a Piazza del Popolo, quella degli europeisti, si è contraddistinta per una mancanza generale dei giovani. (...) È il fallimento probabilmente più grande del sistema politico di questo paese e non solo.

Nel maggio radioso del 1915, le piazze italiane degli interventisti erano soprattutto state riempite da giovani provenienti dalla piccola borghesia, ispirati da un urticante sentimento nazionalistico appositamente pompato dalla propaganda guerrafondaia di allora. Oggi la piazza degli europeisti no pax è l’esatto contrario di allora e rappresenta benissimo perché il nostro sistema sociale, economico e politico è nelle condizioni in cui si trova.

A tacitare qualsiasi dubbio, anzitutto, potrebbe già correrci in aiuto il sondaggio di Pagnoncelli sulla guerra in Ucraina: solo il 36% degli Italiani sostiene l’Ucraina e solo il 28% è a favore del piano di riarmo. (…) Nella primavera-estate del 2022, i sondaggi avevano già rilevato (in tempi non sospetti) la contrarietà di grande parte della popolazione italiana all’invio di rifornimenti militare a Zelensky. Per pura magia, i sondaggi si erano poi fermati e non erano stati più pubblicati o si erano, comunque, molto rarefatti. Misteri della fede.

Ma, dicevo, la questione della mancanza dei giovani ha scosso più di una coscienza “critica”, soprattutto nei settori della sinistra filo-ucraina. Seriamente, mi chiedo io? (…) Ma perché mai un giovane dovrebbe sentirsi parte di un qualcosa? Perché dovrebbe difendere con le unghie e coi denti questo sistema che nulla gli garantisce? Lo può, tutt’al più, sopportare, ma mai supportare entusiasticamente.

Con la caduta del muro, la fine delle grandi narrazioni, solo una se ne è imposta: l’idea del profitto e della realizzazione personale (a scapito degli altri). Il successo del paradigma tatcheriano del TINA (there is no alternative), della liquidità di genere e, nel frattempo, l’atrofizzazione delle capacità critiche di larga parte delle nuove generazioni hanno fatto il resto.

Siamo giunti, così, all’acme dell’individualismo liberale, della totale atomizzazione monistica. È questa la tragedia del neoliberismo: esso dissolve ogni idea di Stato e di comunità, il sacrificio è solo contemplato da un punto di vista economico ed è sempre riconducibile al benessere personale, dell’individuo.

Nessun sacrificio, perciò, per grandi cause (né per quelle rivoluzionarie, né per quelle del regime!), nessuno vuole fare più figli, nessuno è disposto, seguendo ciò che dice [Antonio] Scurati, a fare il guerriero. Vale sempre e soltanto la logica economica; d’altronde non è un caso che la Nato volesse piegare la Russia, anzitutto, con le sanzioni.

Ed ora, dopo un martellamento mediatico durato anni, a suon di “80 anni di pace in Europa grazie all’Ue e la Nato” vorreste tirare su una generazione guerrafondaia e combattiva? Una generazione che è incapace, perché ne è stata privata nei mezzi e nella tempra, di rivendicare i suoi diritti?

Non basterà, statene certi, il refrain occidentlistico da due soldi di Vecchioni, il quale ci invita a pensare alle tante eccellenze europee nel campo del pensiero. Peccato si dimentichi che la tragedia mondiale per ben due volte nello scorso secolo è partita proprio da qui, dall’Europa, e che la cultura araba o cinese, giusto per citarne due, sono altrettanto ricche e antiche. (...)

Pensate ora di poter rispolverare i vecchi temi della patria, del nazionalismo (di marca europea), dopo averli delegittimati per anni, declassandoli a immaginazioni reazionarie, fuori dal tempo?

Dopo aver inneggiato alla libertà dei confini, ad un mondo di fiori e senza la guerra (sempre e solo rigorosamente nel giardino europeo, lontano dagli occhi, lontano dal cuore), ora vorreste convincere una generazione di giovani, cresciuta in un mondo di vecchi e che si percepisce vecchio, a fare la guerra? Dopo averla sospesa, vorreste reintrodurre la leva militare?

Vorreste che, dopo esservi disinteressati totalmente di ciò che i giovani pensano, non curandovi se vi dessero o meno la loro approvazione, vi applaudissero e corressero alle armi per mostrare il loro valore (semicit.)? Piangete sul latte versato, quando siete stati voi stessi a volere tutto questo e a foraggiarlo. Chi è causa del suo mal compianga se stesso, insomma.

C’è un prezzo da pagare ora. I giovani europei ed americani vedono ormai la guerra come qualcosa solo da libri di storia, di medievale. Oltretutto, con gli eserciti professionali, si è imposta anche l’idea che fare la guerra sia un lavoro e non certo un dovere del cittadino. (…)

I tedeschi lo stanno imparando molto bene, per esempio. In un recente articolo del Financial Times si segnala come un quarto dei 18.810 uomini e donne arruolati nel 2023 hanno lasciato le forze armate entro sei mesi.

Si parla, poi, di un libro pubblicato questa settimana, Why I Would Never Fight for My Country, in cui un ventisettenne sostiene che la gente comune non dovrebbe essere mandata in battaglia per conto degli stati nazionali e dei loro governanti, nemmeno per respingere un’invasione. L’occupazione da parte di una potenza straniera potrebbe portare a una vita “di merda”, “ma preferirei essere occupato che morto”.

Sorprende? No, se si guarda al nostro paese si vedrà, per esempio, che solo il 36% dei giovani tra i 18 e i 34 anni è favorevole alla leva obbligatoria e che lo stato maggiore inizia a pensare ad un sistema per integrare dentro l’esercito proprio quei nuovi italiani che provengono dall’incivile, si fa per dire, mondo extra europeo pronti a combattere al posto nostro le guerre. (...)

Di fronte a tutto questo, la domanda da porsi è la seguente. Il piano di riarmo previsto (sotto il punto di vista di carri armati, aerei, navi ecc) è enorme. Si accompagnerà ad esso anche un piano di riarmo “mentale” e della “coscienza” dei cittadini europei? E soprattutto, funzionerà?

L’inattività e la passività dei cittadini (soprattutto giovani), in quel caso, passerebbe dall’essere un vantaggio ad un grandissimo svantaggio. Non avere giovani generazioni battagliere e ideologizzate rischia di essere un elemento decisivo, anche da un punto di vista demografico. (...)

In ogni caso, ora, risalire la china per lorsignori [delle elites] non sarà affatto semplice. >>

FILIPPO DELLEPIANE

lunedì 9 giugno 2025

Pensierini – LXXXVII

LEADER POLIGLOTTI
Quando due leader politici si incontrano a livello ufficiale, sono costretti, in genere, ad utilizzare degli interpreti, perchè parlano lingue diverse e ciascuno non conosce quella dell'altro.
Accade però, talvolta, che uno dei due conosca quella dell'altro (in genere l'inglese) senza che la cosa sia reciproca.
Qualcuno dice che, in questo caso, il leader poliglotta NON doverebbe usare la lingua dell'altro, perchè la sua decisione potrebbe essere interpretata come una inferiorità psicologica.
Io penso invece che le cose stiano esattamente al contrario: il leader in questione (se è grado di padroneggiare davvero la lingua altrui) si trova ad essere non inferiore, ma superiore all'altro, per il semplice motivo che lui conosce (bene) due lingue e l'altro solo una.
Inoltre, consente ai due leader di potersi parlare 'vis a vis', anche sulle questioni più importanti e delicate, senza la mediazione degli interpreti: un fatto di grande importanza che migliora il dialogo e non può non dare grande prestigio a chi lo rende possibile.
LUMEN


COMITATO D'AFFARI
Che la struttura istituzionale della UE non sia democratica è cosa ormai sotto gli occhi di tutti.
Vengono prese infatti decisioni che, secondo i sondaggi, sono spesso contrarie ai desideri ed alla volontà di una gran parte della popolazione.
Ma come definire il ruolo politico ed economico dei vertici UE ? Molti li chiamano 'comitati d'affari' ed il temine mi sembra azzeccato.
Ecco, per esempio, cosa dice Jacopo Simonetta a proposito delle recenti decisioni di politica industriale:
<< La riconversione ecologica non è mai stata neppure pensata. Quello che si pensava era di distribuire incentivi all’industria con il pretesto del clima. Ora si distribuiranno incentivi all’industria con il pretesto della difesa. >>
Ed i governanti nazionali, se vogliono conservare la poltrona, non possono fare altro che seguire la corrente.
LUMEN


PSICOLOGIA DELLA SETTA
Molte fasi storiche sono state accompagnate dall'attività di 'sette' di vario genere, spesso segrete o comunque occulte.
Secondo i dizionari, una Setta è << una associazione di persone che seguono fanaticamente una particolare dottrina filosofica, religiosa o politica >>
La sua natura profonda, però, non è né ideologica, né religiosa, ma solo psicologica.
Lo scopo di una setta, infatti, al di là del dichiarato intento socio-politico, è duplice: da un lato consentire ai suoi capi di esercitare un potere quasi assoluto; e dall'altro consentire ai suoi adepti di sentirsi superiori a tutti gli altri.
Ma i protagonisti, presi da ben altri pensieri, non se ne rendono neppure conto.
LUMEN


I SOGNI DELLA POLITICA
La politica, per sua natura, fa spesso leva sui sogni e sulle illusioni delle persone comuni e pertanto i suoi esponenti non si fanno scrupolo, per raggiungere il potere, di promettere l'impossibile.
Da un lato c'è il cinismo di chi ne approfitta, ma dall'altro c'è anche la credulità dei cittadini, che dovrebbero, forse, essere un po' più cauti e realistici.
Come ha detto Mattia Feltri, con una bellissima definizione: << La politica non è illudersi di cancellare quello che non ci piace, ma affrontare quello che c'è. >>
Ma come si fa ad accontentarsi della (grigia) realtà, quando è possibile sognare ?
LUMEN


ESSERI VIVENTI
Tutti noi pensiamo di saper distinguere, a livello istintivo, un essere inanimato da un essere vivente, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano.
E' stata pertanto elaborata una definzione, a livello scientifico, secondo la quale è un essere vivente ogni entità che possiede queste 4 caratteristiche:
omeostasi (la stabilità interna delle proprie strutture chimico-fisiche), metabolismo (l'insieme delle trasformazioni chimiche necessarie per l'equilibrio), riproduzione (la generazione di altri individui della stessa specie) ed evoluzione (il mutamento progressivo dei caratteri ereditari).
A me però piacciono le definizioni semplici e concise e questa non lo è. Come fare ?
Ricordo di aver letto che gli esseri viventi sono le uniche strutture fisiche che riescono, al loro interno e per un breve periodo (quello della loro vita), a violare il secondo principio della termodinamica, che prevede l'aumento continuo dell'entropia nei sistemi chiusi.
Quindi si potrebbero definire semplicemente in questo modo: sono 'esseri viventi' tutte le strutture che riescono, localmente e temporaneamente, a sospendere l'aumento dell'entropia.
LUMEN

mercoledì 4 giugno 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 4

Si conclude qui il lungo post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (quarta e ultima parte - LINK).
LUMEN


(segue) << È difficile immaginare oggi un mondo senza la scuola per tutti. Per quanto di recentissima introduzione, essa ha già plasmato in profondità l’immaginario, l’identità e i rapporti produttivi e sociali.

L’istruzione seriale riflette e prepara la serialità dell’industria, dei regolamenti, dei valori e dei gusti in scala nazionale e globale. Se è dunque poco serio esercitarsi in scenari (contro)riformistici, si possono però almeno nominare i problemi di questo esperimento sociale e tentarne un bilancio. Non per contestarne gli scopi desiderati, ma i risultati.

È indubbio che l’eccezione umana della civiltà poggi sulle conoscenze acquisite e che queste debbano trasmettersi per potersi conservare e sviluppare oltre l’orizzonte mortale. Ed è perciò vitale che il processo di trasmissione dei saperi sia efficace, diffuso e mirato a realizzare le vocazioni di ciascuno nell’interesse proprio e della collettività.

La questione è se l’attuale sistema scolastico soddisfi al massimo questi requisiti o se non sia piuttosto un compromesso viziato da meno confessabili istanze. In un dibattito possibile ci chiederemmo, in quanto AL MODO, se davvero gettare indiscriminatamente tutti per almeno un decennio nello stesso carro bestiame formativo sia il modo migliore di sviluppare le forze e le vocazioni di cui la società ha bisogno.

Fino a meno di due secoli fa l’istruzione collettiva era un’eccezione, non la norma. La si praticava ad esempio nei monasteri a beneficio dei fanciulli avviati alla carriera religiosa o di quelli intellettualmente dotati ma privi di mezzi, negli studia e nelle università.

La relazione formativa di eccellenza era piuttosto quella tra maestro (didàskalos) e discepolo (mathetés) che permetteva da un lato di adattare i ritmi e la direzione dell’insegnamento all’allievo, dall’altro di trasmettere anche la personalità del docente, esempio di un ethos del sapere che è parte viva del retaggio culturale.

Quasi tutti i grandi nomi che occupano i programmi scolastici, da Dante a Leopardi, da Aristotele a Pascal, si formarono in questo modo senza mai mettere piede nei corrispettivi delle nostre scuole.

Le professioni non strettamente intellettuali si insegnavano invece sul campo con gli apprendistati: espedienti di sfruttamento lavorativo per l’ottusa visione monoscolastica attuale, percorsi formativi anche culturalmente ricchi (e pagati) per i nostri antenati. Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci e il Borromini, per citarne tre tra i moltissimi, coltivarono il loro genio partendo dalle botteghe senza mai fare un solo giorno di scuola (il terzo a nove anni era già in cantiere), mentre a noi non basterebbero mille anni sui banchi per eguagliare un’unghia di ciò che hanno realizzato.

Il Filarete diventò ingegnere fondendo il bronzo nel laboratorio del Ghiberti; il Brunelleschi lavorando alle dipendenze di un orafo; Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Armand-Louis Couperin e molti altri composero musica divina studiando coi rispettivi padri; gli Amati, Antonio Stradivari e Guarnieri del Gesù impararono in falegnameria ciò che i migliori scienziati di oggi faticano a decifrare.

Questi e altri esempi, dai più clamorosi ai più ordinari, testimoniano l’esistenza di sistemi non scolastici di trasmissione e di accrescimento di saperi anche complessi e raffinati, in certi casi eccelsi. Insomma, a inclinazioni diverse corrispondevano in passato percorsi diversi, uno dei quali era appunto la scuola come la conosciamo oggi: utile per certe carriere ma non per altre, adatta a certe persone ma non ad altre.

L’avere rinunciato a integrare queste lezioni nella pedagogia moderna, con i risultati e i problemi descritti, invita a domandarsi, in quanto ALLO SCOPO, quanto l’odierna standardizzazione delle strategie formative risponda anche a un bisogno politico di formare, riformare e consolidare la polis con-formando i suoi membri.

Gli obblighi scolastici e l’ordinamento oggi in vigore nascono in seno alla Rivoluzione francese col dichiarato scopo di far sì che i giovani «traités tous également, nourris également, vêtus également, enseignés également» formassero quasi eugeneticamente «une race renouvelée… séparée du contact impur des préjugés de notre espèce vieillie».

L’istruzione obbligatoria primaria doveva precisamente imprimere lo stampo dello Stato («un moule républicain»): solo infatti «dans l'institution [scolaire] publique... la totalité de l'existence de l'enfant nous appartient; la matière... ne sort jamais du moule; aucun objet extérieur ne vient déformer la modification que vous lui donnez» (L. M. Le Peletier (...)).

Per quanto mai più espressa così brutalmente, l’impostazione giacobina è sopravvi ssuta nei fatti perché forse inscindibile dalla forma-scuola in cui ha preso corpo. Oggi, è vero, vige la democrazia (come nella Francia del 1793...) e cambiano forse i contenuti non codificati della «morale républicaine», ma non il rischio di essere «dénoncé par la surveillance, et puni selon la gravité du délit» per il docente che se ne allontana (...). Sicché chi sogna una scuola «diversa» chiede nel migliore dei casi una cosa impraticabile, nel peggiore di imporre con gli stessi mezzi la propria dottrina.

Ma la fortuna di questo sistema non si spiegherebbe se non considerassimo anche, in quanto AL SENSO, la mitografia popolare che si è costruita attorno alla scuola per tutti e in particolare la convinzione che essa sia la via regia dell’emancipazione dei deboli.

Senza ripetere qui le fallacie concettuali e fattuali di una simile credenza, il suo peccato originale si riassume nell’avere accettato l’idea terribilmente classista che l’istruzione sia un privilegio e dunque nella conclusione, impossibile per logica e definizione, che con la sua universalità il privilegio si sarebbe esteso a chiunque.

Risultato: nel reclamare l’orpello di ricchi e potenti invece di metterne in discussione il simbolo e fondare la dignità e la gratificazione delle persone su cose più serie, le masse si sono lasciate sagomare e stipare fin dall’infanzia nelle mangiatoie ideali del Robespierre di turno e, per buona misura, hanno anche preteso di farcisi rinchiudere a doppia mandata.

Nell’inseguire l’idolo di una cultura abborracciata si sono fatte soggetti e complici di una massificazione culturale che vomita conformismo e luoghi comuni. Nel confondere le nozioni ready-made con la fatica del conoscere si sono lasciate intortare ogni giorno dalle cattedre dei notiziari. E nell’insistere che tutti dovessero riscattarsi con gli studi hanno gettato alle ortiche patrimoni plurisecolari di abilità maturati nelle famiglie e nei territori.

La promessa del «salto di classe» con cui la scuola ha sedotto le generazioni si fonda precisamente sull'etica liberale dell’individuo-monade che non deve essere immeritatamente «premiato» o «punito» dal suo retaggio, quando in realtà sarebbe del tutto funzionale che i saperi si conservassero, si comunicassero e si accrescessero innanzitutto nella viva quotidianità della casa paterna e dell'ambiente, quando è possibile.

In quanto poi all’emancipazione, c’è davvero da interrogarsi sull’indipendenza dei milioni che hanno studiato mezza vita per compilare fogli di Excel, applicare procedure e partecipare a riunioni, che non sanno più produrre alcunché e campano (sempre peggio) appesi ai baracconi delle burocrazie pubbliche e private, alla mercé di chi può staccarne la spina. >>

IL PEDANTE

sabato 31 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 3

Prosegue il post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (terza parte di quattro - LINK).
LUMEN


(segue) << Da queste ultime contraddizioni occorre muovere i passi per dipanare il mistero moderno della scuola universale. La spiegazione più semplice è di tipo economico. Le rivoluzioni industriali hanno reso necessaria la formazione di un numero crescente di addetti alla «megamacchina» del processo produttivo: tecnici della chimica, della meccanica, dell'elettronica, dell'edilizia, del diritto, dell'amministrazione, dell'economia, del commercio, della medicina, della psicologia, delle lingue straniere ecc.

Il mastodontico sforzo didattico avviato in quegli anni non è dunque indirizzato a produrre l'elevazione intellettuale e civile che i più filantropi ascrivono alla scuola, per quanto il permanere di (sempre più labili) residui umanistici ereditati dal passato abbiano talora alimentato questa ambizione.

Ma la spiegazione non basta. L'asservimento della scuola per tutti allo sviluppo produttivo non è infatti che un capitolo, né il primo né l'ultimo, di un asservimento più vasto. Si è anzi visto che l'attuale ipertrofia scolastica non è granché funzionale al bene economico della nazione e integra un aspetto della burocratizzazione, della cattiva occupazione, del declino industriale e della crescente dipendenza dalle produzioni e dalla manodopera importate dall'estero.

Eppure si insiste a predicare «più scuola». Perché? Evidentemente agisce un movente ideologico. Come molte agiografie moderne, anche quella scolastica glorifica l'oggetto senza curarsi dei suoi attributi.

Esiste solo «la scuola» e non le scuole, e se casomai queste ultime non corrispondono all'idea platonica di un luogo in cui le masse si elevano e si emancipano, allora non si tratta di «vera scuola». L'onestà vorrebbe invece che si considerassero i fenomeni e non i pensieri sognati, per quanto nobili.

Siccome l'insegnamento esiste da millenni in forme sempre diverse, anche la scuola moderna non è la stessa di cento o di vent'anni fa e la si può dunque solo identificare col suo metodo, cioè appunto col fatto di essere obbligatoria per tutti fino a una certa età e desiderabile per tutti a seguire.

Nella sua essenza è dunque un'infrastruttura, un vaccinatore di idee. L'attuale modello scolastico si è istituzionalizzato con le ferrovie e si è consolidato con le autostrade, l'elettrificazione e gli acquedotti: è un'opera di cablaggio ideale che al pari della stampa e della televisione fa da controcanto all'innervazione materiale dello Stato centralistico contemporaneo.

È perciò ozioso discettare di contenuti e programmi, i quali non possono che riflettere di tempo in tempo l'agenda e i bisogni del padrone dell'infrastruttura, sia esso lo Stato o chi comanda per suo tramite. Pretendere che l'infusore scolastico accolga temi o visioni invise a chi lo governa sarebbe come chiedere a un imprenditore di produrre per la concorrenza!

All'inizio e specialmente nei Paesi giovani come il nostro, le scuole servivano a diffondere la conoscenza della lingua nazionale. Un ruolo che si può dire ancora attuale se si allarga l'accezione della grammatica anche ai giudizi, ai miti buoni e cattivi, a eventi e personaggi storici «imprescindibili», alle competenze «di base», ai comportamenti «virtuosi», alle battaglie «giuste».

Nelle aule si imprime fin dall'infanzia una lingua comune di riferimenti che tutti devono padroneggiare. Sono insieme il depositum della tradizione civile e la terra fertile in cui gettare i semi delle idee nuove destinate a farsi identità e coscienza: anche e soprattutto le più estreme, quelle che più difficilmente metterebbero radici nella popolazione adulta.

Lì si struttura il campo cognitivo del citoyen che prende a cuore certi temi e ne tralascia altri, sottintende ciò che non si deve discutere, adotta determinati criteri di verità e non altri, si attiva pavlovianamente all'udire certi nomi, certe vicende storiche, certe astrazioni auto-esplicative, nel bene o nel male.

Lì si traccia il disegno neurale e si innestano i radicali a cui si legherà il discorso pubblico, che altrimenti scivolerebbe in superficie perché poco comprensibile e alieno. Per leggere un articolo di giornale bisogna certo conoscere l'alfabeto, ma per esserne influenzati occorre che si abbia già in sé un bagaglio di 'topoi' condiviso con l'autore.

Solo così si possono conquistare i lettori con poche righe o anche con un solo slogan, a volte con una sola parola! Si resta perciò esterrefatti all'udire che la scuola offrirebbe un antidoto alla manipolazione, essendone al contrario il fondamento, la propedeutica, il requisito.

Un collaterale di questa operazione è la mediocrità. Giacché l'omologazione degli intelletti non è né un rischio né un difetto, ma il primum movens dell'universalismo scolastico, i contenuti e i ritmi dell'insegnamento debbono assestarsi su un livello accessibile a tutti: cioè minimo.

Il proposito astrattamente nobile di non lasciare indietro alcuno si traduce nel bisogno di tirare indietro qualcuno, cioè i pochi davvero vocati allo studio. Un prezzo accettabile se la priorità è appunto quella di comprimere tutti nello stesso stampo di cittadinanza (si è anche arrivati a vedervi una qualche forma di solidarietà e di addestramento sociale), drammatico se si vuole coltivare il massimo di ciascuno per il bene di tutti.

Per quanto ci si sforzi al contrario, dove vige una siffatta istruzione non può esserci educazione: non si possono ex ducere le predisposizioni irripetibili e insieme imporre ripetitivamente un ordine (instruere) predisposto nel cosa e nel come. Si chiarisce forse così una correlazione paradossale dell'ultimo secolo, durante il quale al crescere degli istruiti e del grado di istruzione si è accompagnato un deterioramento continuo delle produzioni culturali.

È difficile non distinguere il marchio del nozionificio erga omnes nell'impoverimento delle arti, nella musealizzazione della ricerca filosofica, nello stato penoso degli «intellettuali» prevedibili e disciplinati che rimasticano da decenni le stesse cantilene.

Quanto scritto vale per la scuola dell'obbligo e per i successivi corsi superiori, sennonché nei secondi lo stereotipo didattico deve adattarsi ai percorsi vocazionali senza soffocarli del tutto e mantenere un equilibrio non sempre facile tra efficacia professionale e requisiti di adesione ideale (...).

La dilagante istruzione accademica ha specialmente alimentato il fenomeno inedito della semicultura, ancora poco e male analizzato ma di massima centralità per il buon funzionamento della macchina propagandistica. Il semicolto è un individuo che frequenta o ha frequentato un corso di studi universitari (uno qualsiasi) e in ragione di ciò si presume titolare di una capacità superiore di comprendere la realtà (tutta) e di distinguervi il vero dal falso.

Questa curiosa credenza è con tutta probabilità figlia di un'appropriazione semantica, si indovina in essa l'eco del prestigio intellettuale di cui godevano gli eruditi delle accademie antiche, sennonché in queste ultime si esercitavano effettivamente le arti retoriche, filosofiche, teologiche ecc. utili per bene interpretare fatti e proposizioni, mentre gli atenei moderni sono scuole di specializzazione in cui si impartiscono le basi di una professione. (...)

In questo equivoco tollerato e invero incoraggiato dalla società il semicolto sguazza e troneggia tra gli indottrinati.

Egli è, tra tutti, la preda più facile da condizionare. In generale perché la sua presunzione di sapere lo mette al riparo dal dubbio collocandolo socraticamente ai vertici dell’ignoranza e della creduloneria; in senso tecnico perché, avendo egli confuso il linguaggio della conoscenza con la conoscenza stessa, gli si può vendere qualsiasi «verità» agghindandola coi ninnoli dell’accademia: numeri, calcoli, tavole, istogrammi, reminiscenze da manuale, cognomi venerabili, acronimi anglotecnici, riviste reputate ecc.

Siffatte presentazioni strizzano l’occhio al semicolto e lo chiamano in causa offrendogli la gloria di tradurre il messaggio agli illetterati. Che stia casomai traducendo un falso è un problema che non può sfiorarlo, giacché l’unica prova ontologica che gli sta a cuore è quella del proprio creduto primato culturale: certificato dall’istituzione con un pezzo di carta e una corona d’alloro, destinato a riconfermarsi nella rincorsa del verbo istituzionale, non avendo altre basi. (…) >> (continua)

IL PEDANTE

lunedì 26 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 2

Continua qui il post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (seconda parte di quattro - LINK).
LUMEN


(segue) << L'istruzione scolastica a tutti i costi e per tutti ha appiattito i criteri di valore, le prospettive, le vocazioni. Oggidì è quasi automatico subordinare la qualità umana e sociale di un individuo ai suoi successi scolastici, anche in termini predittivi: chi non studia, si pensa, «farà una brutta fine».

Mai prima d'ora si era imposto un canone così angusto e monomaniaco, un one size fits all di matrice così tanto zootecnica e così poco umanistica. Ciò comporta innanzitutto uno stigma precoce a carico di chi, per ragioni personali o ambientali, è poco vocato agli studi, avverando così la profezia della sua «brutta fine» o quantomeno condannandolo ad anni di frustrazioni e fallimenti che avrebbe potuto meglio impiegare in attività e apprendistati più consoni alle sue inclinazioni.

Se è da apprezzare lo sforzo dei pedagoghi di «valorizzare» i talenti di ognuno, non si può fingere che questo sforzo cozzi contro il dogma della scuola dell'obbligo come luogo formativo par excellence dove ultimamente lo stigma si è addirittura medicalizzato: ora la scarsa attitudine all'apprendimento integra una gamma di «disturbi specifici» (DSA), sicché chi non si conforma ai programmi è «disturbato» oltreché inadeguato, con le immaginabili conseguenze sulla percezione di sé e del proprio futuro.

Dall'altro lato, e per gli stessi motivi, la scuola si è imposta come unica concepibile prospettiva di sviluppo dei giovani. È altrettanto comune ritenere che un adolescente minimamente dotato di intelletto e di volontà debba procedere a ogni costo negli studi, ché altrimenti sarebbe «sprecato».

Questa visione appare logica ma è tragicamente disfunzionale, perché implica di converso che tutte le professioni e i ruoli che non richiedono una scolarizzazione canonica – ma ciò nondimeno perizia, esperienza, passione, vocazione, serietà, puntualità, dedizione ecc. – siano destini di ripiego da lasciare a chi non possiede i requisiti minimi per ripetere quattro nozioni: «se proprio non vuoi studiare, impara almeno un mestiere!».

Ciò implica fatalmente un abbassamento del numero e della qualità degli addetti ai settori manuali e artigianali, con la nota conseguenza di faticare vieppiù a reperire professionisti capaci e di vedere mestieri indispensabili scomparire o finire nel monopolio di improvvisati e disonesti.

Simmetricamente, si gonfiano invece le fila degli «studiati» per inerzia, per il solo fatto cioè di possedere una qualche dote mnemonica e metodica ma senza una vocazione reale. Costoro, oltre a sottrarre forze e intelligenze ai mestieri stupidamente detti «umili», trovano di rado una collocazione professionale coerente con i loro studi e finiscono per ingrassare il già bulimico terzo settore e i connessi «bullshit jobs» descritti da David Graeber.

Non si può ignorare il nesso potente tra la matta e disperata corsa agli studi superiori purchessia e la crescita metastatica degli impieghi improduttivi «di concetto» che assorbono i frutti di quella corsa per darle un senso e arginare la disoccupazione. Ecco proliferare gli apparati burocratici, le procedure, le consulenze, gli organi di supervisione e supporto, i promotori, i facilitatori, i controllori, i pianificatori, i formatori, i relatori, i certificatori, i sanzionatori, i digitalizzatori, le facoltà universitarie e le funzioni aziendali dai nomi inglesi che non esistevano fino all'anno prima.

Questa massa plumbea di «competenze», che non avrebbe il benché minimo mercato se non fosse imposta per legge, pesa come un cadavere sul residuo mondo produttivo e lo soffoca con oneri procedurali, consulenziali e formativi al solo scopo di mantenere in vita se stessa. Se è dunque vero che oggi bisogna studiare di più perché «è tutto più complesso», quell'inutile complessità è anche figlia e funzione dell'inutile proliferare degli studi.

Altre sono le apologie di ordine prettamente ideale. Secondo una tesi classica, una popolazione largamente istruita sarebbe più consapevole dei determinanti tecnici e culturali che influenzano la propria esistenza e riuscirebbe così a operare scelte migliori per sé e per la collettività. La complementarietà di democrazia e istruzione è iscritta nelle civiltà costituzionali: affinché il popolo eserciti una sovranità effettiva occorre che possegga gli strumenti necessari per acquisire e interpretare le informazioni che riguardano il governo dello Stato. 

Ciò varrebbe anche quando la sovranità gli è negata, perché le nozioni e il metodo appresi negli anni scolastici lo proteggerebbero dalle mistificazioni del potere. L'istruzione dovrebbe dunque essere imposta a tutti per il bene di tutti, indipendentemente dai suoi vantaggi materiali diretti. Per quanto splendidi a parole, anche questi argomenti scricchiolano nei fatti.

Si potrebbe obiettare che: 1) a differenza di quella elitaria del passato, l'odierna istruzione superiore di massa fornisce prevalentemente contenuti tecnici mentre quella di base, inclusi i licei, offre una propedeutica blanda e dispersiva. La scuola moderna non produce dotti né tantomeno saggi, né potrebbe mai farlo dovendosi serialmente rivolgere a moltitudini eterogenee, sicché gli istruiti dei tempi nostri imparano poco di tutto nelle scuole preparatorie e tutto di poco nelle università. I più istruiti sono tecnici di alto livello, conoscono il come ma non il cosa, ed è perciò del tutto fuorviante il paragone con la vastità, la profondità e la completezza degli antichi 'cursus studiorum' e la consapevolezza di sé e del mondo che vi si acquisiva. 

In quanto alla democrazia, 2) la diffusione dell'istruzione a tutti i livelli è stata perseguita con successo anche da Paesi non democratici come la Cina, le monarchie del Golfo, l'Unione Sovietica e le nazioni a est della cortina di ferro, senza che ciò ne abbia intaccato i regimi, mentre 3) nel mondo «libero» proprio la stagione dell'alfabetizzazione universale e della democratizzazione dell'accademia ha visto vette di propaganda, di menzogna pubblica e di impoverimento dialettico mai sperimentate prima.

Gli imparati dell'Occidente hanno creduto senza batter ciglio alle provette irachene, alle fosse di Tripoli, alle ciarle scientistiche, ai predicozzi dei ragionieri e insomma a ogni favola scodellatagli dai giornali. Né si può proprio dire che la maggiore istruzione abbia vivacizzato lo scambio culturale e moltiplicato gli apporti al sapere. «Negazionista» e «revisionista» sono solo alcuni degli epiteti con cui si tappa la bocca di chi osa applicare l’osannato «metodo critico» alle nozioni gradite ai potenti.

Mai tanto quanto nell'epoca in cui tutti vanno a scuola si elargiscono accuse di ignoranza e di analfabetismo «funzionale» (non potendo più invocare quello 'stricto sensu') e l'ingiunzione di credere fideisticamente agli esperti, cioè a chi ha studiato di più. Sennonché anche il primato culturale di questi ultimi è funzione dei giochi di forza e vale solo se è asservito all'opinione «giusta». Chi la pensa diversamente, fosse anche un premio Nobel, precipita nello stesso girone degli incompetenti e riceve sberleffi, richiami, radiazioni, sanzioni. Questa è la condizione della civiltà più scolarizzata di sempre, questi i suoi frutti di libertà, pluralità, indipendenza di giudizio.

Più in generale, 4) se davvero gli apparati di potere considerassero l'istruzione delle masse una pericolosa incubatrice di consapevolezza e di critica che limita il loro arbitrio, perché vorrebbero promuoverla fino a renderla obbligatoria? Non sarebbe più logico che la vietassero, o almeno che non la incoraggiassero? E se davvero la scuola desse agli umili gli strumenti per insidiare i privilegi di ricchi e potenti, perché questi ultimi non la boicottano ? 

'Summa quaestio', si capisce, che il lettore non mancherà di applicare anche al giornalismo, alla libertà di parola, al mercato, al processo elettorale... >> (continua)

IL PEDANTE

mercoledì 21 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 1

Il post di oggi – scritto da Il Pedante - cerca di andare alla radice del concetto sociale di scuola e di istruzione.
E, con grande acutezza, descrive in modo magistrale la sua evoluzione dagli inizi elitari, quando c'erano solo i precettori privati, sino alla moderna scuola pubblica (ed obbligatoria), con gli insegnanti stipendiati dallo Stato.
Il testo, che ho deciso di dividere in 4 parti per comodità di lettura, è tratto dal blog personale dell'autore (LINK).
LUMEN


<< L'istruzione universale e obbligatoria è un concetto recente. Non se ne ha traccia nella storia antica, nel medioevo e neanche in età moderna, con una sola eccezione: l'appello (...) con cui Martin Lutero auspicava per la prima volta l'istituzione di una scuola pubblica obbligatoria rivolta a tutti.

Il riformatore tedesco desiderava così da un lato scalfire il monopolio cattolico dell'istruzione delegandola alle autorità civili delle 'Stadte', dall'altro consentire a ciascun fedele di attingere senza mediazioni al testo biblico secondo il principio della «sola scriptura» che nella dottrina luterana delle origini doveva «solam... regnare, nec eam meo spiritu aut ullorum hominum interpretari, sed per seipsam et suo spiritu intelligi» (...).

Il concetto odierno di istruzione pubblica nasce su queste basi teologiche nella Prussia protestante, ma si sarebbe concretamente affermato ben più tardi, verso la metà dell'Ottocento, mentre ancora un secolo fa soltanto un quarto della popolazione mondiale sapeva leggere e scrivere. Se l'idea è giovane, la sua applicazione è dunque giovanissima. Tra tutte le idee moderne, è forse la più moderna.

Vista con gli occhi di oggi, questa verità disorienta. Da decenni i tassi di alfabetizzazione e di lauree figurano tra gli indici di sviluppo per eccellenza e sembrano così ovvi che nessuno se ne chiede più il perché, o perché le più prospere e raffinate civiltà del passato non li considerassero tali.

Alcuni direbbero che un tempo non si capiva l'importanza di queste conquiste, ma altri troverebbero forse implausibile che proprio nessuno tra i filosofi più eccelsi, i filantropi più illuminati o i santi più misericordiosi ne avesse almeno intuito l'importanza. E che sia perciò difficile definire «conquista» ciò che fino a qualche decennio fa nessuno voleva proprio conquistare.

Il caso è davvero unico. Mentre valori come la pace, l'abbondanza, la sicurezza, la salute e le arti sono da sempre riconosciuti e desiderati, la massima diffusione dell'istruzione scolastica è invece un obiettivo tutto contemporaneo, inedito eppure già universalmente percepito come «eterno».

La sua forza dogmatica trascina tutti, persino i più conservatori, che pur criticando la scuola di oggi perché ostaggio delle ideologie del momento, professionalizzata, assediata da burocrazia e informatica, dimentica delle radici classiche e cristiane ecc. non dubitano invece della necessità che tutti ci debbano andare. Bisogna tornare indietro, sì, ma non troppo!

Il tema offre insomma un punto di osservazione prezioso sull'eccezione della modernità e invita a sondarne le credenze inespresse. Dal punto di vista popolare l'istruzione è associata alla sicurezza economica, al potere e al prestigio sociale.

Questo nesso era percepito anche in passato, sennonché la causalità che sottende è inversa rispetto a ciò che di norma si intende: i ricchi erano istruiti in quanto ricchi, non ricchi in quanto istruiti. Sperare di ascendere alle classi superiori in virtù dell'istruzione sarebbe stato come credere di farsi monaco indossando l'abito proverbiale, o re appoggiando le natiche sui cuscini di un trono.

I tanti dotti che hanno dato lustro alla storia erano miseri o abbienti, disprezzati o riveriti, servi o padroni indipendentemente dalla loro dottrina: il successo mondano dipendeva dalla famiglia, dal coraggio, dalla scaltrezza o dal crimine, mentre gli eventuali studi compiuti erano casomai una conseguenza degli agi, non la causa.

La prospettiva contemporanea distorce questa verità storica assumendo a norma gli anni eccezionali dell'alfabetizzazione universale durante i quali, però, il miglioramento delle condizioni materiali ha interessato tutti indipendentemente dal grado di istruzione e il - relativamente minimo - vantaggio sociale degli istruiti è stato imposto ex lege con l'introduzione e l'estensione del valore legale dei titoli.

Lauree e specializzazioni sono così diventate trofei da remunerare affinché si autoavverasse la profezia dello studio che «conviene».

Da un'indagine di recente pubblicazione emerge effettivamente una correlazione tra laureati e percettori di redditi medio-alti nei comuni italiani, ma più che la significatività tutto sommato modesta di questo nesso (28,5%), colpisce il fatto che, con pochissime eccezioni, i comuni che si collocano sopra la linea di tendenza dei redditi appartengono alle regioni settentrionali mentre quelli del centro-sud ricadono puntualmente al di sotto di essa, a prescindere dal tasso di lauree. Ciò suggerisce che la ricchezza pregressa e contestuale conta più del grado di istruzione.

L'esperienza conferma che anche nell'irripetibile periodo post-bellico i più benestanti erano istruiti perché provenivano da famiglie già benestanti o si posizionavano in contesti già floridi.

Il secondo problema è che anche la moneta dell'istruzione, come tutte le monete, è tanto più preziosa quanto più è scarsa. Se non all'opulenza e all'aristocrazia, gli scolarizzati del passato potevano almeno aspirare ai mestieri più comodi del segretario, dell'aio, del cerusico, dell'ingegnere o del notaio, ma ciò avveniva appunto in virtù del fatto che pochi potevano ricoprire quelle posizioni. È dunque evidente che un tale vantaggio decade se la scuola è imposta a tutti.

Negli ultimi decenni, è vero, le società industrializzate hanno creato un'offerta senza precedenti di posizioni tecnico-scientifiche e amministrative, ma le ferree leggi dell'inflazione hanno presto ripreso il loro dominio. Invece di attenuarsi nell'abbondanza, il vantaggio scolare ha finito per spostare i suoi requisiti sempre più in alto allungando insensatamente gli studi con l'obiettivo taciuto di mantenere competitiva l'arena.

Per restare negli ambiti a me noti, oggi per insegnare la musica non è più sufficiente conoscerla e praticarla con perizia, ma bisogna anche sostenere esami di psicologia, informatica, recitazione, filologia, diritto, fisiologia (sic) ecc. (…).

Dove ieri non erano richiesti studi, oggi bisogna avere il diploma; dove bastava il diploma ci vuole la laurea; dove la laurea, la specializzazione; dove la specializzazione, il master, il dottorato, la «formazione continua» ecc. alimentando una tenia che ostacola e reprime le forze più fresche della società.

Mentre milioni di persone trascorrono (se va bene) un terzo delle loro esistenze abbuffandosi di nozioni irrilevanti, inutili e destinate a un oblio quasi istantaneo, eserciti di laureati reclamano senza successo posizioni e gratifiche all'altezza delle loro fatiche, vittime di una sciagurata retorica che rappresenta lo studio come un merito, un diritto e un dovere, mai invece come uno strumento tra i tanti, qual è.

Una credenza antica (lo si è visto, poco fondata) è così degenerata in ideologia: chi più studia n'importe quoi è più «bravo» e la società gli deve un premio. Da qui discende una cascata di effetti negativi. Il grado di istruzione si è imposto tra gli obiettivi più iconici delle lotte per l'emancipazione di classe, sennonché nel ripetere la solita inversione causale si è certificato il primato sociale degli istruiti invece di reclamare parì dignità a tutte le funzioni sociali, come sarebbe stato più intelligente e più giusto fare.

Nell'implicare che chi ha un'istruzione è migliore, si è certificato che chi ne è privo è peggiore. La storia degli ultimi decenni ha fatto almeno economicamente giustizia di questo equivoco tracciando una parabola in cui ieri i protagonisti delle classi meno scolarizzate si sono giovati dell'accresciuta sicurezza economica (quindi non dell'istruzione) per far sì che i propri figli accedessero agli studi superiori, mentre oggi quei figli, ottenuti i titoli, si trovano a godere di condizioni materiali mediamente peggiori di quelle dei loro genitori. 

Conquistato il symbol, hanno perso lo status. Arraffato il fumo, gli è sfuggito l'arrosto. >> (continua)

IL PEDANTE

giovedì 15 maggio 2025

Pensierini - LXXXVI

ECCEDENZE E DISUGUAGLIANZE
Se ho interpretato correttamente il pensiero dell'antropologo David Graeber (così come reperito sul web) la storia economico/sociale della civiltà umana potrebbe essere condensata in questi pochi passaggi:
= ciò che distingue l’animale umano dagli altri animali è l’eccedenza produttiva
= il potere si riduce, in ultima analisi, alla capacità di gestire (ed appropriarsi) delle suddette eccedenze, tramite la forza, i tributi e le manipolazioni ideologiche.
= il tentativo più radicale di porre rimedio alle disuguaglianze è stato quello marxista, che prevedeva che le eccedenze potessero essere amministrate collettivamente, ma è fallito senza speranza.
= un altro modo di raggiungere una forma sostanziale di uguaglianza sarebbe quello di eliminare, alla radice, la possibilità di accumulare eccedenze, ma è una soluzione impraticabile per delle società iper-complesse come le nostre.
La mia personale opinione è che 'tertium non datur', per cui – preso atto del fallimento marxista e dell'impossibilità di rinunciare alle eccedenze - siamo condannati a proseguire sul cammino della disuguaglianza.
E tutti coloro che non la sopportano dovranno farsene una ragione.
LUMEN


IL LAVORO RENDE LIBERI
Mi scuso per il titolo, che richiama i tristi anni del nazismo e dei lager (dove campeggiava la famigerata scritta 'Arbeit macht frei'), ma il concetto mi interessa molto, perchè lo trovo più centrato che provocatorio.
Aristotele infatti diceva: “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero”; ed il godimento del tempo libero può essere considerato il vero scopo della vita.
Mi sembra quindi un concetto fondamentale, al quale io aggiungo: i soldi in più (cioè quelli che avanzano dopo aver provveduto alle cose necessarie) non devono servire per comprare oggetti inutili, ma solo per far fare a qualcun altro (pagando) le cose che noi non sappiamo o vogliamo fare.
La vera libertà, in fondo, è questa; e (per chi non è ricco di famiglia) può venire solo dal guadagno del proprio lavoro.
LUMEN


LOGICA IMPERIALE
Secondo Uriel Fanelli “Un impero non sta in piedi per quanto e' potente, ma per quanto e' redditizio per coloro su cui impera”.
Così, per esempio (secondo Fanelli) i paesi europei hanno accettato di buon grado l'invadenza USA perche', in cambio di una certa sottomissione, avevano accesso alla “american way of life” , cioe' a pace e prosperita',
Allo stesso modo, gli imperatori romani avevano numerosissimi patti di affiliazione con re locali e tribu' varie, che davano a loro (o meglio alle loro elites) alcuni vantaggi materiali.
Ovviamente, conclude Fanelli “nel momento in cui il patto si rompe l'impero inizia a disgregarsi”. Anche se poi, aggiungo io, i vertici dell'impero se ne rendono conto quando è troppo tardi.
LUMEN


ALFABETO UNICO
Nel mondo esistono tantissime lingue diverse, con tanti alfabeti e ideogrammi diversi, ed è utopistico pensare di poter mai arrivare ad una lingua unica, anche per rispetto delle rispettive culture che hanno una storia secolare (se non millenaria).
Però dovrebbe essere possibile avere, quanto meno, un alfabeto unico, per capirsi meglio, come succede, con ottimi risultati, nella matematica, dove i numeri ed i simboli sono uguali per tutti e, se non sbaglio, anche in molte branche della scienza (soprattutto chimica e fisica).
Ed avere magari un unico verso di scrittura (da sinistra a destra, oppure da destra a sinistra) che sia uguale per tutti.
Ma temo che anche questo resterà un sogno irrealizzabile.
LUMEN


DECISIONISMO POLITICO
Secondo alcuni commentatori, il secondo mandato di Trump alla Casa Bianca (quello attuale) avrebbe dato una svolta alla struttura di potere delle elites americane, ed occidentali in senso lato.
Il suo travolgente decisionismo politico, infatti, starebbe ad indicare che, dopo tanti decenni, le elites della politica istituzionale stanno riprendendo il sopravvento sulle elites economico-industriali.
L'ipotesi è senza dubbio intrigante; io però continuo a non crederci, perchè, salvo i casi delle dittature ereditarie o fortemente ideologiche, io metto le elites economiche SEMPRE al di sopra della politica.
I motivi sono diversi, ma il principale è che i politici vanno e vengono (in democrazia anche in tempi brevi), mentre i grandi capitalisti, data la loro struttura famigliare, restano.
E, nell'esercizio del potere, i tempi lunghi sono una garanzia di forza e di conservazione come poche altre.
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venerdì 9 maggio 2025

Hic sunt Leones

Le prime impressioni sul nuovo Papa Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost , da parte di un cattolico tradizionalista come Massimo Viglione.
Il testo è tratto dal blog 'Duc in Altum' (LINK).
LUMEN



<< La presentazione [del nuovo Papa] dalla loggia petrina è avvenuta in maniera accettabile e abbastanza nella tradizione, in pieno contrasto con quella sciatta e aggressiva di Bergoglio.
A differenza sua, ha: indossato la mozzetta; recitato l’Ave Maria e ha fatto riferimento alla Madonna di Pompei (ieri era infatti l’8 maggio), rompendo chiaramente con gli intollerabili e ripetuti oltraggi che Bergoglio ha rivolto alla Madre di Dio (“la ragazza della porta accanto”, “Maria una di noi”, ecc.); concluso con una benedizione solenne Urbi et Orbi foriera dell’Indulgenza plenaria alle solite condizioni. Tutti aspetti della tradizione sana.
Inoltre, non ha parlato a braccio, ma leggendo un testo scritto, suggerendo così una scelta accurata delle parole.

La scelta del nome: tradizione e filo-immigrazionismo

Uno degli aspetti iniziali degni di nota è la scelta del nome, sicuramente tradizionale. Potrebbe richiamare Leone XIII o san Leone Magno. Tuttavia, il riferimento più probabile, vista la enorme distanza cronologica con il grande pontefice del V secolo, è quello di Leone XIII, noto come il papa della Rerum novarum, l’enciclica che ha fatto entrare, in maniera specifica, la questione sociale nella dottrina ufficiale della Chiesa. Ciò lascia supporre un’attenzione prioritaria, come si dice oggi, agli “ultimi”, che però, tradotto nella pratica oggi, starebbe a concretizzarsi, inevitabilmente, con l’appoggio all’immigrazionismo, come del resto Prevost ha sempre fatto nel suo passato di vescovo e cardinale.
​Occorre dire che Leone XIII condannò durissimamente il Risorgimento italiano e la massoneria: ma questi non possono certo essere i riferimenti che il nuovo pontefice intenda avere.
Quindi, una scelta che appare ambivalente: tradizionale in sé, globalista nella pratica quotidiana.

La questione della pace e dei ponti

Importante notare che la prima parola è stata “pace” (“La pace sia con voi”), che poi ha ripetuto almeno dieci volte.
Occorre anticipare, a riguardo, il fatto che ha immediatamente specificato che “La pace sia con voi” è il saluto di Gesù agli Apostoli dopo la Resurrezione, facendo capire, in tal maniera, che la pace non è quella del mondo, ma quella di Dio. E questo è buono.
Inoltre, il fatto di aver citato tante volte la parola lascia quasi intendere che non era indirizzata solo a livello internazionale e politico, ma anche interno alla Chiesa. Ovvero, una certa volontà di pacificazione interna, necessarissima, dopo l’odiosa e tirannica conduzione bergogliana, fatta di terrore interno, di scomuniche, di divisioni, di malumori repressi per dodici anni. Vedremo se così sarà.
Poi ha nominato varie volte i “ponti”. Questa è innegabilmente un’espressione bergogliana, che smentisce quanto appena detto perché si concretizza al contrario con la “pace del mondo”, ovvero con l’ecumenismo religioso, con il relativismo dottrinale, il pacifismo acritico, l’accettazione del mondo attuale e quindi dell’ideologismo globalista, e, ancora una volta, l’immigrazionismo.
E tutto questo certo non è buono affatto. È Rivoluzione in atto.
Con il concetto di “ponti” si potrebbe anche intendere la volontà che la Chiesa faccia da ponte tra le grandi potenze del mondo, per arrivare a una pace “disarmata e disarmante”, come ha detto.
Questo in sé non sarebbe male, ma occorre vedere in quale maniera intende perseguire questo fine.

Bergoglismo allo stato puro

Ha apertamente elogiato Bergoglio, ben due volte nel suo discorso.
Del resto, deve a lui tutta la sua carriera, compresa l’elezione, visto che è stato messo a capo della Congregazione dei vescovi, il che lo ha reso uno dei pochi conosciuti fra i cardinali (che Bergoglio non ha mai permessero che si incontrassero in precedenza).
E, infatti, in base alle notizie che abbiamo potuto ricavare finora, specie provenienti dal continente americano, Prevost è assolutamente per: la sinodalità (lo ha anche detto nel discorso), ovvero per il processo di autodemolizione strutturale dell’unità della Chiesa, l’ecologismo, il vaccinismo. 
In un intervento pubblico (trovabile su internet), invita apertamente tutti i cattolici a bucarsi, compiendo “l’atto d’amore” bergogliano. E questa è una responsabilità gravissima che pesa sulla sua coscienza.
Inoltre, è stato più volte accusato di aver coperto gli abusi sessuali di ecclesiastici, in pieno stile Bergoglio.
È inutile girarci intorno: su questi elementi, ci troviamo dinanzi a un Bergoglio 2, nonostante le differenze sopra indicate.

Agostiniano statunitense

È un agostiniano, il che non depone sfavorevolmente, specie in rapporto al suo predecessore, perché presuppone una profondità teologica e spirituale, oltre che una certa “sapienza” pastorale e umana. 
Gli agostiniani, per quanto integrati nella Chiesa conciliare, hanno sempre avuto un atteggiamento riservato e prudente. Questo di principio: poi, nei fatti, staremo a vedere se sarà così.
È statunitense. Qui si apre, a nostra opinione, una duplice possibilità di prospettiva. Essendo senz’altro ostile a Trump, potrebbe essere stato scelto proprio come contraltare al trumpismo arrogante e incontenibile. 
D’altro canto, essendo pur sempre un suo connazionale, rimane comunque un “ponte” (per l’appunto) aperto con l’uomo che, non ostante tutto quanto sta accadendo negli Usa, resta pur sempre il più decisivo nel mondo attuale. 
Le parole pronunciate dal presidente statunitense subito dopo l’elezione sembrano andare in questa direzione. (...)

Prime timide ma purtroppo realistiche conclusioni

La considerazione più ovvia è che Leone XIV è un figlio del Concilio Vaticano II, avendo per di più alle spalle immediatamente Bergoglio. Pertanto, è inutile sognare un papa tradizionale; si ha a che fare con un modernista.
È un passo indietro rispetto a Bergoglio. Ma questo è l’usuale procedimento Rivoluzione: due passi avanti e uno indietro, marciando però sempre innanzi verso la dissoluzione. 
Questo passo indietro non cambia la direzione. La direzione è quella già chiara: sinodalità, ecologismo, immigrazionismo, vaccinismo, dialogo.
Fermo restando che poteva andare molto ma molto peggio (...), ci sembra di poter dire che sarà probabilmente un riformista pacificatore, una sorta di democristiano dei nostri tempi: cercherà la pace, porrà fine all’odiosa gestione bergogliana, ma proseguirà la strada tutta in discesa dell’attuazione estrema del Concilio Vaticano II (o III, nel senso di come lo ha sviluppato Bergoglio: il “concilio quotidiano”).
Forse, sarà una trappola mortale per il mondo dei tradizionalisti e dei conservatori, sempre pronti, in grandissima parte, a cadere nella idolatria papolatrica in cambio di un piatto di lenticchie. >>

MASSIMO VIGLIONE