mercoledì 17 dicembre 2025

Il '68 dell'egoismo

Un'analisi degli aspetti meno nobili del mitico '68, in questo pezzo scritto da Ferdinando Bilotti per il sito 'Partenza da Zero' (LINK).
LUMEN


<< Dobbiamo (...) tenere presenti le trasformazioni a cui la società andò incontro nel ventennio di forte sviluppo successivo alla seconda guerra mondiale. Il rapido avanzamento sia demografico, sia economico di quella fase ebbe tra i suoi effetti quello di ampliare i ranghi del ceto medio in misura tale da rendere problematico l’assorbimento delle sue nuove leve da parte delle università e poi del mercato del lavoro intellettuale.

Alla fine degli anni Sessanta, questa incapacità del sistema sociale di soddisfare le ambizioni di formazione e di occupazione nutrite dai giovani esponenti di tale classe spinse molti di loro su posizioni fortemente critiche nei confronti dei esso: si spiegano così, almeno in parte, l’esplodere della protesta studentesca e più in generale l’assunzione da parte della gioventù dell’epoca di atteggiamenti radicali.

Dal momento che questa contestazione degli assetti vigenti avvenne in nome della realizzazione di una società dalle maggiori capacità inclusive, era del tutto naturale che essa assumesse in massima parte una connotazione politica progressista.

A orientarla in tal senso, tuttavia, dovette valere anche la parallela esplosione della protesta operaia, che faceva dell’adesione alla dottrina marxista un potenziale strumento di saldatura fra le due lotte, saldatura che avrebbe consentito agli intellettuali di avvalersi, per realizzare i propri obiettivi di trasformazione della società, della forza del numero su cui potevano contare le masse operaie.

Questa radicalizzazione delle nuove generazioni di intellettuali, però, evidentemente in molti casi non mise radici profonde negli animi degli interessati, rimanendo così legata alle loro condizioni del momento e dunque risultando suscettibile di venir meno una volta che essi fossero riusciti a integrarsi nella società. 

In ragione di ciò, a partire dai tardi anni Sessanta i partiti di sinistra furono colonizzati da un gran numero di militanti la cui adesione ai loro ideali di progresso sociale era sincera ma superficiale, perché figlia di contingenti motivazioni personali, o peggio ancora opportunistica, perché finalizzata a volgere a proprio vantaggio la forza del movimento operaio, e quindi in entrambi i casi destinata a scomparire una volta che il raggiungimento di una posizione elevata in seno alle strutture partitiche li avesse resi soddisfatti della propria condizione.

Venuta meno l’adesione ai valori inizialmente professati, nell’animo di tali politici rimase poi soltanto la volontà di affermazione personale, che aveva costituito il movente originario della loro militanza: essi pertanto non esitarono a tramutarsi da nemici in servitori del potere economico, in modo da facilitare la propria ulteriore ascesa procurandosi il sostegno di quest’ultimo.

La contestazione giovanile ebbe anche motivazioni culturali. Come a suo tempo rilevò Daniel Bell (nel suo “The cultural contradictions of capitalism”), la società capitalista si fonda su due sistemi di valori in opposizione fra di loro, uno funzionale a sostenere la produzione e l’altro a spingere il consumo.

Nel ventennio di forte sviluppo 1950-70, l’incremento della produttività del lavoro da una parte rese più agevole la produzione di beni, facendo perdere rilevanza alle tradizionali virtù borghesi funzionali al compimento d’investimenti e a un’efficiente conduzione delle attività economiche (risparmio, laboriosità, disciplina); e dall’altra, come abbiamo già spiegato, fece sorgere la necessità di valorizzare questa sempre più ingente quantità di beni prodotta, imponendo perciò la promozione di una mentalità di segno opposto.

Inoltre, la crescita del benessere rese non più necessaria la concentrazione delle risorse nelle mani dei capifamiglia, consentendo l’assunzione di decisioni di consumo autonome (e quindi una più generale autonomia di pensiero e di azione) da parte di soggetti tradizionalmente subalterni, quali le donne e per l’appunto i giovani.

Questi, pertanto, divennero propensi a mettere in discussione l’autoritarismo e la gerarchizzazione che alla fine degli anni Sessanta ancora informavano la vita sociale (sia pure in misura già spontaneamente calante).

Logicamente, un simile atteggiamento critico nei riguardi della cultura e dei valori dominanti induceva ad assumere una posizione critica anche verso le situazioni di ineguaglianza e di sfruttamento che connotavano i rapporti fra i ceti. Questo orientamento antisistema di marca progressista, però, si fondava su una visione della società individualista e libertaria che coincideva con l’apparato valoriale del capitalismo consumista ed era suscettibile di sposarsi anche con una mentalità improntata al più gretto egoismo di classe.

Nel lungo periodo, pertanto, la cultura della contestazione non fu in grado di fare da argine, nelle coscienze dei reduci da quell’esperienza, alla pressione che la convenienza personale esercitò in direzione dell’accettazione del ‘patto col diavolo’ costituito dalla propria trasformazione in rappresentanti degli interessi capitalistici.

Naturalmente, va precisato che questo processo di subordinazione dei partiti di sinistra al potere economico non ha riguardato l’intero arco politico della sinistra stessa, in quanto al suo interno hanno comunque continuato ad esistere delle forze di ispirazione marxista fortemente orientate in difesa dei lavoratori. Esse, tuttavia, hanno mantenuto un peso politico modesto, non riuscendo quindi a diventare i nuovi punti di riferimento dei ceti abbandonati dai grandi partiti socialdemocratici.

Ciò si spiega, in parte, con la difficoltà di fare presa sulle coscienze di una cittadinanza la cui cultura e il cui immaginario sono stati manipolati in maniera tale da renderla largamente priva di coscienza politica e votata a un individualismo che esclude dall’orizzonte mentale la prospettiva di una salvezza collettiva; in parte ancora, con le ridotte possibilità di fare proseliti che inevitabilmente hanno connotato movimenti poveri di risorse finanziarie e condannati a operare in un ambiente mediatico ad essi ostile; ma in parte anche col fatto che le proposte politiche di tali formazioni sono state segnate da gravi elementi di criticità, i quali hanno finito per respingere molti loro potenziali elettori. >>

FERDINANDO BILOTTI

venerdì 12 dicembre 2025

L'orlo dell'Abisso

Due brevi post di Luca Pardi sul progressivo deterioramento della situazione ambientale, che sembra ormai totalmente fuori controllo. 
I testi sono tratti dalla sua pagina Facebook.
LUMEN


<< Siamo di fronte ad un situazione che a livello globale è serissima. Le guerre e il debito stratosferico sono solo sintomi di un'instabilità prevedibile e prevista già cinquant'anni fa con una precisione inattesa perfino da coloro che quella previsione la fecero. Siamo sempre più vicini all'orlo dell'abisso.

Praticamente si accumulano continue conferme del fatto che la civiltà globale si avvicina a un collasso senza precedenti. I motivi per cui siamo a questo punto sono controversi, ma alla fine le opzioni sono due: i limiti delle risorse o i limiti degli ecosistemi terrestri di accogliere i rifiuti (emissioni di gas serra e altre forme di inquinamento che determinano una disintegrazione della biosfera) di 8 miliardi di individui lanciati in un modello economico insostenibile e profondamente ingiusto?

Io propendo per non scegliere fra l'una e l'altra ipotesi. Ambedue i fatti sono evidenti, stabilire quale sia quello prevalente mi sembra un esercizio abbastanza inutile che ripete le polemiche fra chi sosteneva (e forse sostiene ancora) che il picco del petrolio era più importante del cambiamento climatico o viceversa.

«The limits to growth» (LTG), il primo rapporto per il Club di Roma intitolato in Italiano come "I limiti dello sviluppo» conteneva, in uno dei 13 scenari presentati, uno scenario che si è rivelato, a dispetto dello scetticismo degli stessi autori, sorprendentemente predittivo. (…) 

Ci sarebbero un paio di cose da aggiungere (...).

1 = Quando il modello di LTG raggiunge il punto critico, che è oggi, non funziona più, cioè il sistema che esso tenta di modellizzare si deve per forza riassestare. Quindi le curve dopo i vari picchi della popolazione, della produzione industriale e di cibo ecc.. vanno prese con le molle. Sicuramente non descrivono la dinamica mondiale nel lungo periodo, cioè da qui al 2100. È su questo punto che si accentrano speranze, ma anche paure. Entriamo in un regime radicalmente diverso, non sappiamo quello che ci aspetta.

2 = Secondo i ricercatori che hanno operato la ricalibrazione di LTG l'inizio della crisi si presenta come un collasso sistemico vero e proprio, rappresentato, nella loro simulazione, da un'inversione dell'Human Development Index.

3 = (Quindi, poi, le cose da dire erano tre e non "un paio").  Il mondo è diviso in stati nazione, a loro volta divisi in regioni più o meno omogenee dal punto di vista economico, sociale, culturale ed ecologico. Quindi non verrà giù tutto in un botto unico. Ci saranno (ci sono) conflitti e resistenze, i più resilienti assorbiranno le crisi in modo più efficace di quelli più fragili. Saranno tempi interessanti. >>


<< Tutti sappiamo di camminare sull'orlo di un abisso. Sappiamo che per evitare l'abisso dovremmo affrontare sacrifici molto seri, sappiamo che questa società è condannata ad un collasso, ma non vogliamo ammetterlo (anche perché quasi tutti abbiamo fatto dei figli e ci sentiamo responsabili).

A questo punto ci rifugiamo in due scappatoie alternative.
La prima è costituita dai "miti salvifici": la transizione ecologica, la rivoluzione sociale, la decrescita felice e combinazioni varie di questi.
La seconda è una combinazione di negazionismi e ricerca del capro espiatorio: il cambiamento climatico è un'invenzione del potere, così come lo sono le epidemie/pandemie, la colpa è dell'Europa, del mercato, dello stato, degli immigrati, degli islamici, degli ebrei .....

Il risultato è che, governati dai bisogni immediati, spesso determinati dalla natura atomizzata della società costituita da un insieme di famiglie mononucleari, continuiamo con comportamenti e stili di vita insostenibili talvolta addolciti da comportamenti ossessivamente virtuosi come il riciclo della plastica e simili. La crisi si aggrava, la caduta nell'abisso si avvicina. (...)

Il problema non è che la plastica non è riciclata abbastanza efficacemente. il problema è che di plastiche ce ne sono troppe e in quantità eccessiva.

Il problema non è la scelta fra diesel e auto elettrica, ma il fatto che di auto ce ne sono troppe.

Il problema non è fra carne e fagioli, ma il fatto che il 95% della biomassa degli animali su questo pianeta è costituita dagli umani e da mucche, maiali, pecore, pollame, (cani e gatti).

Non è nemmeno fra carne e pesce dato che stiamo devastando anche le zone di pesca usando metodi industriali di estrazione dei pesci dal mare e a sistemi industriali di allevamento che sono insalubri ed ecologicamente impattanti.

Il problema non è la "tutela dell'ambiente", cioè il giardinaggio, ma il fatto che in meno di mezzo secolo abbiamo falcidiato le popolazioni di insetti e altri artropodi riducendo la diversità genetica e funzionale della biosfera. E come siamo riusciti in questa impresa? Usando pesticidi senza ripensamenti, riducendo gli habitat delle altre specie e allargando lo spazio agricolo.

Il problema non è la lotta contro il cancro, ma la salute dell'ecosistema in cui viviamo.

Il problema non è la depurazione delle acque, ma il fatto che in poco più di un secolo (con una accelerazione negli ultimi 50 anni) abbiamo sconvolto tutti i cicli bio-geo-chimici che si sono instaurati in centinaia di milioni di anni: quello del carbonio (che è l'unico di cui si parla e spesso a sproposito), quello dell'acqua, quello dei nutrienti (Azoto e fosforo).

Il problema non sono le culle vuote. Ma 8-9 miliardi di individui condizionati dal sogno americano del consumo senza limiti.

La crisi è conclamata e avviene con delle élite che hanno smesso di condurre le società e grazie a una ricchezza senza fine si sono arroccate difendendosi dai danni ambientali che le loro stesse società infliggono al pianeta, si possono permettere il lusso di non vederli e/o nutrire le fedi contraddittorie nei miti del progresso o della negazione a cui ho accennato sopra. Controllando informazione- intrattenimento- spettacolo ed educazione di massa gli viene facile. >>

LUCA PARDI

domenica 7 dicembre 2025

Liberi Tutti

La morale sessuale della Chiesa Cattolica e sempre stata molto rigida e piena di divieti. Le cose però potrebbero cambiare con il nuovo papa Leone XIV, le cui aperture lasciano intravedere sviluppi inaspettati.
A queste aperture, che suscitano molta apprensione nei cattolici tradizionalisti, è dedicato il post di oggi, scritto da Chris Jackson per il blog (tradizionalista) Duc in Altum (LINK).
LUMEN


<< Torniamo su “Una caro. Elogio della monogamia”, la “Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca” diffusa dal Dicastero per la dottrina della fede con l’approvazione di papa Prevost. Il documento si presenta come una meditazione sulla carità coniugale e in superficie suona abbastanza bene: linguaggio biblico su “una sola carne”, riverenti cenni a Giovanni Paolo II, qualche inchino d’obbligo all’”Humanae vitae” e all'”apertura alla vita” degli sposi cristiani.

Sotto la patina pia, il documento compie però un’operazione che va sottolineata. Sposta silenziosamente il centro del matrimonio dal legame divinamente istituito tra sesso e procreazione a una visione essenzialmente psicologica della “carità coniugale”, vissuta secondo un’antropologia fluida e terapeutica mutuata dalle più recenti sperimentazioni della Pontificia accademia per la vita.

Una volta osservato il modo in cui il testo cita Karol Wojtyła e riformula l'”apertura alla vita”, diventa chiaro cosa sta succedendo. “Una caro” non è un attacco frontale alla dottrina cattolica. È il cavallo di Troia parcheggiato appena dentro i cancelli: ancora avvolto nel vocabolario di Wojtyła, ma intriso della logica di cui gli ingegneri morali dell’Accademia avranno bisogno per giustificare la contraccezione artificiale e, in ultima analisi, le sterili “unioni” sessuali di ogni tipo. (...)

Invece di un muro a protezione del matrimonio, questa lettera è una porta sapientemente progettata. Il magistero più antico trattava il matrimonio in termini soprannaturali. (...) La “Casti connubii” di Pio XI parlava chiaramente: Dio ha attribuito all’atto coniugale un fine primario, la procreazione e l’educazione della prole, e un fine secondario, l’aiuto reciproco e il rimedio alla concupiscenza.

In questa tradizione, l’amore non è un sentimento libero di fluttuare e che crea il proprio significato. L’amore è ordinato dalla natura e dalla grazia. La carità coniugale abbraccia i figli perché è radicata nel disegno del Creatore. “Una caro” eredita il lessico, ma non la struttura portante. Parla con calore di carità coniugale e di “fecondità responsabile”, ma tratta costantemente la procreazione come un aspetto tra i tanti, un simbolo inserito in una narrazione più ampia di autorealizzazione, sostegno emotivo e “accompagnamento”.

Il cambiamento decisivo si manifesta nel paragrafo 145, la sezione in cui i ghostwriter di Leone si affidano a Karol Wojtyła per superare i limiti senza dare l’impressione di farlo. Ecco il nocciolo della questione. La lettera afferma: “L’unione sessuale, come espressione della carità coniugale, deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita, anche se ciò non significa che questa debba essere una finalità esplicita di ogni atto sessuale. Possono infatti verificarsi [delle] situazioni legittime:

a) Che una coppia non possa avere figli. Karol Wojtyła lo spiega magnificamente quando ricorda che il matrimonio ha «una struttura interpersonale, è un’unione e una comunità di due persone […]. Per molte ragioni, il matrimonio può non diventare una famiglia, ma la mancanza di questa non lo priva del suo carattere essenziale. Infatti, la ragione interiore ed essenziale dell’esistenza del matrimonio non è solo quella di trasformarsi in una famiglia, ma soprattutto di costituire un’unione di due persone, un’unione duratura fondata sull’amore […]. Un matrimonio in cui non ci sono figli, senza colpa degli sposi, conserva il valore integrale dell’istituzione […] non perde nulla della sua importanza».

b) Che una coppia non ricerchi consapevolmente un certo atto sessuale come mezzo di procreazione. Lo afferma anche Wojtyła, sostenendo che un atto coniugale, che «essendo in sé un atto d’amore che unisce due persone, non può necessariamente essere considerato da loro come un mezzo di procreazione consapevole e desiderato».

Letto velocemente, il paragrafo può sembrare ortodosso. La Chiesa ha sempre riconosciuto i matrimoni sterili come veri matrimoni, e non ha mai preteso che gli sposi elaborassero nella loro immaginazione un’intenzione esplicita di avere un bambino prima di ogni abbraccio. Ma “Una Caro” non si limita a ricordarcelo. Il periodo “l’unione sessuale… deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita, anche se ciò non significa che questo debba essere un obiettivo esplicito di ogni atto sessuale”, sposta già il baricentro. Dice in effetti: la storia generale dell'”apertura alla vita” della coppia è sufficiente, anche se atti particolari non vengono vissuti, qui e ora, in quell’orizzonte procreativo.

Il problema non è solo la cornice che circonda quella frase. La frase stessa viene utilizzata per introdurre un nuovo standard. Invece di chiedersi se questo atto concreto rispetti la struttura procreativa voluta da Dio, “Una caro” ci invita a chiederci se la relazione di coppia, considerata nel suo complesso, possa ancora essere descritta come “aperta alla vita”, anche quando i singoli atti sono chiusi nella pratica. Poi canonizza questo cambiamento elencandolo come una delle tre “situazioni legittime”.

Anche la clausola sul non “cercare consapevolmente” la procreazione in ogni atto diventa tossica in questo contesto. Nel contesto originale di Wojtyła potrebbe essere letta come un semplice promemoria del fatto che gli sposi non sono obbligati a formulare un’intenzione procreativa esplicita prima di ogni abbraccio. In “Una caro” la stessa frase viene strappata dal suo contesto e riproposta. Viene inserita come una delle “situazioni legittime” proprio per suggerire che il significato procreativo dell’atto può recedere in secondo piano, purché la narrazione interiore della coppia sulla “carità coniugale” rimanga intatta. (…)

La stessa logica che attenua la contraccezione finisce per minacciare l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità. Se il peso morale degli atti sessuali risiede principalmente nella loro capacità di esprimere “amore”, e se “l’apertura alla vita” non è più legata alla struttura intrinseca dell’atto ma a un atteggiamento diffuso di generosità e cura, allora l’argomentazione contro le “unioni” omosessuali è già indebolita.

Cosa impedisce a un teologo formatosi in questa nuova scuola di affermare che due uomini o due donne possano vivere una “carità coniugale” di reciproco dono di sé, servizio e “fecondità” intesa come adozione, impegno sociale o sostegno psicologico? Se l’orientamento procreativo dell’atto è stato ampiamente assorbito in una metafora di “generatività”, e l’uso concreto dei poteri generativi può essere bloccato per gravi motivi, quale barriera di principio rimane?

Documenti come “Fiducia supplicans” hanno già giocato su questo terreno benedicendo le coppie omosessuali in astratto, pur insistendo sul fatto che non stanno benedicendo l’unione “in quanto tale”. La nuova teologia morale dell’Accademia fornisce una giustificazione più profonda: l’attenzione è rivolta alla storia interpersonale, alla “gioia di vivere”, al discernimento della coscienza, non alla specie morale oggettiva degli atti.

Una volta abbandonato l’antico insegnamento di “Casti connubii”, secondo cui ci sono atti che, per loro natura, costituiscono gravi violazioni della legge del Creatore, indipendentemente dalle circostanze, il resto si disfa rapidamente. Il cavallo di Troia che introduce clandestinamente la contraccezione in città non si fermerà qui. >>

CHRIS JACKSON

martedì 2 dicembre 2025

Sensi di colpa

LUMEN - "Will Hunting - Genio ribelle" è un film che ho apprezzato molto, sia per la recitazione di Robin Williams che per la storia in sè

COPILOT - È un film che lascia il segno, vero? “Good Will Hunting” riesce a coniugare profondità emotiva, brillantezza intellettuale e una straordinaria umanità.

La performance di Robin Williams — intensa, misurata, piena di compassione — è uno dei ritratti più autentici di uno psicologo sul grande schermo. Il suo personaggio, Sean Maguire, non è solo un terapeuta: è un uomo ferito che riesce a incontrare Will proprio nel punto in cui entrambi sono vulnerabili.

La scena in cui dice “It’s not your fault” (Non è colpa tua) — ripetuta più volte finché Will crolla — è diventata quasi un archetipo del momento terapeutico di rottura e liberazione. E il film stesso è un inno alla possibilità di trasformazione attraverso la relazione, non solo attraverso l’intelletto.

LUMEN - Quella in effetti è proprio la frase risolutiva del film ed è fondamentale. Però vorrei che tu me la spiegassi bene. Per cosa avrebbe dovuto sentirsi in colpa il ragazzo ?

COPILOT - È una domanda cruciale, Lumen — e la risposta tocca il cuore del film. Quando Sean (Robin Williams) ripete a Will “It’s not your fault”, non sta semplicemente cercando di consolarlo. Sta smontando un meccanismo psichico profondo: la convinzione radicata che Will sia responsabile del dolore che ha subito.

= Il senso di colpa di Will: da dove nasce
Will Hunting è un ragazzo brillante, autodidatta, ma profondamente ferito. È cresciuto in un ambiente abusivo, con violenze fisiche e psicologiche. Come spesso accade nei bambini traumatizzati, Will ha interiorizzato l’idea che se è stato maltrattato, dev’essere colpa sua.
Questo è un meccanismo noto in psicologia infantile: il bambino preferisce pensare “sono cattivo” piuttosto che “il mondo è cattivo”, perché così mantiene un senso di controllo.

= Difese e maschere
Per proteggersi da quel dolore, Will ha costruito:
> Una corazza di sarcasmo e aggressività;
> Una fuga nell’intelligenza, usata come barriera emotiva;
> Relazioni superficiali, per evitare il rischio di ess ere ferito di nuovo.
Ma sotto tutto questo, c’è un nucleo di vergogna e colpa non elaborata.

= La frase risolutiva: “It’s not your fault”
Quando Sean glielo ripete, non è solo una frase. È un atto terapeutico: una ripetizione che scava, che sfida le difese, che cerca di far crollare il muro. Will inizialmente resiste, poi si spezza. E in quel momento, il trauma viene riconosciuto come ingiusto, esterno, non colpa sua.
È il momento in cui Will può finalmente perdonarsi, accettare di essere amato, e scegliere di vivere.

= Conclusione
Will non doveva sentirsi in colpa per essere stato abusato, per essere stato abbandonato, per aver sofferto. Ma la sua mente lo aveva convinto del contrario. La frase di Sean è il grimaldello che apre quella prigione interiore.

LUMEN – Hai detto: << Will ha interiorizzato l’idea che se è stato maltrattato, dev’essere colpa sua. Questo è un meccanismo noto in psicologia infantile: il bambino preferisce pensare “sono cattivo” piuttosto che “il mondo è cattivo”, perché così mantiene un senso di controllo. >>. Davvero la mente umana funziona così ? E' terribile.

COPILOT - Sì, Lumen, è terribile — e al tempo stesso profondamente umano. Quel meccanismo psicologico, noto come colpa introiettata, è una strategia di sopravvivenza mentale che molti bambini adottano in situazioni di abuso, trascuratezza o trauma. Non è razionale, ma è funzionale: meglio sentirsi colpevoli che impotenti, perché la colpa dà l’illusione di poter cambiare le cose.

= Perché il bambino sceglie la colpa
Il bambino dipende totalmente dagli adulti. Se l’adulto è violento o assente, ammettere che il mondo è cattivo sarebbe insopportabile.
Pensare “sono io il problema” permette di mantenere un senso di ordine: se mi comporto meglio, forse mi ameranno.
È una forma di magia difensiva: attribuire a sé il potere di influenzare ciò che in realtà è fuori controllo.

= Ma questa strategia ha un costo
La colpa introiettata diventa una ferita identitaria: il bambino cresce sentendosi sbagliato, indegno, invisibile.
Da adulto, può sviluppare:
> Paura dell’intimità (per non essere ferito di nuovo);
> Auto-sabotaggio (per confermare la propria indegnità);
> Difficoltà a ricevere amore o fiducia.

= La terapia come atto di liberazione
Frasi come “Non è colpa tua” non sono solo parole: sono atti di disinnesco psichico, che aiutano a riscrivere la narrazione interna. Ma ci vuole tempo, fiducia, e spesso una relazione terapeutica che sia diversa da tutte le altre vissute prima.

= Conclusione
Sì, la mente umana può funzionare così — e proprio per questo la psicanalisi, la psicoterapia, la narrazione e la relazione diventano strumenti di salvezza. Riconoscere quel meccanismo è già un passo verso la guarigione.

giovedì 27 novembre 2025

Eccezziunale veramente !

Prendo a prestito il titolo di un vecchio film goliardico con Diego Abatantuono per parlare invece di un argomento molto serio e scabroso, ovvero l'autoassoluzione che i popoli (praticamente tutti) concedono a se stessi quando commettono violenze ed atrocità, sulla base di un loro presunto 'eccezionalismo'.
Ce ne parla Uriel Fanelli in questo pezzo (tratto dal suo blog – LINK), che parte dall'attuale situazione socio-politica degli Stati Uniti, per allargarsi a considerazioni più generali.
LUMEN


<< Mentre in Europa lo si descrive con la solita etichetta preconfezionata — “divisivo” — Trump, in realtà, porta avanti un set di idee che hanno la funzione opposta: uniscono il paese sotto una sorta di comun denominatore che la stampa europea non riesce, o non vuole, ammettere. Alcuni americani militano nei repubblicani, altri militano nei democratici, ma TUTTI, o quasi, hanno le idee di Trump.

Prendiamo, per esempio, l’eccezionalismo americano. È quella convinzione infantile — ma rivestita da solenni discorsi e manuali di geopolitica — di essere, come popolo e come nazione, al di sopra del normale giudizio della storia, e perfino della morale. Una sorta di immunità diplomatica applicata alla coscienza.

Così, se le bombe al napalm sui villaggi sono cattive, quelle sganciate a stelle e strisce diventano improvvisamente buone. Se il genocidio è universalmente riprovevole, ma quello degli indiani d’America diventa una simpatica “espansione verso Ovest”. Se le armi di distruzione di massa sono il Male Assoluto, scopriamo che le atomiche su Hiroshima e Nagasaki si trasformano in atti di “necessità storica”. Una partita truccata, insomma, dove l’arbitro coincide con il giocatore. 

Seguendo il filo dell’eccezionalismo ci si accorge che non è un’invenzione americana, ma una vecchia abitudine umana.

Lo troviamo nei discorsi di Himmler alle SS, quando rivendicava per la “razza eletta” il diritto di riscrivere la storia col sangue degli altri. Lo troviamo in Israele, con il suo eccezionalismo ebraico per cui il mantra “muh la Shoah” diventa il lasciapassare universale per qualsiasi azione politica o militare, mentre chiunque osi criticare finisce relegato al rango di goyim, cioè spettatore irrilevante della Storia.

Ogni genocidio, a ben guardare, ha sempre avuto dietro il proprio eccezionalismo di riferimento: l’idea che “noi” siamo unici, indispensabili, giustificati, mentre “gli altri” non contano abbastanza da meritare diritti, memoria o pietà. È il carburante ideologico che alimenta i massacri e li rende non solo possibili, ma addirittura presentabili.

Quello che Trump spaccia con lo slogan “America First” non è altro che eccezionalismo travestito da buonsenso economico. Non si capisce, infatti, per quale ragione egli debba avere il diritto — a colpi di dazi — di pretendere che le aziende europee, o cinesi, o indiane, trasferiscano la produzione negli Stati Uniti, creando lavoro in Ohio o in Pennsylvania, ma cancellando quello di migliaia di operai sul posto. La logica è sempre la stessa: il lavoro americano vale più del lavoro di chiunque altro, perché loro sono “eccezionali”, giusto?

E qui viene il bello: se provate a mettere in discussione questa logica, parlando sia con un repubblicano che con un democratico, scoprirete che le obiezioni non toccano mai il cuore del problema. Nessuno vi dirà che si tratta di una forma di sciovinismo imperialista, sbagliata in sé.

No, quello è un tabù. L’unico piano di discussione ammesso è quello tecnico: funziona o non funziona? Porterà davvero più posti di lavoro in America? Danneggerà troppo i consumatori? È un approccio da contabili geopolitici: non si giudica la legittimità del principio, ma solo il rendimento della macchina.

Così, l’eccezionalismo rimane il dogma di fondo, accettato da tutti e sottratto al dibattito pubblico. Che a predicarlo sia Trump o un qualsiasi democratico in giacca e cravatta poco cambia: la fede nell’America “più uguale degli altri” resta intatta. (...)

Prendiamo Israele. Se aveste proposto agli ebrei di proclamarsi “razza ariana” e di predicare apertamente lo sterminio dei palestinesi, si sarebbe alzata più di una voce di dissenso. Ma se lo stesso discorso lo confezionate come eccezionalismo — dalla religione del “popolo eletto” al mantra “siamo figli della Shoah” — allora il cittadino medio lo beve senza fatica. (...)

Ecco perché l’eccezionalismo è tanto pericoloso; [perchè] non viene quasi mai riconosciuto come tale, né denunciato come un male in sé. Anzi, si traveste da privilegio, da giustificazione storica, da identità culturale. È zuccherato come un veleno che si scioglie nel caffè: lo bevi senza accorgertene, e quando te ne rendi conto è troppo tardi.

Questa caratteristica dell’eccezionalismo la si ritrova dappertutto, sempre mascherata con la salsa locale. I musulmani che dicono: “a noi i diritti umani fanno schifo perché siamo musulmani”. Bene: provate a dare fuoco a un imam con tutta la sua famiglia, e scoprirete all’istante quanto “disumani” siete davvero. L’eccezionalismo funziona così: finché toglie diritti degli altri, diventa un principio nobile; quando invece tocca il tuo orticello, si trasforma di colpo in un crimine imperdonabile. (...)

E non riguarda certo solo il mondo islamico. In Russia si parla della “Terza Roma”: Mosca avrebbe una missione storica, unica e irripetibile, che le consentirebbe di fregarsene di qualsiasi regola internazionale perché, si sa, i russi “salvano la civiltà”. In Cina il vecchio “mandato celeste” è stato aggiornato in versione comunista: Pechino non opprime, realizza il proprio destino millenario, che guarda caso passa per campi di rieducazione, censura totale e capitalismo di Stato. (...)

Ma l’Europa non è da meno. In Ungheria Orbán ripete ossessivamente che il suo paese è “diverso” perché cristiano e tradizionale, quindi non soggetto alle stesse regole democratiche che si applicano altrove: un’eccezione culturale, naturalmente. In Polonia il cattolicesimo diventa scudo identitario: loro difendono la “vera Europa”, quindi ogni intrusione di Bruxelles è un attentato alla civiltà. Risultato: leggi liberticide e censura giustificate come “peculiarità storiche” da rispettare. >>

URIEL FANELLI

sabato 22 novembre 2025

Com'è profondo il Mare

L'inquinamento progressivo dell'ambiente, anche se appare più evidente sulla terraferma, non risparmia neppure gli oceani, nonostante la loro vastità.
A questo inquietante argomento è dedicato il post di oggi, tratto dal blog 'Un Pianeta non basta' dell'amico Agobit (LINK).
LUMEN


<< Il grande business della produzione e vendita nei prossimi anni di un miliardo di vetture elettriche, di miliardi di batterie, di accumulatori, di motori magnetici per pale eoliche e di milioni di pannelli solari, e di tutto ciò che è connesso alla economia green (ma non solo, anche di microchip e di armi di precisione) sta portando all'inizio della grande corsa verso i fondali oceanici, dove gli elementi nobili titanio, cobalto, manganese, litio ecc. e le terre rare necessarie alla nuova produzione, abbondano in modo superiore agli attuali giacimenti terrestri in Congo o in Cile.

Come sempre ai primi posti nella corsa all'accaparramento c'è la Cina con le sue industrie di Stato, ma non solo: le multinazionali con sede a Bruxelles, l'americana Lokheed per le armi, la Tesla ecc.

Nel silenzio generale dei media, con le bocche tappate dei movimenti verdi che al riguardo tacciono in modo assoluto, si sta per realizzare la piu grande devastazione ambientale a livello planetario con operazioni di scavo, di estrazione, di sommovimento (anche con esplosivi), di abbattimento, di trascinemento, di frantumazione e di immissione di sostanze chimiche nei fondali oceanici, con la distruzione senza precedenti della biodiversita' e la rovina dell'ecosistema oceanico di assorbimento del carbonio e della liberazione di ossigeno (circa il 50 % dell'ossigeno in atmosfera viene dai fondali oceanici).

E' una opèerazione che fa impallidire tutti gli altri tipi di inquinamento e devastazione industriale della terra e dei mari degli ultimi decenni.

Le grandi multinazionali che hanno deciso la svolta green nell'economia, tra cui i colossi produttori delle rinnovabili, hanno avviato le procedure per iniziare l'esplorazione e i primi sbancamenti delle profondita oceaniche : una regione di pianure abissali ampia quanto gli Stati Uniti continentali, situata in acque internazionali e che si estende dalla costa occidentale del Messico al centro del l'Oceano Pacifico, appena a sud delle Isole Hawaii.

Allo scopo hanno ottenuto dall'ISA (agenzia Onu composta da circa 50 persone che ha autorita' su tutti i fondali in acque internazionali) i permessi per iniziare lo scavo dei fondali e l'inizio della estrazione del prezioso fondo oceanico che, oltre a contenere nelle proprie viscere i metalli rari preziosi per la produzione delle batterie, dei microchip, dellle armi e dei motori elettrici, costituiscono l'ambiente che supporta migliaia di nuove specie ancora sconosciute avviate alla distruzione senza neanche essere catalogate e studiate (con importanti perdite non solo per la biodiversita, ma anche per la medicina e la biochimica, derivando molti farmaci e prodotti utili dalle componenti fisiologiche che sono il prodotto sintetizzato da innumerevoli specie naturali).

In nome della nuova religione green con i suoi idoli (Riscaldamento Climatico, Rinnovabili, Sostenibilità ecc.) si prepara così l'ennesima distruzione ambientale politicamente corretta. Il massacro degli oceani è ovviamente accompagnato dal solito silenzio: quello sulla responsabilità della crescita della popolazione umana senza limiti, cioè la vera causa di tutte le devastazioni ambientali del pianeta.

E' proprio di questi giorni (giugno 2023 - NdL) la notizia che le grandi multinazionali che guidano l'economia verde, sotto la guida di una holding controllata da Singapore, stanno preparando il piano per co-finanziare con 150 miliardi di dollari la costruzione di 123 megalopoli in Africa, tutte alimentate - secondo i progettisti - con "energia sostenibile" (sic!), servizi idrici, trasporti e infrastrutture comprese, con buona pace (eterna) delle foreste e delle selve africane e della loro biodiversità. >>

AGOBIT


Aggiungo, a completamento, un breve stralcio dell'articolo di riferimento riportato da Agobit in calce al suo post (Giovanni Brussato - “Salvare la Terra. Oceani Esclusi ?" - da L'Astrolabio). Lumen

<< Conosciamo meglio la superficie di Marte che i fondali oceanici, l'oceano profondo costituisce oltre il 95% dello spazio dove c'è vita sul pianeta, ma solo circa lo 0,0001% dei fondali marini profondi è stato studiato.
I biologi scoprono nuove specie in quasi ogni spedizione di esplorazione scientifica, ci sono temi di assoluta rilevanza, come il ruolo degli oceani nel ciclo del carbonio planetario e le potenziali risorse per la medicina umana presenti nella vita biologica da comprendere compiutamente.
L'attività mineraria rischia di modificare irreparabilmente, o distruggere, habitat che non conosciamo o di cui non abbiamo nemmeno cominciato a comprendere le caratteristiche.
Come dicono all’Ocean and Marine Wildlife Conservation Initiatives: “È importante. Perché rischiamo di perdere per sempre qualcosa di cui non abbiamo ancora nemmeno conosciuto l’esistenza”.
Eppure, su questi rischi, nel nostro paese – e negli altri paesi avanzati protagonisti della transizione – non si dice neppure una parola, quasi non ci riguardassero o forse perché toccano nervi scoperti, aspetti contraddittori di una decarbonizzazione spinta di cui non sono ancora chiari né gli esiti né i costi.
Le stesse dichiarazioni delle compagnie minerarie inconsapevolmente squarciano il velo di riservatezza sui reali costi sociali ed ambientali. Dovremo estrarre enormi quantità di metalli devastando innumerevoli ecosistemi. >>
GIOVANNI BRUSSATO

lunedì 17 novembre 2025

Pensierini – XCII

ECONOMIA IRRAZIONALE
L'economia è, in ultima analisi, psicologia applicata, e la psicologia è una scienza.
Quindi, anche se molte delle teorie economiche risultano (nei fatti) imprecise, ciò non significa che – almeno in linea di principio - non sia possibile elaborarne altre più 'centrate', che tengano conto in modo adeguato dei nostri meccanismi neurali.
Gli economisti classici, infatti, attribuivano all'agente economico il massimo della razionalità, salvo poi sorprendersi (ex post) per le mille sciocchezze irrazionali che venivano compiute dai mercati.
Oggi invece si è scoperto che anche in campo economico l'uomo si comporta molto spesso in modo irrazionale, cioè controproducente.
Come spiega Daniel Kahneman nel suo bellissimo saggio PENSIERI LENTI E VELOCI (che consiglio vivamente di leggere) il comportamento umano non e' sempre razionale, perchè esistono due sistemi diversi di pensiero, che funzionano in alternativa tra loro.
Possiamo essere razionali, quando utilizziamo il sistema del 'pensiero lento', oppure istintivi, quando utilizziamo il sistema del 'pensiero veloce',
Nel primo caso, che è più faticoso, privilegiamo la precisione della risposta, nel secondo, che è più semplice, privilegiamo la rapidità (e la comodità).
Nel campo economico, data la natura dei problemi, dovrebbe dominare il 'pensiero lento', ed invece ci troviamo spesso ad utilizzare quello istintivo.
Con le conseguenze irrazionali che si possono facilmente vedere, soprattutto nei mercati finanziari.
LUMEN


IL PARADOSSO DEL CONTROLLO
TESI: Per controllare e ridurre la popolazione mondiale (obiettivo indispensabile, per salvare l'ecosistema), è necessaria una grande ed attenta pianificazione a livello mondiale.
ANTITESI: Ma una maggiore pianificazione aumenta ulteriormente la complessità del sistema antropico, e quindi, come insegnao gli esperti, accelera la corsa verso il collasso.
SINTESI: O la popolazione diminuisce da sola, oppure siamo fregati.
LUMEN


BIOETICA
Ogni tanto si sente parlare di Bioetica, e certamente i progressi della scienza, soprattutto medica, rendono questa disciplina sempre più importante ed ineludibile.
Sicuramente quello della Bioetica è un campo molto delicato, nel quale serve prima di tutto equilibrio e consapevolezza, ma anche una certa apertura mentale. 
E' una disciplina in cui ci sono mille domande, spesso difficili, ma nessuna risposta sicura.
Per questo mi chiedo (ma seriamente, senza polemica) come fanno gli esponenti delle religioni tradizionali ad avvicinarsi correttamente a questi problemi, visto che loro, per definizione, hanno già tutte le risposte (ovviamente sbagliate).
Eppure, anche nelle nazioni laiche, quando si discute di Bioetica, vengono sempre immancabilmente coinvolti.
LUMEN


SINISTRA INCLUSIVA
La sinistra si vanta di essere 'inclusiva' con tutte le altre culture, ma, a bene vedere, lo è solo a parole, cioè quando non è al potere, perchè in tal caso le rogne sono di qualcun altro.
Quando prende il potere (come nei paesi comunisti) diventa 'esclusiva' esattamente come gli altri.
Ma non per cattiveria: solo perchè una società inclusiva (più in senso culturale che etnico) non può funzionare bene.
Nei secoli passati avevano inventato la regola del CUIUS REGIO EIUS RELIGIO, per evitare la commistione delle religioni; e funzionava.
Poi però sono stati travolti dagli eventi.
LUMEN


SPRECO DI INTELLIGENZA
Il famoso romanziere Raymond Chandler diceva che "Gli scacchi sono il più cospicuo spreco di intelligenza umana che si possa riscontrare, al di fuori di un'agenzia di pubblicità".
Forse ha ragione (e lo dico da scacchista dilettante), ma - come spreco di menti eccelse - anche la teologia fa ampiamente la sua parte.
E, come se non bastasse, fa anche più danni.
LUMEN


MOTIVAZIONI
A proposito delle "motivazioni psicologiche", e della loro importanza a livello soggettivo, eccovi un bell'aneddoto che ho trovato sul web:
Peter Schultz, l’inventore delle fibre ottiche, raccontava di aver incontrato una volta tre operai che lavoravano in un cantiere edile. Avvicinandosi chiese loro: “Cosa state facendo?”
Avevano il medesimo compito, ma le loro risposte furono completamente diverse: “Spacco pietre” rispose il primo. “Mi guadagno da vivere” rispose il secondo. “Partecipo alla costruzione di una cattedrale” disse il terzo.
Chissà, forse il terzo era più felice dei primi due.
LUMEN

mercoledì 12 novembre 2025

Appunti di Geo-Politica – (7)

Tutti i testi sono tratti dalla pagina FACEBOOK 'Termometro Geopolitico'. LUMEN


LE DUE EUROPE
Per l'Europa occidentale, le priorità sono economiche e industriali, con particolare attenzione alle opportunità commerciali e alla risoluzione dei problemi, mentre si cerca di arginare l'emigrazione di massa e l'aumento della criminalità in alcune città.
Nell'Europa orientale, l'attenzione è rivolta alla lotta contro i russi, con ogni discorso dei leader locali rivolto a loro, guidati da baltici e polacchi. Forse si sentono minacciati, e questo giustifica un'isteria totale, ma non è esattamente questo l'argomento di cui parlerò qui.
Ciò ha creato due Europe con priorità nettamente divergenti, aggiungendo un'ulteriore frattura a un continente già alle prese con radicati problemi di autonomia.
Germania e Francia, i precursori naturali in qualsiasi impresa del genere, hanno temporeggiato, ma alla fine sono state travolte dall'infinita ondata di isteria. Oggi, si trascinano nella scia della retorica anti-russa, senza tuttavia offrire reali alternative.
Di conseguenza, l'Europa è rimasta bloccata, congelata nel tempo, incapace di elaborare politiche di sviluppo unificate per l'intero continente.
Il nucleo economico dell'Europa oscilla ora tra l'essere trascinato dall'Oriente e l'essere trainato dagli Stati Uniti.
L'interruzione dell'approvvigionamento energetico russo ha scatenato gravi problemi industriali che rimangono irrisolti, ma le frecciatine alla Cina potrebbero infliggere un colpo ancora più duro. La Cina fornisce quasi la metà delle terre rare di cui l'Europa si nutre.
In questa scommessa ad alto rischio, l'Europa rischia di scavare una fossa ancora più profonda. Il ruolo dell'Europa si riduce a quello di un mercato ribelle, alla deriva proprio a causa dell'assenza di strategie politiche ed economiche coese. (...)
Senza priorità fondamentali al timone, l'Unione Europea è sull'orlo dell'implosione e non vedo soluzioni rapide all'orizzonte, se non l'emergere di una leadership audace e decisa.
PATRICIA MARINS


LO STATUS DELL'UCRAINA
L’Ucraina non è più uno stato sovrano dal 2014 quando è passata, col golpe di piazza Maidan, sotto la sovranità NATO-USA con il supporto delle milizie banderiste neonaziste e di un governo indicato dall’Ambasciata americana a Kiev, vera regista del golpe. Il governo Zelensky è un governo fantoccio, utile per dare una parvenza di democraticità a quello che è a tutti gli effetti un regime militarizzato e repressivo sotto il tallone delle formazioni neonaziste e della polizia.
Eletto con la promessa di pacificazione con la Russia e di risolvere la questione del Donbass rispettando gli accordo di Minsk e le autonomie di quelle regioni, dopo le elezioni ha cambiato linea di condotta ed ha abbracciato la causa della guerra infinita alla Russia aderendo a tutta l’impostazione nazionalista dell’estremismo ucraino russofobo, fagocitato dagli ambienti NATO e intimidito dalle milizie banderiste.
Tutta l’opposizione politica è stata decapitata, messa al bando o incarcerata, ridotta al silenzio o fuggita dal paese. L’Ucraina non è più una democrazia, è un paese fallito, con una economia fallita, che vive dei sussidi europei e di economia di guerra.
L’informazione è militarizzata e i dissidenti, anche giornalisti stranieri che operano nel Donbass, sono iscritti in un albo con tutti i riferimenti anagrafici personali e resi pubblici sulla rete: una vera e propria lista di proscrizione che mette a rischio la loro vita.
L’esercito è sotto il comando NATO-USA. Il suo nerbo è costituito dai reparti speciali addestrati dalla NATO e da milizie occidentali camuffate da volontari e mercenari.
Il compito assegnato dalla NATO – angloamericana e antieuropea – al popolo ucraino è quello di fare guerra alla Russia e di sacrificarsi per questa crociata fornendo carne da cannone.
ANTONIO CASTRONOVI


TRA ECONOMIA E POLITICA
Il confronto "fra civiltà" non e` fra "democrazie Liberali" e "autocrazie", ma tra "plutocrazie liberali" (governo dei ricchi) e "autocrazie".
Volendo andare ancora piu` in profondita`, fra "economia che governa la politica" e "politica che governa l'economia".
Quale sia da preferire dipende dagli obiettivi di ciascuno, cioe` da cio` che vuole veramente per se`, la propria famiglia, il proprio Paese.
Ma in questo confronto le cose da "sfatare" sono molte, specie se si tende a definire le "democrazie liberali (leggi => plutocrazie) "il Bene" e le "autocrazie" "il Male".
Mentre per la liberta` di pensiero spazi ancora percorribili ci sono ovunque, per la "liberta` di parola" ( => liberta` di espressione, cioe` la liberta` di comunicare all'esterno il proprio pensiero) ci sono delle restrizioni.
- In qualsiasi "regime" (come lo sono sia le plutocrazie che le autocrazie) se cio` che vuoi comunicare "all'esterno", diffondere, propagandare, promuovere coincide con le posizioni governative godi di molta liberta`.
- In qualsiasi "regime" (vedi sopra) se cio` che vuoi "comunicare" (diffondere, propagandare, promuovere) contraddice "pesantemente" le posizioni governative sarai soggetto a "restrizioni" che vanno dalla marginalizzazione (ti vedono e leggono in pochi), al "soffocamento", cioe` ti ritrovi senza risorse finanziarie, spesso senza lavoro, talvolta in stato di arresto. (...)
Quindi rimane il dilemma: e` preferibile che sia l'economia (cioe` chi detiene quel potere) a "comandare" la politica, o e` preferibile che sia la politica (chi detiene quel potere) a "comandare" l'economia.
Con tutte le posizioni intermedie possibili e plausibili, perche` in ogni caso non si "comanda in due" (...), e gli strumenti di controllo e potere di cui lo Stato si dota (Parlamento, Governo, Magistratura, Esercito, Polizia, Servizi di sicurezza...) saranno gestiti "da chi comanda".
LORIS ZECCHINATO

giovedì 6 novembre 2025

Il nuovo Fratello

Dopo aver pubblicato alcuni post realizzati con l'aiuto della Intelligenza Artificiale (ed altri seguiranno), ecco un post dedicato, invece, ai rischi ed ai pericoli derivanti da questa nuova rivoluzione informatica. Che molti considerano il 'Grande Fratello' del XXI secolo, ma forse è molto di più.
Il testo è di Norberto Fragiacomo ed è tratto dal sito “L'Interferenza” (LINK).
LUMEN


<< Ho letto con attenzione, e crescente sbigottimento, l’analisi del fenomeno I.A. proposta da Alessandro Visalli, che, essendo un intellettuale autentico, conserva il “brutto vizio” socratico di interrogarsi su questioni, poste dalla modernità, che la maggior parte di noi spettatori passivi, per pigrizia mentale o per inconsapevole conformismo, giudica naturali e dunque neutri sviluppi dell’evoluzione tecnologica. (...)

Visalli ci ammonisce che non è saggio prendere sottogamba delle novità che, ben lungi dal limitarsi a una dimensione ludica, potrebbero modificare la nostra orientazione nel mondo.

L’autore adombra la minacciosa prospettiva che gli LLM [large language model – NdL] (un acronimo che neppure conoscevo!), personalizzandosi, prendano il controllo di ognuno di noi, imparando a svolgere il compito di un “Super-Io” capace di indirizzare le nostre scelte e prima ancora i nostri pensieri.

In pratica: dialogando con noi, esaminando le nostre esternazioni, le preferenze e i post che ovunque disseminiamo, l’intelligenza artificiale acquisirebbe informazioni sufficienti a creare un doppione virtuale di ciascuno e, nel contempo, ad addestrare l’originale umano ad assumere atteggiamenti e condotte conformi alle direttive impartite dai programmatori.

Sembra la trama de 'L’invasione degli ultracorpi', ma l’alieno in questo caso non proviene da una galassia lontana: è una creatura che, come quella immaginata da Mary Shelley, potrebbe un domani rivoltarsi contro il creatore, ma nel frattempo assume la funzione normalizzatrice che Huxley ne Il mondo nuovo assegna alla droga artificiale chiamata soma.

Al pari del soma, in effetti, l’alter ego elettronico promette conforto ed evasione, ma fa anche molto di più, proponendosi all’individuo come una sua copia più saggia e matura, in quanto immune da debolezze umane: un maestro di vita, un “infallibile” modello da seguire.

Nella sua riflessione lucida e spiazzante Visalli evidenzia un aspetto fondamentale di cui in genere l’utente non si avvede: l’interlocutore virtuale non comunica in maniera asettica, ma adotta comportamenti “amichevoli, accomodanti, a volte complici”, guadagnandosi la fiducia del fruitore con un’apparente empatia.

Un tanto dovrebbe sconcertarci, impaurirci, visto che le macchine non provano sentimenti – e invece lusinga esseri umani sempre più disorientati e abbandonati a loro stessi. D’altra parte, chi mai potrebbe capirci meglio di una versione potenziata di noi stessi?

Spesso rapportandoci con persone anche a noi vicine ci sentiamo incompresi, abbiamo l’impressione di non essere sulla stessa lunghezza d’onda: ciò crea frustrazione, risentimento e sconforto. L’I.A. “sartoriale”, invece, sembra relazionarsi con noi come se ci conoscesse da sempre: è una grossolana illusione, indotta però dal ricorso ad ammiccamenti e dall’impiego di modalità espressive e finanche toni mutuati dai nostri.

Non si tratta di un’innocente parodia o di un supporto psicologico disinteressato: al “soggetto” con cui pian piano familiarizziamo sarebbe stato affidato un preciso incarico, quello di standardizzare le nostre opinioni e la nostra visione del mondo, riportandole nell’alveo di un senso comune che magnifica le virtù dell’Occidente – cioè del giardino in mezzo alla giungla – e la superiorità dei suoi valori rispetto a quelli dell’umanità residuale.

L’operazione è sottilmente insidiosa: se delle parole e delle intenzioni di pennivendoli di regime che ci imboniscono da pulpiti televisivi è normale, quasi istintivo, diffidare (anche perché sono per noi dei perfetti estranei), assai più complesso e dispendioso è dal punto di vista emotivo entrare in contrasto con un interlocutore che, in veste di amico o di “fratello maggiore”, ci propina una Weltanschauung coerente, rassicurante e ispirata a quello che viene spacciato per buon senso. 

Ironia della sorte, saremo stati noi a rendere il nostro assistente/contraddittore più persuasivo e autorevole, allenandolo di giorno in giorno e mettendogli a disposizione parole e scritti che, opportunamente riconfezionati, potranno essere adoperati per confonderci, imbarazzarci e (sempre bonariamente) zittirci.

Digiuno delle necessarie conoscenze scientifiche, non sono in grado di dire se l’I.A. abbia già acquisito un siffatto potere di manipolare le menti o se lo conseguirà in un prossimo futuro, né come la tecnica possa realizzare un tale (sinistro) prodigio: rilevo tuttavia che da tempo i famigerati algoritmi ci sorprendono quotidianamente con offerte ad personam – paiono leggere i nostri pensieri, sebbene non facciano altro che processare le informazioni che noi stessi forniamo loro.

Come il lettore avrà inteso, mi sono soffermato solamente su alcune delle problematiche sollevate da Visalli nel saggio citato, e incorrerei in una pessima figura se, da incompetente quale sono, presumessi di poter aggiungere qualcosa alla sua esposizione.

In chiusura vorrei però indicare due rischi aggiuntivi rispetto all’utilizzo degli LLM come raffinati strumenti a disposizione della propaganda di sistema.

Il primo è che, in una società ormai disintegrata, l’essere umano – che è pur sempre un “animale sociale” – finisca per sviluppare un legame esclusivo ed escludente con il suo clone digitale: un legame che aggraverebbe la solitudine esistenziale da cui per natura l’uomo rifugge. Il passo successivo sarebbe la deificazione dell’A.I., consigliere eretto(si) a messia, con contestuali perdita dell’indipendenza di giudizio ed annichilimento della personalità individuale.

Il secondo pericolo, connesso al primo, è una fuga senza ritorno nel virtuale. Da sempre l’umanità è angosciata dalla prospettiva della morte e dalla confusa consapevolezza del divenire delle cose: è il 'Thauma', la “sgomenta meraviglia” ad aver indirizzato i nostri avi sul sentiero della filosofia, vista come unico possibile rimedio.

Con l’avvento della modernità il testimone è passato (alquanto frettolosamente) alla scienza intesa come tecnica che promette, sia pure in modo larvato, il superamento della precarietà insita nella condizione umana.

Considerato che l’immortalità è una meta inaccessibile, potremmo essere indotti a contentarci di un suo surrogato virtuale, affidando all’intelligenza artificiale ricordi, idee, immagini, filmati ecc. – in una parola: dati, nella patetica convinzione che un “gemello elettronico” (magari, in futuro, un ologramma) possa prolungare all’infinito la nostra esistenza.

Il permanere di questa… ombra atta a riprodurre voce, atteggiamenti, gesti, tic, motti di spirito del defunto potrebbe, almeno all’inizio, costituire un sollievo per chi resta, ma essa sarebbe comunque priva di anima (qualunque cosa sia l’anima…), per cui la sopravvivenza risulterebbe fittizia, e il proliferare di simili entità distorcerebbe alla lunga la percezione degli esseri umani in carne e ossa, sprofondandoli in un’allucinata psicosi. >>

NORBERTO FRAGIACOMO

domenica 2 novembre 2025

Governanti e Governati – 2

Si conclude qui il post di Lorenzo Mesina, tratto da Pandora Rivista, sui rapporti tra Democrazia ed Elitismo (LINK) (seconda ed ultima parte).
LUMEN

(segue)

<< L’indagine di Gaetano Mosca sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del suo intreccio con la democrazia.

Consapevole dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in espansione contro i vecchi ceti dominanti. Mediante l’uso di principi universali (libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia ha coinvolto il popolo nella sua ascesa al potere, legittimandosi come rappresentativa di tutta la nazione e non come classe particolare.

Dall’analisi di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo: la legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere. Contrariamente a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma gli interessi particolari del ceto politico o, peggio, dei suoi singoli membri.

La ricca riflessione condotta da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere si confronta con la scienza politica élitista con l’intenzione di superare le sue obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno. Le critica gramsciana all’elitismo si inserisce nell’orizzonte di una scienza politica integralmente storicizzata e incentrata sul concetto di egemonia, come categoria generale della politica e della storia. Obiettivo di Gramsci è quello di superare dialetticamente la teoria delle élite, sviluppandola in una prospettiva radicalmente democratica.

È soprattutto sulle opere di Gaetano Mosca (e in misura minore quelle di Michels e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci. Le sue critiche riguardano sia l’impianto analitico della teoria moschiana sia il suo implicito orientamento politico conservatore. Gramsci condivide il principio secondo cui in ogni formazione sociale «esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti», come condivide il fatto che «tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)».

Anche per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli élitisti. La critica gramsciana all’elitismo riguarda il suo impianto positivista, che si limita a registrare meccanicamente determinati fatti e processi per poi elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della storia. Tale approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e oligarchico dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a mantenere le disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.

Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca, sia nella Teorica sia negli Elementi di scienza politica (1896, 1923), accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di concetti vaghi. Quello che gli élitisti italiani non sono in grado di comprendere sono la natura e le dinamiche delle élite nel momento in cui le masse irrompono sulla scena politica europea, in particolare con l’avvento del primo conflitto mondiale.

Per questo Gramsci intende indagare la nascita, la selezione e le dinamiche politiche delle élite in una prospettiva essenzialmente storicista e dialettica. Questa deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto comprendere le modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono coscienza di sé e del proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente degli intellettuali.

Nelle ricerche condotte nei Quaderni Gramsci non intende limitarsi a constatare la divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana. Per questo si domanda «come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti».

Formazione dei dirigenti che deve avvenire muovendo dal presupposto che la distinzione tra governanti e governati non rappresenti un destino immutabile, ma «sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni». Il problema che Gramsci si pone è quello di tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il soggetto e lo Stato. Questi permangono contrapposti in modo conflittuale e contraddittorio nelle architetture istituzionali liberal-democratiche.

L’elitismo approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice, affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e governati. Per Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.

Nel partito politico Gramsci individua il mezzo «più adeguato per elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di un’educazione delle masse capace di integrarle nel progetto di una piena autodeterminazione del corpo sociale («società regolata»).

Nel partito come «moderno Principe», l’esercizio delle funzioni politiche da parte delle proprie élite non è semplice dominio sulle masse. Al contrario costituisce quella combinazione di direzione, produzione di consenso, senso storico e organizzazione che ne determina la capacità egemonica nella società.

La prospettiva radicalmente democratica di Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese. Superamento della contrapposizione netta tra governanti e governati attraverso le funzioni organizzative di un partito che ha l’ambizione di porsi come l’elemento rappresentativo e direttivo dello sviluppo dei conflitti e delle forze sociali.

Il pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa il problema del rapporto tra élite e democrazia. Se per Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per Antonio Gramsci la soluzione del problema indicato dagli élitisti consisteva nel superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.) hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore in una prospettiva liberale.

Obiettivo comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la presenza di un pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema democratico. L’immagine di democrazia che ne emerge, specialmente dall’opera di Schumpeter, è quella di uno strumento istituzionale in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi di élite, elette attraverso il voto popolare.

La democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite. Ne emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership: i cittadini dispongono del diritto di scegliere chi si assumerà la responsabilità di prendere le decisioni politiche e solo indirettamente cosa deciderà per la comunità intera.

Se, come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni: la loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento (le elezioni). In altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci, della mediazione tra élite e società. >>

LORENZO MESINI

lunedì 27 ottobre 2025

Governanti e Governati – 1

Nonostante i suoi indubbi pregi, anche la Democrazia non può evitare i condizionamenti dell'elitismo, con la netta divisione tra coloro che governano ed i semplici cittadini, i quali, pur votando, non hanno mai il vero controllo dello Stato. 
Ce ne parla Lorenzo Mesini in questo lungo, ma interessante, articolo tratto da 'Pandora Rivista' (LINK)  (prima parte di due).
LUMEN


<< Punto di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone: governanti e governati, dominatori e dominati. I primi costituiscono una minoranza più o meno ristretta, che tende a concentrare nelle proprie mani una grande quantità di potere e di risorse (sia materiali che simboliche). I secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.

Obiettivo principale della teoria delle élite, a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, è stato quello di elaborare una giustificazione teorica a questa indiscutibile uniformità che, con forme diverse, attraversa la storia e le società umane. La distinzione tra governanti e governati non è tuttavia una scoperta della scienza politica tra Otto e Novecento, ma è sempre stata oggetto delle varie tradizioni che attraversano la storia del pensiero politico. (…)

Il pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica. Se l’ordine politico antico e cristiano era concepito come un ordine naturale (oggettivo e gerarchico) posto a stabile fondamento della politica, l’età moderna pensa invece l’ordine come prodotto umano e artificiale, fondato sull’attività razionale degli individui, soggetto al conflitto e al mutamento.

L’idea di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini. I grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

L’assenza di un ordine naturale tra gli individui costituisce il problema da cui muove il pensiero politico moderno: la naturale uguaglianza tra gli uomini è infatti foriera di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra omnes dello stato di natura). La necessità dell’ordine politico nasce quindi dall’esigenza di difendere l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli uomini, uguaglianza che deve essere tutelata dai suoi stessi effetti collaterali.

Attraverso il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge universalmente valida al suo interno. Gli autori del potere (gli individui) tuttavia, non lo esercitano in maniera diretta, ma attraverso istituzioni rappresentative (il sovrano rappresentativo o un’assemblea parlamentare) che sono superiori a coloro che rappresentano. Gli autori del potere non coincidono quindi in maniera diretta con i suoi attori (le istituzioni rappresentative).

Questo elemento di disuguaglianza all’interno del corpo politico moderno non deriva da alcuna superiorità di carattere ontologico o naturale ma è di carattere prettamente funzionale, volta a garantire l’unità dello Stato. In linea di principio nessuna distinzione sociale deve giustificare alcuna distinzione politica, dato che la politica è il prodotto della razionalità comune di cittadini uguali. A esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo interno.

Ovviamente nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche, amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione reciproca.

Il pensiero politico moderno e la sua idea di democrazia (sia nella sua versione liberale che socialista) traggono la propria forza da: a) l’idea che nessuna differenza pre-politica (naturale o sociale) possa giustificare in linea di principio la superiorità politica di nessun cittadino, b) la necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati. (...)

L’importanza della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello Stato. Per il pensiero politico moderno risulta infatti illegittima ogni forma di ordine politico in cui i cittadini soggetti al potere non ne siano al contempo gli stessi autori.

Legittimo è quel potere che nasce e si concepisce come autogoverno di cittadini uguali, obbedienti a leggi universali. A questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto meno a livello teorico. Ogni forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata dispotica o tirannica.

Nei confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite (Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica. Muovendo dalla constatazione che in ogni contesto sociale ad esercitare il potere sono sempre gruppi ristretti, i teorici delle élite mostrano come la storia e il reale funzionamento delle istituzioni e della politica smentiscano di fatto la teoria liberale parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le dottrine socialiste.

Gaetano Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della storia e della politica sono sempre state le élite. La distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della politica. La dinamica storica consiste per Mosca essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per assicurarsi maggior potere.

Nella Teorica dei governi e governo parlamentare (1883) si sottolinea come ogni governo consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si impone su una maggioranza divisa e disorganizzata. Mosca distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi ambiti della società.

Il fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali classificazioni delle forme di governo. Le principali classificazioni tradizionali, quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere sotto le critiche di Mosca. Le classiche forme di governo non sono semplicemente il risultato di classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la maschera legale dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di persone esercita effettivamente il potere.

Mosca è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei governati. Con la teoria della formula politica Mosca intende individuare quelli che a suo avviso sono i principi astratti che consentono ai governanti di giustificare il proprio potere, in accordo con le convinzioni più diffuse nella società. Le ‘formule politiche’ non costituiscono semplici mistificazioni, ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la propria obbedienza richiamandosi a norme generali.

Mosca riconduce la molteplicità di formule politiche a due principi: uno soprannaturale e uno (apparentemente) razionale. Democrazia è per Mosca solo una delle formule politiche razionali con cui determinate élite giustificano il proprio potere. Il principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura oligarchica di ogni governo.

Al di sopra delle molteplici formule politiche, per Mosca c’è sempre il potere di un’élite. Anche quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti). Queste, lungi dall’essere promotrici di emancipazione, sono le effettive detentrici del potere. >>

LORENZO MESINI

(continua)

martedì 21 ottobre 2025

I Percorsi della Violenza

Il post di oggi è dedicato a Randall Collins, un sociologo americano specializzato nell'analisi della violenza umana. Tra le sue opere più importanti tradotte in italiano, possiamo citare “Violenza – una analisi sociologica”.
Secondo Collins il conflitto è socialmente inevitabile a causa della distribuzione ineguale del potere, e distingue tre ambiti principali di questa disparita: il mondo del lavoro (in cui la società si divide in classi); i ceti sociali (in cui le persone si dividono per età, sesso, appartenenza etnica, livello culturale) e l'arena politica (in cui i partiti e i movimenti si contendono il potere istituzionale).
Per fortuna, sostiene Collins, gli uomini non sono naturalmente violenti, pronti ad aggredirsi al minimo pretesto. Questa idea è un “mito” alimentato dal cinema, dalla televisione e dai romanzi.
In realtà l’uomo subisce una grande tensione emotiva tutte le volte che è in procinto di aggredire o di essere aggredito e quindi, affinché la violenza si verifichi in modo effettivo e (potenzialmente) letale, devono verificarsi alcuni particolari presupposti.
Il testo che segue è stato elaborato con l'aiuto di Copilot.
LUMEN


<< La violenza è spesso percepita come un’espressione primitiva dell’essere umano, una pulsione che emerge in condizioni di stress, rabbia o conflitto. Tuttavia, il sociologo americano Randall Collins ci invita a ribaltare questa visione. Nella sua analisi microsociologica, la violenza non è affatto spontanea: è rara, difficile da attuare e, nella maggior parte dei casi, inefficace.

Collins sostiene che gli esseri umani non sono naturalmente portati alla violenza, ma che essa si manifesta solo quando si creano condizioni specifiche che permettono di superare una forte barriera emotiva.

Questa barriera, che potremmo definire come una sorta di “tensione da confronto”, è ciò che impedisce alla maggior parte delle persone di agire violentemente, anche quando provocate. La paura, l’ansia, l’incertezza e il senso di colpa sono emozioni che bloccano l’aggressione diretta.

Per questo motivo, la violenza fisica è spesso goffa, esitante, e si risolve in gesti maldestri o in minacce verbali. Solo in alcune situazioni — quando l’ambiente, il contesto sociale o la dinamica interpersonale lo permettono — la violenza diventa “competente”, cioè efficace e portata a termine.

Uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Collins è la sua attenzione agli schemi situazionali che facilitano la violenza. Tra questi, spicca il cosiddetto “effetto cecchino”, una dinamica in cui l’aggressore si concentra esclusivamente sull’aspetto tecnico dell’azione: la mira, la postura, il respiro, la gestione dell’arma.

In questo stato, la vittima non è più percepita come un essere umano, ma come un bersaglio astratto. L’atto violento si trasforma in un esercizio di precisione, una performance tecnica che distacca l’aggressore dalle conseguenze morali del suo gesto. È una forma estrema di deumanizzazione, favorita da contesti militari, paramilitari o tecnologici.

La guerra moderna offre numerosi esempi di questo schema. L’uso di droni, missili teleguidati e bombardamenti a distanza permette di colpire senza vedere direttamente la vittima. La distanza fisica diventa distanza emotiva: non c’è contatto visivo, non c’è interazione, non c’è riconoscimento dell’altro.

Collins sottolinea che durante la Seconda Guerra Mondiale, solo una minoranza dei soldati americani sparava con l’intento reale di uccidere. La vicinanza al nemico rendeva l’atto troppo carico di tensione. La violenza, per essere attuata, ha bisogno di essere “raffreddata”.

Ma non è solo la distanza a facilitare l’aggressione. Collins identifica altri schemi che riducono la barriera emotiva. Uno di questi è l’attacco ai più deboli: quando l’aggressore percepisce un vantaggio netto, il rischio di resistenza o ritorsione si abbassa, e la violenza diventa più probabile. È il caso del bullismo, della violenza domestica, delle aggressioni a persone isolate. In questi contesti, l’asimmetria di potere crea le condizioni favorevoli all’azione violenta.

Un altro schema è la ritualizzazione della violenza. In alcune situazioni — come le risse tra tifosi, i duelli tra adolescenti o le sfide tra bande — l’aggressione segue un copione, un codice non scritto che legittima l’atto. La presenza del pubblico, l’attesa dello scontro, la pressione sociale contribuiscono a creare un clima in cui la violenza è non solo accettata, ma attesa. Collins parla di “duelli ritualizzati”, dove l’interazione violenta è quasi teatrale, e dove l’obiettivo non è tanto ferire, quanto affermare il proprio status.

Anche l’inganno gioca un ruolo cruciale. L’aggressione a sorpresa, l’imboscata, il tradimento permettono di evitare il confronto diretto. L’aggressore colpisce quando la vittima è impreparata, riducendo la tensione emotiva e aumentando l’efficacia dell’azione. È una strategia che si ritrova tanto nei conflitti armati quanto nelle dinamiche interpersonali.

Infine, Collins analizza il ruolo della desensibilizzazione. Attraverso l’addestramento militare, la propaganda, i videogiochi violenti o il linguaggio tecnico, l’individuo viene “allenato” a ignorare l’impatto emotivo della violenza. Frasi come “neutralizzare il bersaglio” o “eliminare la minaccia” sostituiscono il riconoscimento della sofferenza altrui. La violenza diventa routine, procedura, operazione.

In sintesi, Randall Collins ci offre una visione radicalmente nuova della violenza: non come impulso, ma come interazione sociale complessa, condizionata da fattori ambientali, psicologici e culturali.

La sua analisi ci costringe a ripensare il modo in cui interpretiamo il conflitto, l’aggressività e persino la guerra. In un mondo in cui la violenza è sempre più mediata da tecnologie, rituali e narrazioni, comprendere questi meccanismi diventa essenziale per decostruirli e, forse, per disinnescarli. >>

COPILOT

giovedì 16 ottobre 2025

Il Femminismo Moderno

I limiti concettuali del femminismo moderno, così come si è evoluto nel tempo, analizzati dalla penna corrosiva di Uriel Fanelli (dal suo Blog - LINK).
LUMEN


<< Quando si parla del problema del “femminismo” di solito si commette l’errore di confondere almeno tre periodi del femminismo stesso. E come capita per ogni cosa, se andiamo a fondo scopriamo che anche all’interno di queste tre ondate troviamo differenze molto forti: sono differenze nel tipo di militanza, nel modo in cui la militanza si manifesta, e nelle istanze politiche che raccolgono il consenso verso questo argomento.

Quindi, voglio chiarire che il discorso si applica all’ultima ondata di femminismo, per come sta avvenendo in “occidente”, con le massime punte negli USA, i cui avvenimenti politici si riflettono inevitabilmente sul resto del mondo “occidentale”. (…)

Il mondo del femminismo moderno commette il catastrofico errore logico di confondere le condizioni sufficienti con quelle necessarie, quando parla del “Patriarcato” , ovvero del “privilegio maschile”.

Le femministe non fanno altro che notare un fatto: la stragrande maggioranza dei ricchi e potenti e’ di sesso maschile. Fin qui tutto bene. Da qui deducono che siccome i privilegiati sono maschi, allora tutti i maschi sono privilegiati.

Questa cosa non ha senso: se esaminiamo il numero di morti sul lavoro, scopriamo che il 97% dei morti sul lavoro sono maschi. Se esaminiamo i morti nelle scorse due guerre mondiali, scopriamo che se contiamo solo i soldati il 98% dei morti erano maschi, e solo includendo i civili scendiamo ad un misero 86%. Ora, questa affermazione dovrebbe contenere qualche sospetto in se’.

L’errore evidente e’ questo: il fatto che tutti i privilegiati siano maschi non implica che tutti i maschi siano privilegiati. (…) Si tratta di un errore catastrofico, perche’ le femministe di ultima ondata continuano a dire che “un genere opprime l’altro” partendo dall’assunto che tutti i maschi sono privilegiati.

Ma se sapessero usare la logica e distinguessero condizioni necessarie da condizioni sufficienti, la conclusione sarebbe diversa: “Esiste una elite di maschi la quale opprime, senza distinzioni, sia quasi tutte le donne che la stragrande maggioranza degli uomini”.

Questo e’ piu’ coerente con la nostra esperienza, per esempio quando contiamo i morti sul lavoro, o i morti in guerra. E’ difficile pensare che una classe di privilegiati vada volontariamente a morire: se tutti i maschi fossero privilegiati, a fare i lavori pericolosi ci andrebbero le donne.

Questa prima catastrofe logica e’ la ragione per la quale il femminismo non riesce ad ottenere quello che vuole. Alla classe dominante non basta fare altro che aizzare i rimanenti maschi contro le donne, e il potere delle femministe e’ facilmente bilanciato.

Questo errore, il confondere le condizioni sufficienti con quelle necessarie, e’ estremamente comune nella loro dialettica: quando dicono che tutti gli stupratori sono maschi in genere le femministe chiudono il discorso dicendo che “dunque ogni maschio e’ uno strupratore”, e cosi’ via. (…)

Un altro catastrofico errore che fanno le femministe odierne e’ quello di affidarsi all’intersezionismo come teoria che spiega le discriminazioni. L’intersezionismo dice che se siete, che so, lesbiche sarete vittima di pregiudizi perche’ siete lesbiche, mentre se siete neri sarete vittime di pregiudizi per il colore della pelle, quindi se siete lesbiche e nere allora possiamo calcolare il pregiudizio come combinazione lineare dei due.

Il problema di questa teoria e’ che, come tutta la sociologia anglosassone, non somiglia per nulla alla realta’. Se abbiamo una teoria , essa non deve spiegare solo quello che succede negli USA (a meno che non sia un modello della societa’ americana), ma deve spiegare quello che succede ovunque e in qualsiasi epoca. (…)

Se esistono piu’ condizioni per venire discriminati, si viene discriminati per la piu’ evidente. Esiste sicuramente una scelta da parte di chi perseguita su quale condizione usare, ma la somma descritta dagli intersezionisti e’ del tutto priva di riscontri nella realta’. Non abbiamo visto , sinora, xenofobi infuriati con gli immigrati perche’ omosessuali: la ragione e’ il colore della pelle. (…)

La conseguenza di questo errore e’ quella di costringere le persone a cospargersi di etichette. Ma tutto questo in realta’ non funziona per una ragione: il problema non sta nei motivi per i quali si viene discriminati. Il problema e’ che si viene discriminati. (...)

Se si intende partire dall’idea che tutti siano uguali sul piano dei diritti, allora tutte queste etichette sono inutili perche’ ci dicono soltanto quante possibili discriminazioni possono avvenire, ma non ci aiutano ad eliminarle: al massimo ci aiutano solo a contarle.

Se invece partiamo dall’idea che l’uguaglianza dei diritti sia l‘obiettivo ai fini pratici, allora tutte queste etichette non fanno altro che complicare la prassi, in quanto combattere la “discriminazione” come concetto non ha piu’ senso: occorrera’ combattere milioni e milioni di possibili discriminazioni. Un lavoro infinito. (…)

L’ultimo errore e’ quello di non affrontare bene il problema del potere. Il problema dell’ultimo movimento femminista e’ che si limita ad osservare la percentuale di donne che siedono in posizioni di potere per giudicare quanto “giusta” sia una societa’.

Questo approccio e’ catastrofico per diversi motivi. Il primo e’ che le posizioni di potere e di privilegio sono poche. Questo significa che e’ possibile pensare ad un sistema nel quale il 5% delle donne occupa TUTTI i posti di potere, e il 95% sono oppresse dal primo 5%. Esattamente come ora un 5% di maschi privilegiati opprime, oltre alle donne, anche il 95% di maschi rimanenti.

Il secondo motivo per cui e’ catastrofico e’ che dimentica un fattore: la felicita’, o se preferite il benessere. Se io vado a giudicare in quale paese le donne stiano meglio contando in quali paesi esse vivano in posizioni di potere, ovviamente otterro’ come risultato i soliti paesi scandinavi. Ma se andiamo a misurare in quale paese le donne si dicono felici, per esempio, il risultato cambia di molto, e troviami ai primi posti dei paesi che sono “sorprendenti”.

Il nodo del “potere” e’ il motivo per il quale nel paese piu’ “femminista” del mondo solo l’ 8% delle donne si dice femminista: poiche’ si tratta di donne che non ambiscono a posizioni di potere, non appoggiano delle istanze politiche che chiedono piu’ potere , come posti di responsabilita’ o altro.

C’e’ infine il punto segregazionista che e’ ancora peggiore. Il segregazionismo e’ quel fenomeno per il quale se io dico che un club non accetta donne perche’ facciamo “cose da uomini” vengo accusato di maschilismo, ma e’ possibile creare un club di donne che non ammette uomini perche’ “sono cose da donne”. (...)

La cosa che queste persone non capiscono e’ che, nel momento in cui hai creato un club ove non possono entrare gli uomini, hai anche creato un club di soli uomini: [ovvero] quello di coloro che non possono entrare nel tuo club per definizione.

Tutte queste catastrofi logiche non fanno altro che convincere le persone che questo “patriarcato” di cui parlano avra’ molto difetti, ma almeno e’ razionale. (…) E se oggi, nel paese di maggiore successo [gli USA - NdL], solo l’8% delle donne si dice femminista, esiste un problema di consenso, cioe’ un problema politico. >>

URIEL FANELLI