Il post di oggi, scritto da Salvatore D'Acunto per il sito 'L'Antidiplomatico' (LINK) cerca di fare il punto sullo stato attuale della globalizzazione economica e sugli inevitabili contrasti tra i suoi due maggiori protagonisti, ovvero gli USA e la CINA.
Si tratta di un testo molto chiaro, che aiuta a capire meglio l'attuale situazione geo-politica mondiale. Buona lettura.
LUMEN
<< Nella storiografia si usa distinguere una prima 'globalizzazione', che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.
La seconda globalizzazione potrebbe essere suggestivamente raccontata come una straordinaria invenzione partorita nel centro del capitalismo mondiale dai suoi principali attivisti. Costoro, all’esito dell’arresto del processo di accumulazione negli anni 70, prendono atto del fatto che esistono degli invalicabili limiti politici all’accumulazione di capitale su scala nazionale.
Infatti, come Michal Kalecki aveva lucidamente prefigurato una quarantina di anni prima, per sostenere l’accumulazione di capitale bisogna estendere progressivamente il processo di creazione di valore, e per estendere la creazione di valore bisogna assorbire masse di lavoratori sempre più imponenti nel sistema produttivo. E poiché la riduzione della disoccupazione rafforza il lavoro dipendente e favorisce lo spostamento di quote significative della ricchezza dal capitale al lavoro, l’incentivo dei capitalisti all’accumulazione tende man mano a ridursi.
In quel frangente, i leader del capitalismo americano partoriscono un’idea geniale: smettiamo di produrre valore e deleghiamo questa funzione al continente asiatico (e più in particolare alla Cina, il Paese più popolato del globo), dove di forza lavoro ce n’è in abbondanza e dove il contesto politico-culturale appare decisamente meno favorevole all’emersione del conflitto distributivo.
Per quanto ci riguarda, limitiamoci invece a produrre la moneta (il dollaro) necessaria a sostenere l’infittirsi delle interazioni commerciali tra i diversi angoli del pianeta coinvolti nel nuovo assetto di divisione internazionale del lavoro e a sviluppare la sovrastruttura finanziaria necessaria a riportare negli Stati Uniti i profitti realizzati nelle sedi di delocalizzazione.
Compreremo le merci prodotte dal lavoro della popolazione asiatica con i dollari che stampiamo. E se è vero che le occasioni di lavoro per la classe operaia americana si ridurranno, i beni di consumo a buon mercato importati dall’Oriente da un lato e le opportunità di consumo garantite dall’espansione del credito permetteranno comunque il mantenimento di livelli di vita dignitosi.
Decisamente geniale. Appropriarsi di ricchezza senza produrre valore. Il capitalismo senza il conflitto tra capitale e lavoro. Il migliore dei mondi possibili per la classe proprietaria. C’è solo un piccolo problema: ma perché i produttori asiatici dovrebbero accettare in cambio di merci pezzi di carta recanti in facciata la foto di George Washington?
Beh, ci sono due possibili spiegazioni, a seconda dei punti di vista. La prima, quella decisamente preferita dagli americani, la possiamo riassumere così: «Perché solo la flotta navale americana, grazie alla sua capacità di controllo dei mari, può garantire che i carichi delle navi mercantili non diventino facili bersagli di atti di pirateria o terrorismo, e quindi che i traffici tra le aree interessate dalla globalizzazione vadano a buon fine». In questa prospettiva, il diritto degli americani di pagare parte del conto della spesa al “supermercato globale” con biglietti verdi stampati dalla propria banca centrale sarebbe una sorta di corrispettivo di un servizio pubblico (appunto la garanzia dei diritti di proprietà).
C’è tuttavia una seconda interpretazione, decisamente più malevola. Secondo qualcuno, la pirateria e il terrorismo sarebbero minacce create ad arte proprio dai soggetti che offrono il servizio di “sicurezza”, nella migliore tradizione delle organizzazioni mafiose, e quindi la possibilità degli americani di liberarsi dai propri debiti mediante la cessione di un oggetto la cui produzione non richiede lavoro, più che come il corrispettivo di un servizio pubblico andrebbe interpretato come una tangente.
In ogni caso, che si tratti di “tassa” o di “tangente”, fino a un certo momento questo peculiare schema di governo della divisione internazionale del lavoro va bene a tutti. In particolare, va bene ai due principali protagonisti, Stati Uniti e Cina, tra i quali viene a crearsi un curioso intreccio di interessi complementari.
Pechino dipende dagli Usa per le proprie esportazioni e per il sostegno della valuta nazionale garantito dalle riserve in dollari; Washington dipende dalla Cina per il fiume di importazioni a buon mercato che sostiene il potere d’acquisto della popolazione e i profitti delle imprese americane, nonché per il finanziamento del crescente debito (pubblico e privato) con cui compensa la carenza di risparmio interno.
I due attori-chiave sullo scenario economico internazionale appaiono quindi invischiati in un equilibrio di dipendenza reciproca a cui nessuno è in grado di sottrarsi, e la globalizzazione sembra quindi destinata ad avere lunga vita. E invece, negli anni successivi, quell’equilibrio tenderà pian piano a deteriorarsi.
La Cina approfitta dello straordinario ritmo di crescita consentitogli da quell’assetto di divisione internazionale del lavoro per consolidarsi sul piano infrastrutturale, tecnologico e politico, e comincia a pensare da potenza globale. Non ci sta più a lasciare che una parte tanto consistente del valore creato con il lavoro dei cittadini cinesi vada ad arricchire i capitalisti americani, e cerca di determinare le condizioni per modificare i rapporti di forza.
E poiché il fattore strategico che permette agli Stati Uniti di “taglieggiare” i partners commerciali è il controllo delle rotte navali, la Cina decide di costruirsi un corridoio logistico che le permetta di connettersi ai principali mercati di fornitura e di sbocco by-passando il mare: la nuova Via della Seta.
Ora, è sufficiente dare uno sguardo alla mappa della Via della Seta per comprendere il motivo della centralità geopolitica acquisita dal Medio Oriente - e più in particolare dall’Iran e della Turchia - nell’ultimo decennio: il Medio Oriente è il naturale corridoio terrestre per il passaggio delle merci, e Iran e Turchia sono i Paesi che, in base agli accordi di cooperazione sottoscritti con la Repubblica Popolare Cinese, dovrebbero ospitare sul proprio territorio una parte importante dell’infrastruttura.
Pertanto, dal fatto che questi due Paesi siano governati da élites più o meno “sensibili” agli interessi geopolitici degli Stati Uniti dipende in misura decisiva la capacità della potenza americana di continuare a “governare” la globalizzazione, e quindi a imporre il dominio della propria valuta negli scambi internazionali.
Come è noto, allo stato attuale, gli Stati Uniti non sembrano messi benissimo in termini di capacità d’influenza nei confronti di questi due Paesi. A partire dalla rivoluzione del 1979, la politica estera dell’Iran si è sempre caratterizzata per un intransigente anti-americanesimo. La Turchia è organica alla NATO, ma l’élite che la governa si è sempre dimostrata molto poco propensa a sacrificare i propri interessi economici e politici nazionali in nome degli obiettivi geopolitici degli Usa.
L’interesse degli Stati Uniti a determinare, con le buone o con le cattive, un mutamento degli orientamenti di politica estera di almeno uno di questi due Paesi è quindi evidente: se ci riescono, si assicurano per qualche altro decennio il controllo delle rotte commerciali internazionali, e quindi conservano ancora per un po' la possibilità di prosperare estraendo ricchezza dal lavoro delle popolazioni asiatiche.
Viceversa, la Cina e tutto l’ecosistema produttivo “satellite” si emancipano dalla tutela statunitense, e quindi dal costo economico dell’uso della sovrastruttura monetaria e finanziaria americana. Questa è la vera posta in gioco nei conflitti in corso in Medio Oriente. >>
SALVATORE D'ACUNTO