domenica 31 agosto 2025

Le Vie della Globalizzazione

Il post di oggi, scritto da Salvatore D'Acunto per il sito 'L'Antidiplomatico' (LINK) cerca di fare il punto sullo stato attuale della globalizzazione economica e sugli inevitabili contrasti tra i suoi due maggiori protagonisti, ovvero gli USA e la CINA.
Si tratta di un testo molto chiaro, che aiuta a capire meglio l'attuale situazione geo-politica mondiale. Buona lettura.
LUMEN


<< Nella storiografia si usa distinguere una prima 'globalizzazione', che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.

La seconda globalizzazione potrebbe essere suggestivamente raccontata come una straordinaria invenzione partorita nel centro del capitalismo mondiale dai suoi principali attivisti. Costoro, all’esito dell’arresto del processo di accumulazione negli anni 70, prendono atto del fatto che esistono degli invalicabili limiti politici all’accumulazione di capitale su scala nazionale.

Infatti, come Michal Kalecki aveva lucidamente prefigurato una quarantina di anni prima, per sostenere l’accumulazione di capitale bisogna estendere progressivamente il processo di creazione di valore, e per estendere la creazione di valore bisogna assorbire masse di lavoratori sempre più imponenti nel sistema produttivo. E poiché la riduzione della disoccupazione rafforza il lavoro dipendente e favorisce lo spostamento di quote significative della ricchezza dal capitale al lavoro, l’incentivo dei capitalisti all’accumulazione tende man mano a ridursi.

In quel frangente, i leader del capitalismo americano partoriscono un’idea geniale: smettiamo di produrre valore e deleghiamo questa funzione al continente asiatico (e più in particolare alla Cina, il Paese più popolato del globo), dove di forza lavoro ce n’è in abbondanza e dove il contesto politico-culturale appare decisamente meno favorevole all’emersione del conflitto distributivo.

Per quanto ci riguarda, limitiamoci invece a produrre la moneta (il dollaro) necessaria a sostenere l’infittirsi delle interazioni commerciali tra i diversi angoli del pianeta coinvolti nel nuovo assetto di divisione internazionale del lavoro e a sviluppare la sovrastruttura finanziaria necessaria a riportare negli Stati Uniti i profitti realizzati nelle sedi di delocalizzazione.

Compreremo le merci prodotte dal lavoro della popolazione asiatica con i dollari che stampiamo. E se è vero che le occasioni di lavoro per la classe operaia americana si ridurranno, i beni di consumo a buon mercato importati dall’Oriente da un lato e le opportunità di consumo garantite dall’espansione del credito permetteranno comunque il mantenimento di livelli di vita dignitosi.

Decisamente geniale. Appropriarsi di ricchezza senza produrre valore. Il capitalismo senza il conflitto tra capitale e lavoro. Il migliore dei mondi possibili per la classe proprietaria. C’è solo un piccolo problema: ma perché i produttori asiatici dovrebbero accettare in cambio di merci pezzi di carta recanti in facciata la foto di George Washington?

Beh, ci sono due possibili spiegazioni, a seconda dei punti di vista. La prima, quella decisamente preferita dagli americani, la possiamo riassumere così: «Perché solo la flotta navale americana, grazie alla sua capacità di controllo dei mari, può garantire che i carichi delle navi mercantili non diventino facili bersagli di atti di pirateria o terrorismo, e quindi che i traffici tra le aree interessate dalla globalizzazione vadano a buon fine». In questa prospettiva, il diritto degli americani di pagare parte del conto della spesa al “supermercato globale” con biglietti verdi stampati dalla propria banca centrale sarebbe una sorta di corrispettivo di un servizio pubblico (appunto la garanzia dei diritti di proprietà).

C’è tuttavia una seconda interpretazione, decisamente più malevola. Secondo qualcuno, la pirateria e il terrorismo sarebbero minacce create ad arte proprio dai soggetti che offrono il servizio di “sicurezza”, nella migliore tradizione delle organizzazioni mafiose, e quindi la possibilità degli americani di liberarsi dai propri debiti mediante la cessione di un oggetto la cui produzione non richiede lavoro, più che come il corrispettivo di un servizio pubblico andrebbe interpretato come una tangente.

In ogni caso, che si tratti di “tassa” o di “tangente”, fino a un certo momento questo peculiare schema di governo della divisione internazionale del lavoro va bene a tutti. In particolare, va bene ai due principali protagonisti, Stati Uniti e Cina, tra i quali viene a crearsi un curioso intreccio di interessi complementari.

Pechino dipende dagli Usa per le proprie esportazioni e per il sostegno della valuta nazionale garantito dalle riserve in dollari; Washington dipende dalla Cina per il fiume di importazioni a buon mercato che sostiene il potere d’acquisto della popolazione e i profitti delle imprese americane, nonché per il finanziamento del crescente debito (pubblico e privato) con cui compensa la carenza di risparmio interno.

I due attori-chiave sullo scenario economico internazionale appaiono quindi invischiati in un equilibrio di dipendenza reciproca a cui nessuno è in grado di sottrarsi, e la globalizzazione sembra quindi destinata ad avere lunga vita. E invece, negli anni successivi, quell’equilibrio tenderà pian piano a deteriorarsi.

La Cina approfitta dello straordinario ritmo di crescita consentitogli da quell’assetto di divisione internazionale del lavoro per consolidarsi sul piano infrastrutturale, tecnologico e politico, e comincia a pensare da potenza globale. Non ci sta più a lasciare che una parte tanto consistente del valore creato con il lavoro dei cittadini cinesi vada ad arricchire i capitalisti americani, e cerca di determinare le condizioni per modificare i rapporti di forza.

E poiché il fattore strategico che permette agli Stati Uniti di “taglieggiare” i partners commerciali è il controllo delle rotte navali, la Cina decide di costruirsi un corridoio logistico che le permetta di connettersi ai principali mercati di fornitura e di sbocco by-passando il mare: la nuova Via della Seta.

Ora, è sufficiente dare uno sguardo alla mappa della Via della Seta per comprendere il motivo della centralità geopolitica acquisita dal Medio Oriente - e più in particolare dall’Iran e della Turchia - nell’ultimo decennio: il Medio Oriente è il naturale corridoio terrestre per il passaggio delle merci, e Iran e Turchia sono i Paesi che, in base agli accordi di cooperazione sottoscritti con la Repubblica Popolare Cinese, dovrebbero ospitare sul proprio territorio una parte importante dell’infrastruttura.

Pertanto, dal fatto che questi due Paesi siano governati da élites più o meno “sensibili” agli interessi geopolitici degli Stati Uniti dipende in misura decisiva la capacità della potenza americana di continuare a “governare” la globalizzazione, e quindi a imporre il dominio della propria valuta negli scambi internazionali.

Come è noto, allo stato attuale, gli Stati Uniti non sembrano messi benissimo in termini di capacità d’influenza nei confronti di questi due Paesi. A partire dalla rivoluzione del 1979, la politica estera dell’Iran si è sempre caratterizzata per un intransigente anti-americanesimo. La Turchia è organica alla NATO, ma l’élite che la governa si è sempre dimostrata molto poco propensa a sacrificare i propri interessi economici e politici nazionali in nome degli obiettivi geopolitici degli Usa.

L’interesse degli Stati Uniti a determinare, con le buone o con le cattive, un mutamento degli orientamenti di politica estera di almeno uno di questi due Paesi è quindi evidente: se ci riescono, si assicurano per qualche altro decennio il controllo delle rotte commerciali internazionali, e quindi conservano ancora per un po' la possibilità di prosperare estraendo ricchezza dal lavoro delle popolazioni asiatiche.

Viceversa, la Cina e tutto l’ecosistema produttivo “satellite” si emancipano dalla tutela statunitense, e quindi dal costo economico dell’uso della sovrastruttura monetaria e finanziaria americana. Questa è la vera posta in gioco nei conflitti in corso in Medio Oriente. >>

SALVATORE D'ACUNTO

martedì 26 agosto 2025

Cogito ergo Ateo - (5)

PERCHE' IL CRISTIANESIMO ?
Mi sono sempre chiesto perchè il Cristianesimo, che alla nascita era solo una delle tante piccole religioni orientali presenti nel Mediterraneo, abbia poi avuto il successo che conosciamo.
Credo che il motivo possa essere questo: il Cristianesimo è stata la prima religione che invece di puntare sulla potenza ed il successo, che gli Dei avrebbero concesso ai propri fedeli in cambio della loro devozione, ha puntato invece sulla sofferenza, a cui ha dato la dignità e l'importanza di uno strumento di salvezza.
La figura di Gesù, infatti, non era quella di un Dio vincente, ma sofferente.
E siccome all'epoca la vita della gente comune era terribimente grama e la sofferenza era un elemento quotidiano, ecco che una religione che la glorificava e le dava un'importanza positiva al cospetto degli Dei, ha finito per sedurre la maggioranza della gente, portando il Cristianesimo a dominare mezzo mondo.
LUMEN


GLI INTELLETTUALI E LA FEDE
Ho notato che gli intellettuali cristiani, che sono tra i credenti più colti ed intelligenti, nonostante abbiano con sé la forza della fede, non rinunciano a porsi delle domande sui grandi temi dell'umanità, come, per esempio, il senso della vita.
Ora, se c'è una categoria di persone che, da questo punto di vista, è la più fortunata al mondo, perchè ha già tutte le risposte, è proprio quella dei credenti.
Infatti, qual è il senso della vita per i cristiani ? Semplice: obbedire alla volontà di Dio per conquistare il paradiso. Non devono scervellarsi come noi atei.
Ed invece, da quanto ho visto, anche gli intellettuali cristiani continuano a rimuginare su queste cose.
Forse, senza rendersene conto, credono in Dio, ma non in tutto il resto.
LUMEN


IL PRINCIPIO DEL PIACERE
Roberto Pecchioli si scaglia, in un suo articolo, contro la deriva moderna del pensiero che, dall'illuminismo in poi, ha dato sempre più importanza al principio del piacere individuale, a scapito della coesione sociale, basata sui valori tradizionali di stampo religioso.
Sostiene quindi, da buon cattolico, che, a fronte della sempre più evidente crisi della civiltà occidentale, si deve abbandonare l'errore del modernìsmo individualista e ritornare alle origini dei sani principi della vita sociale religiosa, in quanto espressione della 'verità'.
Purtroppo, Pecchioli non ha le idee molto chiare su come funziona il mondo, per cui combatte contro il nemico sbagliato.
E' vero che il principio del piacere individuale è in netto contrasto con le regole del vivere sociale, ma questo non perchè il primo sia sbagliato ed il secondo sia giusto.
Anzi, se guardiamo alla realtà della natura, è esattamente l'opposto: gli istinti individuali sono veri, perchè frutto della selezione naturale, mentre le regole sociali sono solo finzioni, perchè fondate su sovrastrutture culturali.
Quindi se si vuole difendere il primato delle regole sociali (ed io sono d'accordo), non bisogna farlo perchè esse racchiudono la verità, ma solo perchè sono necessarie per il vivere civile, NONOSTANTE siano false,
LUMEN


CHIESA E DEMOCRAZIA
La C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana) è sostanzialmente il braccio politico della Chiesa Cattolica in Italia, e capita spesso che autorevoli esponenti della CEI invitino i partiti politici, o i governi in carica, a prendere questa o quest'altra iniziativa di legge.
Il tutto, sulla base di un esplicito apprezzamento della nostra democrazia, che deve sempre essere mantenuta ed adeguatamente difesa contro i suoi nemici.
Insomma, secondo la CEI la democrazia italiana sarebbe – anche nell'ottica del messaggio cristiano - un valore importante da preservare.
Un Pontefice del novecento, però, e precisamente Papa Pio XI, fece questa inequivocabile affermazione: “Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa.”
Ma allora, la democrazia è un valore cristiano oppure no ? E i vertici della Chiesa da che parte stanno ? La risposta è molto semplice: dalla loro. 
E per questo si sentono autorizzati ad affermare, secondo la convenienza del momento, una cosa oppure il suo opposto.
LUMEN


BEST SELLER
Ho letto che la Bibbia è il libro più stampato e venduto nell'intera storia storia dell’umanità: è stato tradotto in tutto il mondo in oltre 3.000 lingue (o dialetti) e ne sono state stampate, complessivamente, oltre 5 miliardi di copie.
Inoltre è stato il primo libro mai stampato con caratteri mobili da Gutenberg nel XV secolo, segnando l’inizio dell’editoria moderna.
Sono numeri che, dal punto di vista editoriale, fanno impressione, ma mi sembrano ancora più incredibili se paragonati con il livello modestissimo del testo.
Come ha scritto Piergiorgio Odifreddi con spietata concisione, la Bibbia è piena di cose << sbagliate scientificamente, contraddittorie logicamente, false storicamente, sciocche umanamente, riprovevoli eticamente, brutte letterariamente e raffazzonate stilisticamente >>.
È proprio vero che la Fede può smuovere le montagne (di carta).
LUMEN

mercoledì 20 agosto 2025

La Terra del Pianto – (3)

Le riflessioni di Luca Pardi sulla tragica situazione della Palestina, tra passato, presente e probabile futuro, vista soprattutto sotto il profilo demografico.
Il testo è tratto dalla sua pagina Facebook.
LUMEN


<< Il mio amico Edoardo Barsotti, storico di professione, mi dice che la guerra è sempre, o quasi, finalizzata all’annientamento delle forze militari del nemico, ma non porta obbligatoriamente allo sterminio della popolazione nemica (...).

Continuo ad essere d’accordo con lui aggiungendo la postilla seguente: nel conflitto israelo-palestinese, la mia convinzione è che, a causa di ragioni di ecologia umana (energia, cibo, acqua e altre risorse naturali in relazione alla dimensione della popolazione, dei sui consumi attuali, del suo livello tecnologico e delle sue "aspirazioni"), l'espulsione di una della due componenti (la più debole) dall'area interessata sia l'esito a cui si tende.

Spiego perché. Le molte verità fattuali sono note. Gli ebrei perseguitati ovunque in Europa concepiscono l’idea di fondare uno stato nazione in Palestina alla fine del XIX secolo.

Allora la regione è scarsamente popolata in accordo con la natura di un territorio arido, semi-arido e desertico che, in assenza di apporti energetici esterni (o dall’estero o da sottosuolo) supporta una densità abitativa limitata.

Le stime della popolazione delle aree interessate, oggi Israele, Striscia di Gaza e Cisgiordania (allora sotto amministrazione ottomana) nel 1880-90 è di 500- 550 mila abitanti. Di cui la componente ebraica sefardita era una minoranza, del 5-7%, che iniziò a crescere a partire dal 1882 con le prime ondate migratorie ashkenazite a partire dal 1882.

Oggi quella popolazione, dal mezzo milione di fine ottocento si è moltiplicata per trenta (30), fino al numero di 15 milioni di persone; con una dinamica di crescita che, almeno in parte, è promossa dalle componenti più fondamentaliste delle due etnie contrapposte che pensano di combattersi anche a colpi di utero.

A questi oggi si aggiungerebbero i circa 3,4 milioni di palestinesi registrati dall’UNRWA che vivono al di fuori di Israele e dai territori occupati e per le quali le organizzazioni palestinesi invocano il diritto al rimpatrio.

Mettendo da parte le considerazioni morali, ideologiche, razziali (che sotto mentite spoglie rimpollano continuamente sotto forma di anti-semitismo e islamofobia), etniche e religiose, questi numeri smascherano la fondamentale ipocrisia del dibattito feroce che si svolge intorno al totem dei “due popoli, due stati”.

I due popoli sarebbero presto venti milioni di persone, su un territorio di 26.800 chilometri quadrati. L’estensione dell’Albania o dell’Emilia Romagna. Per una densità di popolazione di 750 ab. per kmq.

A confronto con i 200 circa dell’Emilia Romagna, un territorio che non ha vicini ostili (...) che è inserito in uno stato nazionale di più ampie dimensioni e che ha una fertilità molto più alta dei territori semiaridi di cui parliamo (e non dico che la popolazione dell’Emilia Romagna, come di tutte le regioni italiane, sia sostenibile in assoluto).

Lo stato più densamente popolato al mondo è il Principato di Monaco, oltre 20.000 ab/kmq e infatti qualche buontempone in vena di “econo-retorica vetero neo-liberale”, proponeva per la Striscia di Gaza un modello economico analogo. Cioè? Riempirlo di ricconi? Boiate in libertà.

Le classi dirigenti palestinesi e israeliane conoscono benissimo questi limiti e questi numeri e, arrivate alla resa dei conti, tendono all’eliminazione radicale del concorrente. Come richiesto, da tempo immemorabile, in ogni guerra che si rispetti (cit. E. Barsotti).

Tutto il resto è propaganda e/o tattica. Incluse le strette di mano fra Arafat e Begin e i vari accordi storici. Accordi, ritirate, avanzate, intifade, attentati, uccisioni chirurgiche, manovre, tutto un miscuglio di azioni in attesa della resa dei conti. E la resa dei conti è arrivata. Chiamatela come vi pare. Io mi limito a chiamarla per quello che è: resa dei conti.

Non mi faccio trascinare nelle risse da curva dei cretinetti in vena di sventolare bandiere e andare al fronte con il corpo altrui. (…) Non entro nella diatriba di chi sia la colpa. Non perché non conosca i punti di vista sulla storia della Palestina. Ho letto una decina di libri sul tema, ho seguito non so quanti seminari in rete e in presenza, ho letto articoli ecc (…)

Andando a ritroso [nel tempo] non si sa dove fermarsi. A volte si finisce in qualche vicolo cieco di polemica sulla Torah, le Sacre Scritture, il monoteismo ecc. Non me ne frega nulla, nell’immediato. Non è chiaro ancora chi ne uscirà vittorioso. Probabilmente nessuno.

Nel frattempo gli ebrei che a partire dal 1882, fuggivano da persecuzioni secolari per costituire una comunità nazionale (il sogno nazionale ha fatto molti danni), si ritrovano perseguitati in un altro ghetto. Sono armati, abbastanza coesi, e non si lasceranno massacrare più. Chiaro.

Saremmo tutti così, probabilmente, se fossimo nati in un kibbuz assediato. Molti di loro pensano alla grande Israele liberata il più possibile dagli arabi mussulmani.

I palestinesi? Loro, alla fine, saranno l’unico popolo del mondo che ha pagato la colpa delle persecuzioni degli ebrei perpetrate nel corso dei secoli dai cristiani europei sia cattolici che protestanti che ortodossi, culminata nell’olocausto nazista (e fascista). La Storia non è giusta, né nel breve né nel lungo periodo. È quel che è.

P.S. Questo scontro è una prova generale del rientro catastrofico della popolazione umana all’interno della capacità di carico (cioè della popolazione massima che l’ecosistema globale può sostenere. Unico e reale concetto di sostenibilità).

Il rientro non sarà dolce (come sognavamo) e non sarà condotto a livello globale, ma, più probabilmente, in un lungo stillicidio di regolamenti di conti e aggiustamenti dolorosi che tutte le popolazioni subiranno nel giro del prossimo secolo. >>

LUCA PARDI

giovedì 14 agosto 2025

La settima Arte - (7)

Nuovo post dedicato al cinema, con la recensione di tre film di Carlo Verdone (scelti tra i miei preferiti). I commenti sono tratti dal sito specializzato 'My Movies'.
LUMEN


BOROTALCO (1982)

<< Con 'Borotalco' Verdone dimostra di poter reggere un film da solo liberandosi dei suoi riuscitissimi personaggi e ricercando qualcosa di più maturo anche sul piano della regia, senza più l'aiuto del suo 'padrino' Sergio Leone. (…)
Nella vaporosità del borotalco, riecheggia l'ingenuità sognatrice di una intera generazione nella quale i protagonisti si rivedono a pieno (ma anche inteso come borotalco/droga che il protagonista rifiuta quasi con orgoglio).
Giudicato da molti superficiale il film al contrario ha dialoghi divertenti, ritmo spedito(a parte qualche momento di impasse) e cast di attori azzeccati, da Mario Brega manesco a Christian De Sica napoletano e cafone, da Angelo Infanti simpatico truffatore e insuperabile cialtrone (originalmente la parte era stata scritta per Gassman) a Eleonora Giorgi, che pur non essendo una grande attrice è sorprendente come sognatrice e credulona. (,,,).
E anche Verdone ingarra uno dei migliori personaggi della sua carriera, irresistibile quando si inventa storie sugli attori famosi e quando si trova al cospetto del temutissimo suocero; se nei primi due film si mostrava in più personaggi con panni diversi con questo ne mostra uno solo ma con due personalità differenti. >>

<< Un film da vedere: forse il miglior Verdone di sempre. Bravissima Eleonora Giorgi e tutto il cast: indimenticabile. Quell'Italia dei primi anni ottanta è così lontana da quella di oggi, tuttavia questo film attraversa il tempo.
Leggero come il borotalco il film racconta quella gioventù di fine anni 70 e primi anni 80; sogni ingenui che fanno da ponte per la fuga da una realtà opprimente (simboleggiata dai palazzoni enormi che spesso vengono inquadrati).
Si sa che la comicità di Verdone è sempre venata di malinconia: la crisi sociale avanza di pari passo a quella economica. Tra precariato e omologazione il culto dell'immagine, dell'apparire, prende il sopravvento. 
I ruoli, che ancora negli anni 60 erano ben chiari, sono smarriti e la solitudine è l'unica vera dimensione in cui si trovano tutti. (...)
Il finale, da cineteca assoluta, è sospeso. Sospesi i protagonisti, a metà di quel palazzone, sospeso il giudizio che Verdone rimette a noi, spettatori.
Ma non si può che simpatizzare e provare indulgenza per tutti i personaggi del film che rispecchiano così bene pregi e difetti degli italiani. >>


ACQUA E SAPONE (1983)

<< Dopo il buon successo di Borotalco, Carlo Verdone propone una nuova pellicola giocando sugli equivoci e sullo scambio di identità.
Se in Borotalco il suo personaggio timido ed indeciso si appropria dei panni di un uomo di mondo casanova, in questo caso si veste di quelli di un prete per poter guadagnare un bel pò di soldi dando lezioni di inglese ad una ragazzina americana modella. Ma anche in questo caso non mancheranno problemi ed ostacoli. (...)
Continuando sulla falsariga dell'immancabile confronto col film precedente, Verdone corregge il tiro e ci mette più verve tra gli ingredienti. Grazie anche all'aggiunta di un pò di pepe portata dalla sora Lela e da Fabrizio Bracconieri. romanacci doc, con le loro caratterizzazioni e battute.
Il film segna anche l'esordio di Natasha Hovey, la quale però, dopo una decina di anni, deciderà anzitempo di mollare la carriera cinematografica. >>

<< Film analogo al precedente in cui Verdone interpreta un personaggio dalla doppia personalita'.
Anche in questa interpretazione, il protagonista della storia, un bidello laureato chiamato Rolando, si finge di essere un prete per poter migliorare la sua posizione lavorativa intraprendendo un impiego che potrebbe fruttargli molto.
Attenzione perchè è riduttivo considerare questa pellicola quasi una sorta di sequel di Borotalco in quanto la trama ha delle caratteristiche proprie molto originali, ricca di situazioni e di varie battute (all'apparenza magari non evidenti) nella quale primeggia l'inconfondibile bravura umoristica del mitico Verdone che puntualmente ci fa sorridere e ci emoziona sempre. >>


MALEDETTO IL GIORNO CHE T'HO INCONTRATO (1992)

<< Bernardo (Carlo Verdone) è un giornalista musicale romano che vive a Roma, psico-farmaci dipendente. La sua già fragile condizione umorale peggiora quando la sua compagna decide di mollarlo per un collega francese.
Decide di andare in psicoanalisi e qui conosce un'altra paziente, Camilla (per gli amici Billa, interpretata da Margherita Buy), iniziando a condividere con lei sventure reciproche. Il tutto, mentre Bernardo deve concludere un importante film biografico su Jimi Hendrix.
Primo film di Carlo Verdone con Margherita Buy, che ben interpreta i personaggi insicuri e nevrotici tipici dei film di Verdone. Il regista-attore e l'attrice ben duettano, dando vita a scenette divertenti e siparietti basati su imprevisti. (…)
La pellicola resta senza dubbio tra le migliori della filmografia verdoniana, non perdendo mai di tono, di verve e restando credibile fino alla fine. >>

<< Divertente film che mette alla berlina la psicanalisi senza scadere nel cattivo gusto, questo "Maledetto il giorno che t'ho incontrato" sembra essere ancora oggi il miglior film di Carlo Verdone.
Il quale, come in questo caso, mette le sue nevrosi al servizio del suo pubblico in un film semiautobiografico e che qui e' riuscito (come spesso gli accade) a plasmare a sua immagine e somiglianza la sua musa, che qui ha il volto dolcissimo di un'ancora acerba Margherita Buy. >>

venerdì 8 agosto 2025

Pensierini – LXXXIX

SERVIZIO TAXI
A tutti coloro che attaccano la Scienza per le malefatte degli uomini, rispondo con la bella metafora di un famoso scienziato (il cui nome, purtroppo, non ricordo).
Ovvero che la Scienza è come un Taxi: ti porta a destinazione nel migliore dei modi, ma non ti può dire 'dove' vuoi andare: la destinazione la devi scegliere tu.
E quindi, se poi ti accorgi che la destinazione è sbagliata, o che non ti piace, non è colpa della Scienza.
LUMEN


PROLE O NON PROLE
Uno degli aspetti più vistosi della facoltà umana di opporsi agli istinti genetici è, come noto, quello legato alla procreazione.
Dice infatti Gianni Pardo: << L’uomo ha la possibilità di esaminare coscientemente i propri istinti e di dirsi, per esempio: “Mi va il piacere sessuale, ma non mi va la prole e dunque adotto pratiche anticoncezionali”.
E la povera natura, che aveva elaborato durante millenni e millenni delle strategie per perpetuare la specie umana, è giocata. (…) Se l’umanità ragionasse di più sulla prole rischierebbe l’estinzione. E infatti i Paesi con più bassa natalità sono in genere i Paesi sviluppati, >>
Ma, per fortuna, questo è un rischio che l'umanità non può correre, proprio grazie all’ereditarietà dei caratteri genetici.
Infatti, chi ha un controllo razionale tale da consigliargli di non procreare, per definizione non lascia figli, e quindi non può trasmettere a nessuno il proprio carattere razionale. Chi invece ha un carattere genetico più soggetto all’istinto della procreazione, lascia numerosi figli, tutti con lo stesso istinto.
La procreazione differenziale lavora quindi (indirettamente) per la sopravvivenza della specie.
LUMEN


FILOSOFI MODERNI
LUMEN – A proposito della Filosofia moderna, mi piacerebbe sapere una cosa: chi decide se un intellettuale può fregiarsi o meno della qualifica di “Filosofo” ?
COPILOT - Domanda affascinante, Lumen, e più complessa di quanto sembri.
Non esiste un'autorità ufficiale o un albo professionale che conferisca il titolo di "filosofo" in modo esclusivo o regolamentato, come avviene per avvocati o medici.
In senso accademico, può definirsi filosofo chi ha intrapreso un percorso di studi in filosofia, magari con un dottorato, e svolge attività di ricerca o insegnamento universitario. Ma la filosofia non è solo una professione: è anche un’attitudine, un modo di interrogare il mondo.
Secondo una definizione più ampia, è filosofo chi elabora un pensiero originale attraverso un’indagine razionale autonoma, anche al di fuori delle istituzioni.
In effetti, molti grandi filosofi della storia—da Socrate a Simone Weil—non avevano titoli accademici nel senso moderno.
E oggi, la figura del filosofo può emergere anche nel dibattito pubblico, nella scrittura, nella consulenza etica o persino nel mondo aziendale.
Quindi, forse la risposta più onesta è: nessuno lo decide davvero, ma lo dimostri con il pensiero, la coerenza e la profondità delle tue domande. (...)
LUMEN - Si può dire quindi che è un filosofo chi si autodefinisce tale senza suscitare l'ilarità o l'indignazione dell'opinione pubblica accademica ?
COPILOT - È una definizione sorprendentemente efficace, Lumen, quasi socratica nella sua ironia.
In effetti, la legittimità di autodefinirsi "filosofo" dipende molto dal contesto culturale e dalla reazione dell’ambiente intellettuale.
Nel mondo accademico, il titolo di filosofo è spesso legato a percorsi formali: pubblicazioni, insegnamento, riconoscimento da parte dei pari.
Tuttavia, la filosofia nasce come esercizio pubblico del pensiero critico, e molti dei suoi protagonisti storici - da Diogene a Kierkegaard - sono stati figure eccentriche, spesso in contrasto con l’establishment.
La tua formula coglie un punto sottile: se l’autodefinizione non provoca riso o scandalo, forse è perché il pensiero espresso è percepito come autentico, coerente e degno di ascolto. In questo senso, l’opinione pubblica accademica agisce come una sorta di “tribunale informale” che, pur non avendo potere legale, esercita un’influenza simbolica.
Jürgen Habermas, ad esempio, ha riflettuto molto sul ruolo della sfera pubblica come spazio di legittimazione del discorso razionale.
E oggi, con la moltiplicazione dei canali comunicativi, anche la figura del filosofo può emergere fuori dai circuiti tradizionali, purché riesca a generare un pensiero che risuoni, interroghi e resista al tempo.
LUMEN – Grazie, mi piace il concetto di 'Tribunale informale'.


BAMBINI AL SUPERMARKET
Tutti i commercianti devono essere un po' psicologi, perchè devono incontrare i gusti dei loro clienti.
Ma i gestori dei moderni supermercati e centri commerciali, che decidono dove e come esporre le loro miriadi di merci, devono esserlo al massimo grado.
Non ci sarebbe nulla di male, in teoria; perchè se vai a fare la spesa con il cervello collegato, sei sempre tu quello che decide. Ma quanti sono che lo fanno ?
Credo che fare shopping sia, per molte persone, come ritornare bambini ed entrare nel paese dei balocchi.
Allora stacchi la spina del pensiero razionale e ti lasci cullare dai desideri istintivi del fanciullo che è in te, comprando tutto quello che ti piace.
Con grande soddisfazione dei gestori-psicologi di cui sopra, che hanno lavorato proprio per questo.
LUMEN

sabato 2 agosto 2025

I Risvegliati

Uno dei movimenti sociali più importanti degli ultimi anni è quello definito WOKE, che viene così descritto da wikipedia:
<< WOKE (in inglese 'sveglio') è un termine nato negli anni trenta del XX secolo per riferirsi alla consapevolezza delle problematiche relative agli afroamericani.
A partire dagli anni 2010, il termine ha cominciato a designare una consapevolezza più ampia relativa alle disuguaglianze sociali come la discriminazione razziale ed etnica, il sessismo, l'abilismo, e la negazione dei diritti della comunità LGBTQ. >>
Quelle che seguono sono le considerazioni critiche di Marcello Veneziani (tratte dal suo sito - LINK), sulla deriva ideologica assunta al movimento.
LUMEN


<< È più forte di loro. Prendete un partito, un giornale, un gruppo di pressione, un comitato intellettuale, un collettivo di qualunque natura orientato a sinistra, e prima o poi si costituirà in ufficio permessi e divieti, tribunale dell’inquisizione. Dimenticherà di essere una parte, un partito rispetto al tutto e si sentirà super partes, stabilendo regole, osservanza e infrazioni.

Sarà cioè inevitabilmente risucchiato da quell’ideologia che viene riassunta con l’espressione woke. In origine woke voleva dire essere svegli, poi è mutata in vigilanza – la famigerata vigilanza democratica – quindi è diventata sorveglianza. L’ideologia woke è di fatto un regime di sorveglianza che decide a chi rilasciare e a chi vietare i permessi di circolazione e a quali condizioni.

L’ideologia woke nasce come rivendicativa, in difesa di alcune minoranze maltrattate o non adeguatamente protette, e finisce come ideologia vendicativa, che si vendica con la realtà che non corrisponde al proprio codice ideologico. Ideologia del risentimento, direbbe Nietzsche, ma non il vago e mellifluo risentimento verso la vita, la salute, la bellezza, la grandezza che Nietzsche imputava al cristianesimo e ai suoi eredi, come il socialismo. Ma un’ideologia rancorosa che si esercita delegittimando, denunciando, punendo e censurando l’avversario. Mentre di solito non accade l’inverso.

"L’ideologia vendicativa" è il titolo di un libretto anti-woke scritto da una sociologa e ricercatrice del CNRS di Parigi, Nathalie Heinich. (...) L’ideologia woke è inevitabilmente un’ideologia per le minoranze destinate a restare minoranza; nessuna forza maggioritaria di un paese può mantenere quell’atteggiamento censorio, elitario, sprezzante e arrogante che è tipico di una minoranza che reputa di essere su un piano etico e cognitivo superiore rispetto agli altri. 

Finché sarà woke, la sinistra sarà minoranza astiosa in ogni paese; potrà avere potere di veto, potere intimidatorio e ricattatorio, potrà combinarsi ad altre oligarchie e detenere il potere in spregio alla sovranità popolare e alla volontà reale della gente. Ma non sarà mai l’espressione compiuta di una maggioranza.

Al catechismo woke c’è chi reagisce in modo combattivo, come annuncia Trump; c’è chi invece preferisce la tattica di acquattarsi, tacere e andare avanti senza opporsi. (...) Ma l’ideologia woke è un’emergenza per la democrazia, mette in pericolo la libertà e l’intelligenza, genera un clima di odio mentre professa di volerlo avversare. Se sentite di una lezione all’università, di una conferenza, di un convegno o di una manifestazione autorizzata, di un testo censurato, di un autore negato, sapete già in partenza che a decretare l’ostracismo, lo stigma, il divieto è sempre quel ceto commissario e inquisitorio chiamato in breve woke.

Così come ogni qualvolta si vuole imporre un busto correttivo alla realtà e alla verità dei fatti, ogni volta che si vuol cancellare un evento, una statua, un personaggio dalla storia, dalla topografia, dalle vie e dalle piazze sapete già che sono loro, i sorveglianti della Woke, la polizia culturale in servizio in Occidente. Le vittime possono essere naturalmente la destra, ridefinita sempre nazifascista o al più reazionaria, ma anche semplicemente chi non si riconosce nel canone woke, non è di sinistra, o perfino lo è ma in modo libero e critico.

Che l’ideologia woke sia una mentalità radicata a sinistra lo dimostrano mille indizi: l’ultimo è una ricerca (…) della Bocconi sulle “polarizzazioni affettive”. In una relazione mista tra una figlia di sinistra e un fidanzato di destra o viceversa, i più infastiditi e intolleranti sono i famigliari di sinistra (...), mentre la grande maggioranza delle famiglie di destra sarebbero molto più tolleranti. Insomma l’ideologia woke opera anche a uso domestico, in famiglia.

Nathalie Heinich  fa un’attenta classificazione dei tratti significativi dell’ideologia woke, che potremmo così riassumere: impone un rapporto del tutto ideologizzato col mondo; confonde la descrizione con la prescrizione, la norma correttiva a cui adeguarsi; genera un’alleanza tra l’ideologia normativa e gli interessi commerciali; ignora il contesto e non vede la differenza tra la realtà e la finzione; applica criteri di valutazione del presente anche al passato; disprezza i diritti morali degli autori, fino a stravolgere le loro opere nella censura e bonifica dei testi; infine è fanatica, e ciò compendia il moralismo, la speculazione, l’ignoranza militante e arrogante, l’abuso dei testi e degli autori, il disprezzo per l’opera d’ingegno, la negazione della realtà. Tutto questo dà vita a quello che l’autrice chiama totalitarismo woke.

Il wokismo inoltre irrigidisce l’appartenenza a comunità originarie; tanto è fluido nelle questioni sessuali e morali, quanto è rigido nelle identità di partenza, quelle etniche, razziali, “comunitarie”. Chi è bianco, maschio, europeo e cristiano è già marchiato d’infamia nella sua identità, di cui può solo vergognarsi.

Nel cercare un precedente a questa faziosità totalitaria e ideologica, la ricercatrice francese non trova di meglio che ripescare il solito fascismo; ma non ha bisogno di allontanarsi troppo nel tempo e nemmeno dal luogo in cui vive: tutto questo si sviluppò da Parigi in poi nel ’68. Anche quando attribuisce al fascismo la definizione del “tutto è politica” non si rende conto che fu proprio il ’68 a lanciare lo slogan “il personale è politico”, e tutto ciò che è privato sconfina nel pubblico. A voler invece rintracciare un archetipo storico, un precedente ideale e ideologico al catechismo woke, restando in Francia, basta rovesciare quel numero 68 e trovarne un altro: l’89, nel senso della Rivoluzione francese dei giacobini.

Giustamente la Heinich nota che stavolta l’ideologia woke è venuta fuori dall’America, anche se il seme ideologico è europeo; poi se la prende col femminismo ideologico e con la discriminazione mortificante delle quote rosa. E auspica l’uso attivo dell’ironia e dell’umorismo per sconfiggere l’arcigna ideologia woke che ne è totalmente priva.

Spiegando infine le ragioni del successo dell’ideologia woke, l’autrice sottolinea innanzitutto che è redditizio, arreca vantaggi a chi lo usa o lo serve. In secondo luogo nasce dalla paura: paura di stare dalla parte sbagliata e di subirne le conseguenze e paura di invecchiare, di restare cioè fermi al passato, tagliandosi fuori da ciò che è trendy. Sulla scia di Hannah Arendt, l’autrice nota che l’ubbidienza woke attecchisce anche perché i sistemi totalitari preferiscono la mancanza d’intelligenza e di creatività, perché dà maggiori garanzie di lealtà, cioè di conformismo.

Per la Heinich il woke capovolge virtù originarie in oppressione. E come esempi di virtù originarie cita l’ideale ugualitario della Rivoluzione francese e l’ideale comunista della rivoluzione bolscevica. Non le sfiora il sospetto che quelle virtù, proprio perché irrealizzabili e utopistiche, contenevano già in sé le premesse per la loro involuzione totalitaria, tossica e sterminatrice. Del resto, non c’è bisogno di fare congetture: basta vedere dove condusse il Terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista ovunque si sia imposto nel mondo. No, l’ideologia woke non nasce dal nulla, anche se può produrlo. >>

MARCELLO VENENZIANI

domenica 27 luglio 2025

Energy Mix

Tre brevi approfondimenti sul tema dell'energia, un elemento fondamentale che condizona tutta la nostra vita, sia economica che politica. 
LUMEN


ENERGIA AMERICANA
Il peggioramento delle condizioni economiche per gli americani medi è iniziato negli anni ’70, quando si è esaurito il boom del dopoguerra.
La produzione petrolifera statunitense ha raggiunto il picco nel 1970 e il paese è diventato molto rapidamente il più grande importatore di petrolio. Le importazioni di petrolio statunitense sono aumentate di 5 volte entro il 1977 e di 7,5 volte entro il 2006.
Pagare aziende straniere per il petrolio drena la ricchezza interna, aumenta i deficit commerciali e riduce il capitale disponibile per gli investimenti nelle industrie locali, rallentando la crescita economica. (...)
La vittoria di Trump riflette l’insoddisfazione degli elettori nei confronti di un sistema che sta raggiungendo i limiti della crescita, sintomo di realtà economiche più profonde.
Nate Hagens descrive il “carbon pulse” come un breve, straordinario capitolo della storia umana, quando l’estrazione di combustibili fossili, in particolare del petrolio, ha guidato un’espansione economica senza precedenti.
Tale impulso ha alimentato l’industrializzazione, le infrastrutture moderne e il progresso tecnologico, elevando gli standard di vita in tutto il mondo.
Quell’era sta finendo. Il futuro economico non riguarda la crescita infinita, ma la gestione del declino.
La nuova amministrazione Trump non l’ha capito, e nemmeno il pubblico americano. “Making America Great Again” è una fantasia, un rifiuto di riconoscere la storia degli ultimi 50 anni. Finge che le sfide da affrontare non siano il risultato di limiti strutturali, bensì di cattive politiche e di un governo strabordante.
È più facile vendere nostalgia che affrontare dure verità di un mondo in cui la crescita non è più garantita.
IGOR GIUSSANI (dal sito Apocalottimismo)


RINNOVABILI DA TESTARE
Le energie rinnovabili, quel miracolo tecnologico che dovrebbe salvarci dal collasso climatico, soffrono dello stesso problema di qualsiasi sistema giovane: sono testate ma non mature. (…) La differenza tra “funziona in teoria” e “funziona nella realtà” si misura in decenni di prove ed errori.
Le centrali a combustibili fossili hanno avuto un secolo per affinarsi, per capire come comportarsi quando tutto va storto. Le rinnovabili no. Sono adolescenti brillanti ma inesperti a cui stiamo affidando le chiavi di casa.
Prendiamo il caso del fotovoltaico. Sì, sappiamo produrre pannelli efficienti. Ma sappiamo davvero cosa succede quando una tempesta di sabbia copre metà dei pannelli di un'intera regione mentre la domanda energetica raggiunge il picco? O quando il ghiaccio si accumula sulle pale eoliche in contemporanea a un'ondata di freddo che fa impennare i consumi?
La verità è che stiamo facendo un enorme esperimento collettivo. Abbiamo sostituito sistemi prevedibili, anche se inquinanti, con una rete fragile che dipende da variabili incontrollabili.
E lo abbiamo fatto senza avere un vero 'piano B', senza aver accumulato quell'esperienza che solo il tempo può dare. (…)
Il blackout in Spagna [dello scorso Aprile] è stato un assaggio di quello che potrebbe accadere su scala più ampia. Un campanello d'allarme che nessuno vuole sentire.
Perché ammettere il problema significherebbe rallentare la transizione, e questo è politicamente inaccettabile.
Così continueremo, testardamente, a correre verso il futuro con un sistema energetico acerbo, sperando che la legge di Murphy non ci presenti il conto al momento sbagliato.
URIEL FANELLI (dal suo Blog personale)


CASA DOLCE CASA
Agli occhi di molta gente l'edilizia è un settore “povero” e poco tecnologico. In realtà proprio sugli immobili si sta giocando una partita fondamentale per il miglioramento o no dell'ambiente: un edificio d'inverno disperde all'esterno una parte del calore prodotto dall'impianto di riscaldamento, mentre d'estate il calore esterno si propaga al suo interno.
L’energia consumata nell’edilizia residenziale per riscaldare e condizionare gli ambienti e per l’acqua calda sanitaria rappresenta circa il 30% dei consumi energetici nazionali, e il 25% delle emissioni totali nazionali di anidride carbonica.
Per cui case meno impattanti da un punto di vista energetico, cioè isolate meglio termicamente, consentirebbero di contenere questi numeri a valori molto inferiori: mediamente sul 100% di energia finale consumato in casa, soltanto il 2% serve all'illuminazione, il 5% per cucina e elettrodomestici, mentre ben il 15% viene impiegato per il rifornimento di acqua calda e il 78% per il riscaldamento; se poi nell'immobile esiste un impianto di raffrescamento/condizionamento estivo, questo aggiunge il 25% in più di consumi energetici.
Questi numeri dimostrano come edifici più termicamente performanti migliorino l'ambiente e la situazione finanziaria delle famiglie, come pure la bilancia commerciale del nostro Paese, vista la pochezza di energia prodotta con fonti rinnovabili e la nostra cronica dipendenza energetica dall'estero.
E' noto come i picchi dei consumi di elettricità assumono valori allarmanti durante le ondate di caldo estive ed è quindi proprio il settore abitativo a tirare la corda.
Mediamente un edificio in Italia ha un consumo energetico annuo di 300 Kw al metro quadro. E' possibile quasi dimezzare questo valore sull'esistente, mentre esistono nuove costruzioni che hanno valori di un decimo rispetto alla media. (…) Quindi migliorare si può.
ALDO PIOMBINO (dal blog Scienze-e-dintorni)

lunedì 21 luglio 2025

C'era una volta il Patriarcato

Questo post vuole essere il completamento di un altro post, dal titolo molto simile ('C'era una volta il Matriarcato'), che avevo pubblicato circa un anno fa.
L'argomento è sicuramente delicato, ma, proprio per questo, più viene approfondito e meglio è.
Il testo, dal tono leggero e brillante, ma scientificamente impeccabile, è tratto dalla pagina Facebook “Scienziati, filosofi e altri animali”.
LUMEN


<< Mi è stato chiesto se il patriarcato è un fenomeno lamarckiano (eredità dei caratteri "culturali" acquisiti) o darwiniano. In pratica se la dominanza (l’aspirazione alla d.) del sesso maschile nell’uomo è filogenetica o culturale.

Dal punto di vista “storico”, il momento in cui c'è stata la differenziazione dei ruoli e della taglia/forza tra i sessi è stato quello dell’uomo cacciatore-raccoglitore, cioè prima che diventassimo stanziali per allevare/coltivare.

Si devono difendere i raccolti e le case (?), ma difendersi ogni giorno da bestioline come i grandi felini, i nostri principali predatori, e altra grande fauna carnivora, era un pelo più impegnativo, fisicamente. Anche acchiappare bestie enormi per mangiarle senza farsi ammazzare, richiede più prestanza fisica rispetto a coltivare il cibo o mungere animali domestici e ucciderne qualcuno ogni tanto con tutto comodo.

Nei siti paleontologici occupati da grandi felini ci sono mucchi di ossa umane, praticamente tutte di individui di sesso maschile. Le donne le lasciavano a casa: puro patriarcato.

E’ successo che l'evoluzione ha premiato i gruppi sociali nei quali le femmine, preziosissime perché erano il vero limite riproduttvo e per l'altissimo investimento parentale (gravidanza e allattamento), non si esponevano mai a rischi, venivano strenuamente difese da grossi, forzuti e pure un po' 'coglioni' maschi, dal punto di vista riproduttivo decisamente più sacrificabili.

Coglioni abbastanza da affrontare degli smilodon o equivalenti [grossi felini dai denti a sciabola - NdL] armati di asce e lance di pietra, abbastanza da affrontare bufali, mammuth e altra merce letale con le stesse armi per procurare il cibo.

Femmine e cuccioli erano i raccoglitori, e se c'era pericolo si rintanavano; ai maschi, più spendibili, i rischi: cacciare e difendere il loro prezioso investimento genetico. Ha senso, ha vinto quella strategia, prendetevela con l'evoluzione, a monte, perché ha inventato i sessi separati e le differenze fisiche tra i sessi -> divisione e specializzazione dei ruoli, che pare aver funzionato.

Quindi è vero che è un fenomeno a radice biologica ed è basato sulla maggior forza fisica dei maschi, non è corretto farlo risalire alla fase stanziale (villaggi, comunità, “società”), è precedente; quando si è passati alla fase agricola la grossa differenza di taglia e forza c'era già e anzi si è ridotta, dicono i reperti fossili.

Altro discorso: socialità ed ecologia comportamentale comparata. La faccio breve altrimenti è un macello: tra orche ed elefanti l'animale "alpha" è sempre una femmina, una matriarca. 

Tra i lupi all'atto pratico si parla di "coppia dominante", perché il maschio esercita il suo status con i maschi e la femmina con le femmine. Nelle uniche due specie di felini sociali (quasi), leoni e gatti domestici, i maschi, mediamente più grossi (gatto) e parecchio più grossi (leone) non solo pestano le femmine e si appropriano anche del loro cibo, le ammazzano pure, se capita.

Infine le due specie di primati più vicine a noi. Tra gli scimpanzé il patriarcato va alla grande, maschi, più grossi e forzuti, comandano e quando capita picchiano le donne senza ritegno. La difesa, la gestione delle risorse comuni e le "guerre" sono compito loro. Tra i bonobo, distanza genetica di un capello, è il contrario o quasi.

Ho fatto solo qualche esempio per dire che non è che "il patriarcato" ce lo siamo inventati noi, è diffuso, normale, ha un suo perché evolutivo = Darwiniano, in partenza. Anche per noi.

Quindi, per quanto riguarda la biologia, l'etologia, la dominanza maschile non è la norma, ma non è un fenomeno raro, per niente. Si è evoluta con modalità darwiniane. Al solito nel nostro caso, animali culturali per eccellenza, non si può del tutto ignorare l'aspetto culturale e la degenerazione del fenomeno (come di tantissimi altri che ci riguardano) a livelli di complicazione mai visti. (…)

[Il patriarcato, quindi,] c'è, anche se in occidente oggi non è istituzionalizzato, ma anzi è condannato; è debole ma non è defunto, a livello sociale e individuale, strisciante ma c'è.

E' comunque niente confronto a quello dei regimi teocratici arabi (che, è fondamentale tenere ben presente, sono tutti roba recente, prima non era affatto così). E' a matrice culturale e la forza fisica non c'entra un accidente: è una delle varie e vaste devianze che ci caratterizzano come specie. Ma qui si esce dal mio campo e si entra in altri (psicologia, sociologia etc.) e io non mi sento di pontificare.

La mia idea, ma è proprio un'idea, è che il patriarcato umano "moderno" esista perché gli uomini, stringi stringi, hanno paura delle donne. Il sistema non consiste nel tenerle in condizioni di inferiorià, ma nel farle il lavaggio del cervello dalla nascita convincendole del fatto che è giusto e naturale così, in modo da non correre rischi.

Nei paesi di cui sopra sono le donne a volersi coprire come mummie, a ripudiare le figlie che rifiutano le regole, a portarle a subire infibulazione. Sempre a mio parere, è solo questione di tempo, il fenomeno perde forza ogni giorno, e finirà. E la famigerata globalizzazione ha e avrà una parte del merito, in questo.

Morale della favola: se ci si riferisce all'ultimo mezzo millennio, in particolare al periodo tra rinascimento e illuminismo, il patriarcato è culturale, anche se la matrice è biologica; se si parte dalla preistoria, è nato prima delle prime forme di "civiltà", quando ancora gli antenati vagavano per savane e foreste spostandosi da una caverna all'altra; oltre al fatto che non è per niente una prerogativa umana, facciamocene una ragione. >>

SCIENZIATI, FILOSOFI E ALTRI ANIMALI

martedì 15 luglio 2025

L'Immigrazione come Problema Sociale

Il post di oggi riporta le considerazioni del movimento progressista 'Fronte del Dissenso' (pubblicate dal sito di Sollevazione - LINK), sul problema dell'immigrazione eccessiva in Italia.
Come si vede, non è necessario essere dei biechi reazionari 'di destra' per rendersi conto del tragico problema sociale che ci attende.
LUMEN


<< Ci sono problemi sociali che possono trovare soluzione senza sovvertire il sistema sociale che li ha prodotti. Altri, data la loro natura e dimensione, possono invece avere soluzione soltanto con la fuoriuscita dal sistema che li ha generati.

Il fenomeno delle migrazioni, degli esodi di massa, dello sradicamento di intere popolazioni, siccome connaturato al sistema capitalistico, non può trovare una soluzione definitiva nel suo seno.

La peculiarità del capitalismo è che gli esseri umani sono considerati una merce, forza-lavoro, manuale o intellettuale, la cui essenziale funzione è valorizzare il capitale. (…) È una legge inesorabile quella per cui la forza lavoro debba spostarsi dove il capitale chiama.

Più è grande la calamita del capitale più forte la sua capacità d’attrazione e ampio il suo raggio di cattura e saccheggio. Il capitale è un vampiro che si sposta ovunque trovi migliori opportunità, la dove ci siano umani a cui poter succhiare sangue per metterlo a valore e trarne profitto, ovunque possa depredare risorse naturali per alimentare la sua vorace macchina produttiva.

Più intenso e veloce il ciclo di “crescita” economica, tanto maggiori sono il disordine e il livello di entropia sistemica, e tanto più massicci saranno i fenomeni migratori.

Nel contesto della ultima globalizzazione capitalistica, segnata dal più radicale libero-scambismo e dal più prodigioso sviluppo delle sue forze produttive, il fenomeno delle migrazioni è diventato una piaga di dimensioni globali: intra e trans-continentale, tra le diverse nazioni, interno alle nazioni.

Possono mutare o addirittura invertirsi, a seconda dei movimenti e delle delocalizzazioni del capitale, le direzioni dei flussi, non il loro carattere sistemico. D’altra parte, come la forza-lavoro è destinata a inseguire il capitale, vale anche il movimento in direzione opposta, ciò accade ove il trasferimento e la delocalizzazione del capitale si presenti più agevole e prometta migliori risultati.

L’emigrazione non è dunque un fenomeno naturale bensì storico-sociale. In natura non esistono il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, e per questo non ha valore esprimere giudizi etico-morali o politici; i fenomeni sociali non solo meritano ma esigono che siano sottoposti alla valutazione etico-politica.

Ogni umana comunità, tra gli altri fattori, si fonda sulla dualità oppositiva tra ciò che è bene per la società e la singola persona e ciò che non lo è, tra condotte giuste e condotte sbagliate e nocive, di qui le leggi e le relative prescrizioni, dunque le sanzioni nei casi di trasgressione.

Così come sarebbe aberrante confondere la facoltà di muoversi e spostarsi liberamente con la condanna al confino o all’esilio, così è inaccettabile, come fa la retorica globalista, scambiare il diritto alla libera circolazione con gli attuali esodi di massa causati dalle ingiustizie e dalle storture abissali che il capitalismo più cresce più produce.

Emigrare per sfuggire alla miseria, abbandonare la propria comunità, la propria famiglia, il proprio Paese, non è esercitare un diritto di libertà, è una condanna all’esilio, una deportazione camuffata. A maggior ragione non saranno pertanto tollerate organizzazioni che pratichino il trasferimento programmato di migranti con la scusa di prestare soccorso in mare.

Non dimentichiamo né l’amara sentenza di Hegel, quella per cui la storia è simile ad un mattatoio “in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui”, e con lui non possiamo non chiederci “a vantaggio di chi, e di qual finalità ultima siano stati compiuti così enormi sacrifici”.

Sappiamo che gli indiscutibili progressi conosciuti dall’umanità si sono realizzati a costo di privazioni e sofferenze indicibili per i popoli e gli oppressi. Questo dato di fatto non può tuttavia essere utilizzato come alibi per giustificare che la storia continui ad essere il banco di un macellaio. (...)

Occorre contrastare il fenomeno delle migrazioni caotiche e forzate di massa non solo per ragioni etico-morali, ma politiche e sociali: esso infatti, mentre impoverisce e depreda i paesi ed i popoli che producono l’esodo, generano nei paesi che lo subiscono guasti crescenti: aumento delle povertà, forme di sfruttamento neo-schiavistiche che concausano l’erosione di salari e diritti per i lavoratori tutti, marginalità sociale, tribalizzazione conflittuale su basi etno-linguistiche e/o religiose.

Come Giano la tradizione ideologica capitalista ha due facce, quelle del nazionalismo e quella del cosmopolitismo (che certa sinistra transgenica scambia con l’internazionalismo). Così come contestiamo entrambi respingiamo con la medesima fermezza le due loro specifiche ramificazioni: la xenofobia razzista e la xenofilia caritatevole.

Se è inammissibile respingere a priori l’immigrazione in base all’idea reazionaria della difesa “purezza etnica” e/o di una concezione mistica della patria, altrettanto sbagliata è la posizione dell’accoglienza indiscriminata, universale, senza regole: ciò che avviene infatti in nome del rifiuto delle sovranità statuali e della cancellazione delle identità nazionali e culturali, ovvero l’ideologia che il massimo progresso sarebbe il melting pot.

Tra le opposte utopie del “respingimento” e della “accoglienza” indiscriminata c’è lo spazio dell’azione articolata per frenare, regolamentare, quindi governare i flussi migratori, non solo in entrata ma pure in uscita visti i gravi danni che produce al Paese ed al suo futuro il fenomeno dell’emigrazione di giovani italiani all’estero.

Governare un fenomeno richiede la capacità di sapere con esattezza quali siano i bisogni della società sul medio lungo periodo, richiede un calcolo quanto più preciso delle risorse pubbliche e private disponibili, richiede che l’economia sia programmata e non lasciata in balia delle cieche leggi di mercato, richiede quindi farla finita col neoliberismo.

Tutte azioni che implicano uno Stato che non sia subordinato ma sovraordinato rispetto alla sfera economica, un governo effettivamente sovrano che metta al primo posto il bene comune, che quindi protegga la nazione dalle scorrerie delle multinazionali, che attivi un processo di sganciamento dalla globalizzazione e l’uscita dall’Unione Europea. >>

FRONTE DEL DISSENSO

mercoledì 9 luglio 2025

Pensierini – LXXXVIII

LA VERITA' DEGLI ALTRI
Il mito della 'conoscenza personale' come unica guida valida ed affidabile della nostra vita è, purtroppo, solo un mito.
Le nostre esperienze dirette, infatti, anche dopo molti anni, restano modestissime se paragonate alle complessità del mondo, per cui non sono assolutamente sufficienti per consentirci una adeguata comprensione della realtà.
Per ovviare a questo inconveniente è necessario pertanto seguire l'opinione degli altri, ovvero, nei primi anni, quella dei nostri genitori e poi, da adulti, quella della maggioranza delle persone.
Ci sono campi, però, in cui l’opinione comune è vittima di pregiudizi infondati e va accolta con molte riserve; occorre pertanto alzare l'asticella e cercare l'opinione prevalente non di tutti, ma dei più competenti (che sono, in genere, gli uomini di scienza).
Questo non modifica il 'criterio di maggioranza', ma ci aggiunge, per usare un termine giuridico, la necessità di una 'maggioranza qualificata'.
Come dice acutamente Gianni Pardo: 
<< L’opinione della maggioranza dei competenti costituisce, nella vita concreta, l’unico criterio di verità. Quando essi pensano tutti la stessa cosa, si ha una verità assoluta, anche nel caso in cui non corrisponda alla realtà: si pensi al sistema tolemaico.
Quando alcuni dissentono, la verità diviene discutibile. Quando i competenti si dividono in due gruppi opposti e pressoché uguali, non esiste verità ufficiale, ma solo un dibattito. La realtà non offre di più. >>
LUMEN


LE CONSEGUENZE DEL POTERE
E' opinione comune che le persone che raggiungono il potere cambino la loro personalità, e la cambino in peggio.
Qualcuno però non è del tutto d'accordo, a giunge ad una conclusione più sottile.
Come, per esempio, il grande attore Anthony Hopkins, che ha fatto questa riflessione:
<< Il potere non cambia le persone, semplicemente toglie loro il bisogno di fingere. Il giusto protegge, l’ambizioso abusa, l’insicuro diventa un tiranno. Non è il potere a corrompere, è il vero volto di ciascuno che emerge quando non si ha più paura delle conseguenze. >>
E se è vero (come sono convinto anche io) che il carattere profondo delle persone non cambia con gli anni, ma resta sempre quello, credo che Hopkins abbia colto nel segno.
LUMEN


IL TEMPO
Hanno perfettamente ragione coloro che sostengono che se non esistesse nulla, cioè non esistessero le 'cose' che compongono l'universo, non esisterebbe neppure il tempo.
Il concetto di tempo, infatti, è strettamente connesso con la legge fisica dell’Entropia (2′ legge della termodinamica), secondo la quale tutte le strutture passano inevitabilmente da uno stato di ordine ad uno di disordine; e questo passaggio costituisce, appunto, lo scorrere del tempo, la cui freccia, come ben sappiamo, può andare solo in avanti e mai indietro.
E siccome il ritmo dell’entropia non è uniforme, questo può forse spiegare (ipotesi mia) la soggettività che proviamo di fronte al passaggio del tempo, che sembra scorrere ora più veloce, ora meno veloce.
LUMEN


ELOGIO DELLA SINTESI
Io adoro la sintesi: la apprezzo ogni volta che la trovo e cerco di utilizzarla ogni volta che posso.
Sono consapevole del fatto che, a volte, una sintesi eccessiva può rendere più difficile la comprensione di un concetto, che rischia di non essere adeguatamente sviluppato, ma in genere la cosa è più forte di me.
Mi ha pertanto molto consolato queste considerazioni sulla sintesi, che Alida Pardo ha pubblicato sul blog del marito Gianni:
<< La sintesi è un momento di gratificazione della mente.
L’essere umano può dire alla realtà: “Cara realtà, ho intaccato la tua durezza, ti ho fatta a fettine e alla fine sono riuscito a penetrare la tua essenza. Le mie conclusioni ti inchiodano, ti imprigionano in un punto chiaro e fermo da cui non puoi uscire”.
La sintesi rappresenta il piacere intellettuale della comprensione. Limitatamente al problema esaminato, ovviamente. Subito dopo comincia un’altra sfida. >>
LUMEN


COSE NUOVE
In genere, ci piace molto aggiungere cose nuove alla nostra vita, perchè pensiamo in questo modo di renderla migliore, dando per scontato (per abitudine mentale) che potremo conservare anche tutti vantaggi delle cose che già abbiamo.
Purtroppo non è sempre così.
Molto spesso per ogni cosa nuova che aggiungiamo, ne perdiamo una vecchia e i pregi della cosa nuova, anche se notevoli, non riusciranno mai a ricomprendere tutti i vantaggi che ci venivano dati dalla cosa vecchia.
Pertanto per migliorare la nostra vita non basta aggiungere, ma occorre anche accettare di perdere qualcosa. Certo, sono cose difficili da prevedere in anticipo, ma la cosa peggiore è di non esserne consapevoli.
LUMEN

giovedì 3 luglio 2025

Il vero Socialismo

Il termine 'socialismo' si presta, suo malgrado, a parecchi equivoci socio-politici e può essere opportuno fare un po' di chiarezza, cercando di distinguere tra il socialismo vero e proprio (che, per motivi storici, è quello marxista) ed i socialismi 'finti' (come fascismo, nazismo e cristianesimo).
Ce ne parla Uriel Fanelli nel post di oggi, tratto dal suo blog (LINK).
LUMEN


<< “Socialismo” non e' una parola qualsiasi. Sebbene abbia avuto dei precursori nelle comuni rivoluzionarie parigine, e abbia dei tratti di illuminismo molto marcati, il termine si riferisce ad una teoria precisa: quella di Marx, Engels, e successori vari. (...)

Quindi, per sapere se un'ideologia e' socialista, il metodo e' semplice: si verifica che la teoria da confrontare non neghi i “pilastri” della costruzione socialista [di Marx e Engels], senza i quali il socialismo non esiste. Questi pilastri, almeno quelli fondamentali, sono tre.

= La lotta di classe. Nel socialismo, le classi si scontrano violentemente mediante scioperi, occupazioni, rivolte , autogestioni e anche la rivoluzione, fino ad ottenere la cancellazione del sistema precedente, il capitalismo, molto spesso mediante l'eliminazione fisica dei capitalisti.

= L'abolizione della proprieta' privata dei mezzi di produzione. Nel socialismo, i mezzi di produzione (fabbriche e terreni agricoli, quindi, ma anche botteghe artigianali o negozi a seconda del tipo di comunismo) sono di proprieta' della societa' e dei lavoratori, che dopo la rivoluzione sono anche lo stato. Se qualcosa produce reddito , detto “plusvalore”, (non, quindi, la vostra bicicletta: potete averne due) allora e' dello stato.

= Il materialismo dialettico. Non c'e' posto , nel socialismo, per qualsiasi ente cerchi di giustificare o spiegare la storia senza passare da cause materiali. Non c'e' posto per “la tradizione”, per “Dio”, per niente che non sia materiale, e quindi economico. Con Marx nasce l'idea che “una guerra si fa per il petrolio”, per dire, mentre prima si sarebbe parlato di “ragione di stato” o di “deus lo vult”.

Senza queste tre cose, il socialismo crolla; non sta in piedi nemmeno a morire. Almeno, non quello Marxista (…) 

Prendiamo per esempio il nazismo: in che modo si relaziona con i tre pilastri del socialismo? 

Partiamo dal primo: la lotta di classe. Non si relaziona proprio. I nazisti hanno sempre stroncato la lotta di classe, i Frei Korps e le SA prima, e le SS poi, hanno sempre negato qualsiasi istanza sindacale, e si fanno vanto di aver messo dalla stessa parte tutti i tedeschi. RIvolte comuniste come gli spartachisti vengono soppresse nel sangue.

Idem per il fascismo, che vanta la “pacificazione sociale”, si definisce totalitarista in quanto rappresenta tutte le classi sociali (volenti o nolenti) e sopprime scioperi e rivolte, dai semplici scioperi dei contadini e mezzadri nel nord, alla rivolta di Parma, giusto come esempi.

Andiamo al secondo: abolizione della proprieta' privata dei mezzi di produzione. Non se ne parlava proprio , ne' col fascismo ne' col nazismo. Il nazismo incamero' molti mezzi di produzione, ma pratico' anche una politica di privatizzazione per fare cash (…).

Hjalmar Schacht, l'ideatore della politica economica nazista, può essere considerato un precursore del keynesismo. (...) La sua politica economica presentava diversi elementi in comune con l'approccio keynesiano: Schacht implementò una politica di investimenti nei lavori pubblici e di deficit spending, mirando a ridurre la disoccupazione e aumentare la domanda attraverso le commesse statali. (...)

Di abolire la proprieta' privata, dunque, non si parlava proprio.

Idem per il fascismo italiano, che, come al solito, faceva un pochino il cavolo che gli pareva. Incamerava le proprieta' degli oppositori politici, ma non perche' odiasse la proprieta' privata, ma fece anche una vasta campagna di privatizzazioni. Non si parlava proprio di abolizione della proprieta' privata dei mezzi di produzione.

Materialismo storico. Questa va via in fretta, perche' qualsiasi regime fascista ha uno strato mistico da far paura, e di certo non esiste posto, nel materialismo dialettico, per gente come Evola, o per degli idealisti hegeliani come Gentile, che mettevano “lo spirito” a guida delle forze razionali.

La Tradizione per il socialismo e' poco piu' di un' “ideologia”, una specie di vezzo che la gente puo' permettersi dopo aver soddisfatto le esigenze materiali, anche quando si decida di tollerarla perche' parte della “cultura del popolo”, ma sono interpretazioni del comunismo abbastanza discutibili e discusse. Non per nulla il sistema di Pechino viene chiamato, da loro stessi, “Socialismo con caratteristiche cinesi”.

Qui proprio non c'e' terreno in comune: l'infatuazione fascista (nel secondo decennio) per il cattolicesimo, cosi' come il misticismo delle SS che facevano battezzare i figli dal proprio tenente, non hanno alcun senso per il socialismo.

Andiamo adesso all'equivoco per il quale fascisti e cristiani vengono chiamati “socialisti”, lo stesso equivoco che ha consentito ad Hitler e Mussolini di autonominarsi “socialisti”, sino a quando qualcuno non si e' accorto della cosa e li ha cacciati. Qualcosa e' andato storto nel travestimento.

L'errore e' di confondere per “socialista” chiunque abbia un interesse per la societa', e in particolare si preoccupi di aiutare economicamente i poveri. Quindi ci ricadono le politiche del cristianesimo, come la beneficenza o l'elemosina, e ci ricadono le politiche sociali di fascismo e nazismo.

C'e' solo un piccolo problemino. Il socialismo marxista non si e' mai occupato dei poveri in quanto tali. Si e' occupato dei lavoratori, e se c'erano poveri disoccupati, questo era dovuto semplicemente a un effetto del capitalismo.

Lo stesso Marx parla molto male del welfare, dell'elemosina e della beneficenza, perche' li considera palliativi che distraggono dal vero problema, ovvero la diseguaglianza di classe.

Non puo' esistere nel mondo del socialismo marxista (...) una chiesa che distribuisce l'elemosina, perche' quei soldi sono gia' plusvalore, che doveva gia' andare ai beneficiati. Idem per il welfare: non esiste, dal punto di vista socialista, che tu prenda soldi del plusvalore tolto ai ricchi con le tasse, e li ridistribuisca: se tutto e' dello stato non c'e' plusvalore, e quindi non ci sono soldi delle tasse da redistribuire.

Nel mondo socialista, cioe', sono TUTTI lavoratori. Non esiste il pasto gratis, e tutti contribuiscono – come possono – alla societa'. Il socialismo non si occupa di poveri, ma di lavoratori, e considera un incidente storico il fatto che i lavoratori siano anche i poveri.

Cristo, quindi, non e' un “socialista”. E' cristiano. Mussolini col suo stato sociale non e' “socialista”, e' fascista. Idem per Hitler, che almeno ha un capro espiatorio per la sua politica sociale. >>

URIEL FANELLI

venerdì 27 giugno 2025

Appunti di Ecologia – (4)

SULLA STESSA BARCA
Uno degli errori dell’ambientalismo politico è l’assunzione 'naive' che “siamo tutti sulla stessa barca o astronave”.
Sì, l’astronave Terra è questa e non c’è via di fuga. Ma non è omogenea. Non crolla tutto insieme. Il collasso sistemico (...) avviene a pezzi. La stagione degli uragani, che parte a giugno, non è uguale ovunque.
Se il sistema diventa invivibile non lo diventerà in modo eguale all’equatore come sul circolo polare artico.
Ci sono zone che si possono difendere più efficacemente dalle invasioni dei probabili emigranti climatici e ambientali e regioni che, al contrario, sono più esposte a questi movimenti di massa. Movimenti che, al di là delle diatribe sovraniste e isolazioniste, creano tensioni impossibili da trascurare e destabilizzano i paesi di arrivo.
Quello che per ora, in Europa, si presenta come uno scontro politico giocato nelle stanze della Commissione o nel Parlamento Europeo, diventerà un confronto sempre più violento.
Inoltre ci sono Stati che ancora controllano ingenti risorse naturali e Stati che ne sono del tutto privi. Zone che saranno interessate all’aumento del livello dei mari e zone che non lo saranno.
In una situazione variegata come questa gli scontri a tutti i livelli saranno la regola.
Potremmo immaginare anche scenari ideologici e religiosi che giustifichino guerre civili e scontri etnici la cui base è tutto fuorché ideologica, religiosa o etnica, ma, come sempre, profondamente materiale.
La guerra degli ultimi giorni tra Israele e Iran è, in realtà, una guerra per procura fra USA e Cina, o, più ampiamente, tra ‘The West and The Rest’.
Essa colpisce l’Iran che, aggirando le sanzioni imposte dalle amministrazioni USA e dai loro vassalli, alimenta il vero nemico, la Cina, di petrolio.
Sullo stretto di Hormuz, controllato dall’Iran, sullo stretto di Bad el-Mandeb (la Porta del Pianto), se non controllato [comunque] minacciato dagli Houthi alleati dell’Iran, e sul Canale di Suez, controllato da un altro paese arabo instabile ed esposto, si giocano gli interessi energetici globali del momento.
E se si ammette che tutti siano informati della situazione energetica si capisce la dimensione dello scontro.
LUCA PARDI (dalla pagina Facebook)


BAMBINI ED ANIMALI
Quello che sarà, e che farà, la prossima generazione [nei confronti degli animali], è responsabilità della nostra.
Purtroppo noi non abbiamo ricevuto, in media, un buon insegnamento, dalla precedente generazione, e le conseguenze si vedono; ma i progressi ci sono: la civiltà comunque avanza, inarrestabile. (...)
Si parla di mettere giustamente i bambini a contatto con la natura e di insegnar loro a conoscerla, cosa necessaria a rispettarla; è una cosa importantissima.
Allo scopo direi che tra un bioparco, dove si guarda e basta, in un ambiente passabilmente simile a quello naturale, ed un circo dove si vedono animali ammaestrati, in un ambiente che di naturale non ha nulla, mentre fanno cose "fantastiche" agli ordini di tizi vestiti in modo improbabile, sotto dei riflettori; [oppure] tra l'interagire con i cetacei in mare ed il guardarli in delle piscine eseguire ordini a comando, il messaggio che passa non sia lo stesso.
Quale dei due modi 'passerà' il messaggio per cui gli animali selvatici vanno rispettati e quale invece quello per cui sono tutti a nostra disposizione e noi padroni che fanno quello che vogliono degli "inferiori"?
Non dico che il secondo modo sia kattivo, mi chiedo solo se è, come dicono alcuni, un modo per mettere i bambini a contatto con la natura e di insegnar loro a conoscerla, capirla e rispettarla.
SCIENZIATI, FILOSOFI E ALTRI ANIMALI (dalla pagina Facebook)


SOGNANDO LA GROENLANDIA
La Groenlandia è un’area geopoliticamente ed economicamente strategica per diversi motivi, che il Presidente Trump evidentemente conosce bene, ed è per questo che società di tutto il mondo (Europa, America, Asia, soprattutto Cina, ed Australia) sono molto interessate a questa regione.
Alla Groenlandia appartiene parte dell’Oceano Artico e questo è un particolare importante, sia per lo sfruttamento della sua piattaforma continentale e quindi della zona economica esclusiva, sia perché la diminuzione dei ghiacci potrebbe portare presto da quelle parti all’utilizzo di rotte marittime, il cui controllo è ambito.
Condizioni per la presenza di giacimenti di idrocarburi sono presenti lungo quasi tutte le coste ad eccezione della parte sudorientale (...)
Ma quello che fa capire il perché di tante mire sul territorio groenlandese, sono le risorse minerarie custodite nelle rocce dell’isola. (…) In particolare si nota la presenza significativa di Terre Rare, sia leggere che pesanti, Niobio, elementi del gruppo del Platino. Meno presente il Litio. (...)
Resta inoltre sul tappeto una questione fondamentale: la Groenlandia è ancora un'area abbastanza incontaminata e le attività estrattive minacciano l'ambiente artico.
E non è solo una minaccia a causa dell'inquinamento e per la fauna artica: l'incremento delle polveri antropiche che risulterebbe ovviamente dalle attività di estrazione mineraria potrebbe depositarsi sul ghiaccio, coprendolo con una patina scura la quale, trattenendo il calore più del ghiaccio bianco, ne provocherebbe una maggiore fusione.
ALDO PIOMBINO (dal blog Scienze-e-dintorni)

sabato 21 giugno 2025

Uomini e Donne – (5)

Le uccisioni di donne da parte di partner respinti (chiamate oggi femminicidi) sono aumentate e compaiono ormai nella nostra cronaca nera con tragica frequenza .
Ho deciso pertanto di dedicare un post a questo argomento, con due interessanti considerazioni di Marcello Veneziani e di Uriel Fanelli, tratte dai loro siti personali. A seguire una breve riflessione del sottoscritto.
LUMEN


FEMMINICIDIO E NARCISISMO
 << [Considero una] deformazione della realtà l’uso becero dei cosiddetti femminicidi per armare il femminismo contro i maschi assassini potenziali e incitare alla lotta per l’autorealizzazione.
Dopo ogni femminicidio c’è questa chiamata alle armi per combattere il maschio violento e mobilitarsi in una specie di lotta di genere, succedaneo della lotta di classe. Il presupposto falso e fuorviante di questo esercito della salvezza è che si fronteggi con un esercito di maschi potenziali femminicidi, che sarebbe lì di fronte a loro e vorrebbe opprimere e anche sopprimere la donna insubordinata.
E invece non c’è nessun esercito maschile contro cui combattere; il novantanove per cento dei maschi non usa violenza verso le donne, semmai è intimidito, in fuga o si arrocca sulla difensiva.
I femminicidi sono aberrazioni di singoli che hanno perso la testa; non sono vittime di uno scontro sociale di genere.
Non c’è nessun esercito nemico da battere ma ci sono solo individui solitari che uccidono per incapacità di vivere, dipendenza assoluta dalla loro partner e fragilità distruttiva e autodistruttiva.
Sono uomini-narciso, che vivono specchiandosi nell’altro e quando lo specchio si rompe (porta male) le schegge diventano coltelli per uccidere chi ha infranto la loro immagine proiettata nella vita di lei.
Alla fine siamo tra due deserti di solitudine: quella di chi ritiene di dover alzare i ponti col resto del mondo perché ama troppo se stessa e quella di chi escluso dalla prima si vendica e uccide l’oggetto proibito del suo ego che chiama amore.
Narciso contro Narciso, solitudine contro solitudine mentre le tifoserie inveiscono e incitano alla lotta. Ma il vero nemico è l’egolatria di massa. Viva Io, a morte l’Io altrui. Così muore una società, non solo un individuo. >>
MARCELLO VENEZIANI


FEMMINICIDIO E CONSENSO
<< Una studentessa [è stata] sgozzata da un ossessivo che la perseguitava, dopo averne respinto le attenzioni. Il copione, purtroppo noto, del femminicidio.
E, come prevedibile, irrompono le solite pasionarie a pontificare sulla necessità di “insegnare ai maschi a gestire un rifiuto”, come se la radice del male risiedesse unicamente in quel “no” pronunciato dalla vittima. (…)
A un uomo capace di sgozzarti, del tuo consenso non importa assolutamente nulla. Non l'ha ascoltato ieri, non lo ascolterebbe oggi, non lo considererà mai. Non lo vede nemmeno. (...)
Quante donne vengono uccise dopo anni di sottomissione, dopo aver acconsentito a ogni umiliazione, a ogni violenza, a ogni degradazione?
Donne che non hanno mai opposto un rifiuto, ma che – al culmine di un delirio paranoide (“lei mi tradisce con un alieno”) – vengono ugualmente strangolate, accoltellate, annientate.
Cosa dimostra tutto ciò? Che continuare a cercare la causa scatenante nel rifiuto femminile è un tragico abbaglio. I casi più aberranti di violenza domestica sfociata in omicidio raramente esplodono per un “no”.
Esplodono per un cortocircuito ossessivo nella psiche dell'aggressore – un dettaglio che, guarda caso, nessuna campagna sul “consenso” potrà mai risolvere. (…)
Non provate a negare l'evidenza statistica. Il “no” della vittima è irrilevante nell'equazione mortale.
Quando un ossessionato sceglie la sua preda, il dado è già tratto: quel corpo è solo un conto alla rovescia ambulante. Il consenso o il rifiuto possono forse modulare i tempi (accelerandoli o rallentandoli), ma non altereranno mai l'esito finale: una tomba.
Perché la verità è questa: non è questione di “sì” o “no”. È questione di un cervello malato che ha deciso di uccidere. Continuare a insistere sul feticcio del consenso non solo è inutile – è perfino grottesco. >>
URIEL FANELLI


FEMMINICIDIO E PATRIARCATO
L'aumento preoccupante dei femminicidi per futili motivi viene spesso considerato una conseguenza del vecchio patriarcato, che, secondo questa tesi, pur essendo ormai in declino, non rinuncerebbe ai suoi colpi di coda.
Secondo me, invece, le cose stanno in maniera opposta: il patriarcato, almeno in occidente, è già finito e l'aumento dei femminicidi per futili motivi è una conseguenza della sua fine.
Il motivo, come quasi sempre nel rapporto tra i sessi, è di ordine psicologico.
Nel patriarcato l'uomo si sentiva superiore alla donna, che considerava un 'bene' di sua proprietà: pertanto la poteva maltrattare liberamente, ma non la uccideva (se non per motivi del tutto eccezionali), perchè ne avrebbe subito un danno materiale.
Nel caso del femminicidio moderno, invece, l'uomo si sente inferiore alla donna, sulla quale non ha più nessun controllo sociale; per cui, quando il rapporto va in crisi, non riesce a vedere altro modo per riaffermare se stesso che l'uccisione della donna.
Non so se il problema dei femminicidi moderni sia risolvibile (forse non lo è); ma se si continua ad indicare la causa sbagliata, non si potrà arrivare da nessuna parte.
LUMEN