mercoledì 21 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 1

Il post di oggi – scritto da Il Pedante - cerca di andare alla radice del concetto sociale di scuola e di istruzione.
E, con grande acutezza, descrive in modo magistrale la sua evoluzione dagli inizi elitari, quando c'erano solo i precettori privati, sino alla moderna scuola pubblica (ed obbligatoria), con gli insegnanti stipendiati dallo Stato.
Il testo, che ho deciso di dividere in 4 parti per comodità di lettura, è tratto dal blog personale dell'autore (LINK).
LUMEN


<< L'istruzione universale e obbligatoria è un concetto recente. Non se ne ha traccia nella storia antica, nel medioevo e neanche in età moderna, con una sola eccezione: l'appello (...) con cui Martin Lutero auspicava per la prima volta l'istituzione di una scuola pubblica obbligatoria rivolta a tutti.

Il riformatore tedesco desiderava così da un lato scalfire il monopolio cattolico dell'istruzione delegandola alle autorità civili delle 'Stadte', dall'altro consentire a ciascun fedele di attingere senza mediazioni al testo biblico secondo il principio della «sola scriptura» che nella dottrina luterana delle origini doveva «solam... regnare, nec eam meo spiritu aut ullorum hominum interpretari, sed per seipsam et suo spiritu intelligi» (...).

Il concetto odierno di istruzione pubblica nasce su queste basi teologiche nella Prussia protestante, ma si sarebbe concretamente affermato ben più tardi, verso la metà dell'Ottocento, mentre ancora un secolo fa soltanto un quarto della popolazione mondiale sapeva leggere e scrivere. Se l'idea è giovane, la sua applicazione è dunque giovanissima. Tra tutte le idee moderne, è forse la più moderna.

Vista con gli occhi di oggi, questa verità disorienta. Da decenni i tassi di alfabetizzazione e di lauree figurano tra gli indici di sviluppo per eccellenza e sembrano così ovvi che nessuno se ne chiede più il perché, o perché le più prospere e raffinate civiltà del passato non li considerassero tali.

Alcuni direbbero che un tempo non si capiva l'importanza di queste conquiste, ma altri troverebbero forse implausibile che proprio nessuno tra i filosofi più eccelsi, i filantropi più illuminati o i santi più misericordiosi ne avesse almeno intuito l'importanza. E che sia perciò difficile definire «conquista» ciò che fino a qualche decennio fa nessuno voleva proprio conquistare.

Il caso è davvero unico. Mentre valori come la pace, l'abbondanza, la sicurezza, la salute e le arti sono da sempre riconosciuti e desiderati, la massima diffusione dell'istruzione scolastica è invece un obiettivo tutto contemporaneo, inedito eppure già universalmente percepito come «eterno».

La sua forza dogmatica trascina tutti, persino i più conservatori, che pur criticando la scuola di oggi perché ostaggio delle ideologie del momento, professionalizzata, assediata da burocrazia e informatica, dimentica delle radici classiche e cristiane ecc. non dubitano invece della necessità che tutti ci debbano andare. Bisogna tornare indietro, sì, ma non troppo!

Il tema offre insomma un punto di osservazione prezioso sull'eccezione della modernità e invita a sondarne le credenze inespresse. Dal punto di vista popolare l'istruzione è associata alla sicurezza economica, al potere e al prestigio sociale.

Questo nesso era percepito anche in passato, sennonché la causalità che sottende è inversa rispetto a ciò che di norma si intende: i ricchi erano istruiti in quanto ricchi, non ricchi in quanto istruiti. Sperare di ascendere alle classi superiori in virtù dell'istruzione sarebbe stato come credere di farsi monaco indossando l'abito proverbiale, o re appoggiando le natiche sui cuscini di un trono.

I tanti dotti che hanno dato lustro alla storia erano miseri o abbienti, disprezzati o riveriti, servi o padroni indipendentemente dalla loro dottrina: il successo mondano dipendeva dalla famiglia, dal coraggio, dalla scaltrezza o dal crimine, mentre gli eventuali studi compiuti erano casomai una conseguenza degli agi, non la causa.

La prospettiva contemporanea distorce questa verità storica assumendo a norma gli anni eccezionali dell'alfabetizzazione universale durante i quali, però, il miglioramento delle condizioni materiali ha interessato tutti indipendentemente dal grado di istruzione e il - relativamente minimo - vantaggio sociale degli istruiti è stato imposto ex lege con l'introduzione e l'estensione del valore legale dei titoli.

Lauree e specializzazioni sono così diventate trofei da remunerare affinché si autoavverasse la profezia dello studio che «conviene».

Da un'indagine di recente pubblicazione emerge effettivamente una correlazione tra laureati e percettori di redditi medio-alti nei comuni italiani, ma più che la significatività tutto sommato modesta di questo nesso (28,5%), colpisce il fatto che, con pochissime eccezioni, i comuni che si collocano sopra la linea di tendenza dei redditi appartengono alle regioni settentrionali mentre quelli del centro-sud ricadono puntualmente al di sotto di essa, a prescindere dal tasso di lauree. Ciò suggerisce che la ricchezza pregressa e contestuale conta più del grado di istruzione.

L'esperienza conferma che anche nell'irripetibile periodo post-bellico i più benestanti erano istruiti perché provenivano da famiglie già benestanti o si posizionavano in contesti già floridi.

Il secondo problema è che anche la moneta dell'istruzione, come tutte le monete, è tanto più preziosa quanto più è scarsa. Se non all'opulenza e all'aristocrazia, gli scolarizzati del passato potevano almeno aspirare ai mestieri più comodi del segretario, dell'aio, del cerusico, dell'ingegnere o del notaio, ma ciò avveniva appunto in virtù del fatto che pochi potevano ricoprire quelle posizioni. È dunque evidente che un tale vantaggio decade se la scuola è imposta a tutti.

Negli ultimi decenni, è vero, le società industrializzate hanno creato un'offerta senza precedenti di posizioni tecnico-scientifiche e amministrative, ma le ferree leggi dell'inflazione hanno presto ripreso il loro dominio. Invece di attenuarsi nell'abbondanza, il vantaggio scolare ha finito per spostare i suoi requisiti sempre più in alto allungando insensatamente gli studi con l'obiettivo taciuto di mantenere competitiva l'arena.

Per restare negli ambiti a me noti, oggi per insegnare la musica non è più sufficiente conoscerla e praticarla con perizia, ma bisogna anche sostenere esami di psicologia, informatica, recitazione, filologia, diritto, fisiologia (sic) ecc. (…).

Dove ieri non erano richiesti studi, oggi bisogna avere il diploma; dove bastava il diploma ci vuole la laurea; dove la laurea, la specializzazione; dove la specializzazione, il master, il dottorato, la «formazione continua» ecc. alimentando una tenia che ostacola e reprime le forze più fresche della società.

Mentre milioni di persone trascorrono (se va bene) un terzo delle loro esistenze abbuffandosi di nozioni irrilevanti, inutili e destinate a un oblio quasi istantaneo, eserciti di laureati reclamano senza successo posizioni e gratifiche all'altezza delle loro fatiche, vittime di una sciagurata retorica che rappresenta lo studio come un merito, un diritto e un dovere, mai invece come uno strumento tra i tanti, qual è.

Una credenza antica (lo si è visto, poco fondata) è così degenerata in ideologia: chi più studia n'importe quoi è più «bravo» e la società gli deve un premio. Da qui discende una cascata di effetti negativi. Il grado di istruzione si è imposto tra gli obiettivi più iconici delle lotte per l'emancipazione di classe, sennonché nel ripetere la solita inversione causale si è certificato il primato sociale degli istruiti invece di reclamare parì dignità a tutte le funzioni sociali, come sarebbe stato più intelligente e più giusto fare.

Nell'implicare che chi ha un'istruzione è migliore, si è certificato che chi ne è privo è peggiore. La storia degli ultimi decenni ha fatto almeno economicamente giustizia di questo equivoco tracciando una parabola in cui ieri i protagonisti delle classi meno scolarizzate si sono giovati dell'accresciuta sicurezza economica (quindi non dell'istruzione) per far sì che i propri figli accedessero agli studi superiori, mentre oggi quei figli, ottenuti i titoli, si trovano a godere di condizioni materiali mediamente peggiori di quelle dei loro genitori. 

Conquistato il symbol, hanno perso lo status. Arraffato il fumo, gli è sfuggito l'arrosto. >> (continua)

IL PEDANTE

4 commenti:

  1. Lo status symbol è un concetto oggi dimezzato, sono d'accordo con questo brillante pedante. È rimasto il symbol mentre lo status è andato a farsi benedire. Nonostante ciò il simbolico continua, chissà perché, ad avere importanza sebbene non materiale: con i soldi una laurea si può facilmente acquistare ed essere dottori, con i soldi si può scrivere un libro ed essere scrittori. Tutto fumo certamente, l'arrosto è altrove. È per esempio nelle ricchissime lobby che condizionano la politica, a Bruxelles come in altre parti del mondo. Chi poi sui libri ha studiato davvero pensa che valori come libertà, democrazia e rispetto dell'uomo contino ancora qualcosa. E chi governa fa di tutto per farglielo credere.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Agostino, sono contento che le considerazioni iniziali dell'autore ti siano piaciute.
      Tu sei 'del mestiere' e quindi puoi cogliere ogni sfumatura del sui discorso.
      Nei prossimi post seguiranno altre considerazioni, tutte interessanti e non banali.
      Quello dell'istruzione pubblica è un tema fondamentale, per una società, ma la gente non ne è sempre consapevole.

      Elimina
  2. Il Pedante ci ha intrattenuti "brevemente" con una prolissa, a volte dotta, analisi dei pro e contro della scuola. Io aggiungerei di quella dell'obbligo, per limitarsi al nostro "evoluto" quadrante terrestre.

    Senza dilungarsi troppo, ovvero confutare o sposare le tesi del cennato Pedante, aggiungerei la scuola esser non altro che un luogo di istruzione, formazione della pecora perfetta, posto i futuri pastori ricevono ben altre istruzioni,in ben altre scuole, accademie, seminari eccetera. Le elites più retrive sono quelle cui è demandato il compito di cui sopra, segnatamente quelle di matrice sionista e askenazita.

    Parere personale.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Mauro, che i rampolli delle elites abbiano una istruzione (privata) più specialistica degli altri è logico, ed anche inevitabile.
      Mi chiedo però se, oltre alle cognizioni ed alle competenze necessarie per svolgere poi il loro 'mestiere' da adulti, abbiano anche una visione più realistica e profonda di come gira il mondo (cioè se siano dei 'fenotipi consapevoli'), o se siano anch'essi vittime della retorica comune.
      Non ne sarei così sicuro.

      Elimina