Continua qui il post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (seconda parte di quattro - LINK).
LUMEN
(segue) << L'istruzione scolastica a tutti i costi e per tutti ha appiattito i criteri di valore, le prospettive, le vocazioni. Oggidì è quasi automatico subordinare la qualità umana e sociale di un individuo ai suoi successi scolastici, anche in termini predittivi: chi non studia, si pensa, «farà una brutta fine».
Mai prima d'ora si era imposto un canone così angusto e monomaniaco, un one size fits all di matrice così tanto zootecnica e così poco umanistica. Ciò comporta innanzitutto uno stigma precoce a carico di chi, per ragioni personali o ambientali, è poco vocato agli studi, avverando così la profezia della sua «brutta fine» o quantomeno condannandolo ad anni di frustrazioni e fallimenti che avrebbe potuto meglio impiegare in attività e apprendistati più consoni alle sue inclinazioni.
Se è da apprezzare lo sforzo dei pedagoghi di «valorizzare» i talenti di ognuno, non si può fingere che questo sforzo cozzi contro il dogma della scuola dell'obbligo come luogo formativo par excellence dove ultimamente lo stigma si è addirittura medicalizzato: ora la scarsa attitudine all'apprendimento integra una gamma di «disturbi specifici» (DSA), sicché chi non si conforma ai programmi è «disturbato» oltreché inadeguato, con le immaginabili conseguenze sulla percezione di sé e del proprio futuro.
Dall'altro lato, e per gli stessi motivi, la scuola si è imposta come unica concepibile prospettiva di sviluppo dei giovani. È altrettanto comune ritenere che un adolescente minimamente dotato di intelletto e di volontà debba procedere a ogni costo negli studi, ché altrimenti sarebbe «sprecato».
Questa visione appare logica ma è tragicamente disfunzionale, perché implica di converso che tutte le professioni e i ruoli che non richiedono una scolarizzazione canonica – ma ciò nondimeno perizia, esperienza, passione, vocazione, serietà, puntualità, dedizione ecc. – siano destini di ripiego da lasciare a chi non possiede i requisiti minimi per ripetere quattro nozioni: «se proprio non vuoi studiare, impara almeno un mestiere!».
Ciò implica fatalmente un abbassamento del numero e della qualità degli addetti ai settori manuali e artigianali, con la nota conseguenza di faticare vieppiù a reperire professionisti capaci e di vedere mestieri indispensabili scomparire o finire nel monopolio di improvvisati e disonesti.
Simmetricamente, si gonfiano invece le fila degli «studiati» per inerzia, per il solo fatto cioè di possedere una qualche dote mnemonica e metodica ma senza una vocazione reale. Costoro, oltre a sottrarre forze e intelligenze ai mestieri stupidamente detti «umili», trovano di rado una collocazione professionale coerente con i loro studi e finiscono per ingrassare il già bulimico terzo settore e i connessi «bullshit jobs» descritti da David Graeber.
Non si può ignorare il nesso potente tra la matta e disperata corsa agli studi superiori purchessia e la crescita metastatica degli impieghi improduttivi «di concetto» che assorbono i frutti di quella corsa per darle un senso e arginare la disoccupazione. Ecco proliferare gli apparati burocratici, le procedure, le consulenze, gli organi di supervisione e supporto, i promotori, i facilitatori, i controllori, i pianificatori, i formatori, i relatori, i certificatori, i sanzionatori, i digitalizzatori, le facoltà universitarie e le funzioni aziendali dai nomi inglesi che non esistevano fino all'anno prima.
Questa massa plumbea di «competenze», che non avrebbe il benché minimo mercato se non fosse imposta per legge, pesa come un cadavere sul residuo mondo produttivo e lo soffoca con oneri procedurali, consulenziali e formativi al solo scopo di mantenere in vita se stessa. Se è dunque vero che oggi bisogna studiare di più perché «è tutto più complesso», quell'inutile complessità è anche figlia e funzione dell'inutile proliferare degli studi.
Altre sono le apologie di ordine prettamente ideale. Secondo una tesi classica, una popolazione largamente istruita sarebbe più consapevole dei determinanti tecnici e culturali che influenzano la propria esistenza e riuscirebbe così a operare scelte migliori per sé e per la collettività. La complementarietà di democrazia e istruzione è iscritta nelle civiltà costituzionali: affinché il popolo eserciti una sovranità effettiva occorre che possegga gli strumenti necessari per acquisire e interpretare le informazioni che riguardano il governo dello Stato.
Ciò varrebbe anche quando la sovranità gli è negata, perché le nozioni e il metodo appresi negli anni scolastici lo proteggerebbero dalle mistificazioni del potere. L'istruzione dovrebbe dunque essere imposta a tutti per il bene di tutti, indipendentemente dai suoi vantaggi materiali diretti. Per quanto splendidi a parole, anche questi argomenti scricchiolano nei fatti.
Si potrebbe obiettare che: 1) a differenza di quella elitaria del passato, l'odierna istruzione superiore di massa fornisce prevalentemente contenuti tecnici mentre quella di base, inclusi i licei, offre una propedeutica blanda e dispersiva. La scuola moderna non produce dotti né tantomeno saggi, né potrebbe mai farlo dovendosi serialmente rivolgere a moltitudini eterogenee, sicché gli istruiti dei tempi nostri imparano poco di tutto nelle scuole preparatorie e tutto di poco nelle università. I più istruiti sono tecnici di alto livello, conoscono il come ma non il cosa, ed è perciò del tutto fuorviante il paragone con la vastità, la profondità e la completezza degli antichi 'cursus studiorum' e la consapevolezza di sé e del mondo che vi si acquisiva.
In quanto alla democrazia, 2) la diffusione dell'istruzione a tutti i livelli è stata perseguita con successo anche da Paesi non democratici come la Cina, le monarchie del Golfo, l'Unione Sovietica e le nazioni a est della cortina di ferro, senza che ciò ne abbia intaccato i regimi, mentre 3) nel mondo «libero» proprio la stagione dell'alfabetizzazione universale e della democratizzazione dell'accademia ha visto vette di propaganda, di menzogna pubblica e di impoverimento dialettico mai sperimentate prima.
Gli imparati dell'Occidente hanno creduto senza batter ciglio alle provette irachene, alle fosse di Tripoli, alle ciarle scientistiche, ai predicozzi dei ragionieri e insomma a ogni favola scodellatagli dai giornali. Né si può proprio dire che la maggiore istruzione abbia vivacizzato lo scambio culturale e moltiplicato gli apporti al sapere. «Negazionista» e «revisionista» sono solo alcuni degli epiteti con cui si tappa la bocca di chi osa applicare l’osannato «metodo critico» alle nozioni gradite ai potenti.
Mai tanto quanto nell'epoca in cui tutti vanno a scuola si elargiscono accuse di ignoranza e di analfabetismo «funzionale» (non potendo più invocare quello 'stricto sensu') e l'ingiunzione di credere fideisticamente agli esperti, cioè a chi ha studiato di più. Sennonché anche il primato culturale di questi ultimi è funzione dei giochi di forza e vale solo se è asservito all'opinione «giusta». Chi la pensa diversamente, fosse anche un premio Nobel, precipita nello stesso girone degli incompetenti e riceve sberleffi, richiami, radiazioni, sanzioni. Questa è la condizione della civiltà più scolarizzata di sempre, questi i suoi frutti di libertà, pluralità, indipendenza di giudizio.
Più in generale, 4) se davvero gli apparati di potere considerassero l'istruzione delle masse una pericolosa incubatrice di consapevolezza e di critica che limita il loro arbitrio, perché vorrebbero promuoverla fino a renderla obbligatoria? Non sarebbe più logico che la vietassero, o almeno che non la incoraggiassero? E se davvero la scuola desse agli umili gli strumenti per insidiare i privilegi di ricchi e potenti, perché questi ultimi non la boicottano ?
'Summa quaestio', si capisce, che il lettore non mancherà di applicare anche al giornalismo, alla libertà di parola, al mercato, al processo elettorale... >> (continua)
IL PEDANTE
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