domenica 2 novembre 2025

Governanti e Governati – 2

Si conclude qui il post di Lorenzo Mesina, tratto da Pandora Rivista, sui rapporti tra Democrazia ed Elitismo (LINK) (seconda ed ultima parte).
LUMEN

(segue)

<< L’indagine di Gaetano Mosca sulle élite nacque nel corso di un’analisi approfondita del parlamentarismo, delle dinamiche sottese al suo effettivo funzionamento e del suo intreccio con la democrazia.

Consapevole dell’origine aristocratica del parlamentarismo inglese, Mosca ne ripercorre le vicende che lo hanno reso adeguato alle rivendicazioni della classe borghese in espansione contro i vecchi ceti dominanti. Mediante l’uso di principi universali (libertà, uguaglianza e fratellanza) la borghesia ha coinvolto il popolo nella sua ascesa al potere, legittimandosi come rappresentativa di tutta la nazione e non come classe particolare.

Dall’analisi di Mosca emerge la differenza non solo storica ma anche logica tra parlamentarismo e democrazia, tra governo parlamentare e governo del popolo: la legittimazione democratica del parlamento non è che la formula politica con cui un’élite cela la realtà effettiva del proprio potere. Contrariamente a quanto rivendicato dalle teorie liberali e democratiche, ad essere rappresentati in parlamento non sono gli interessi generali della nazione ma gli interessi particolari del ceto politico o, peggio, dei suoi singoli membri.

La ricca riflessione condotta da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere si confronta con la scienza politica élitista con l’intenzione di superare le sue obiezioni alla democrazia e al socialismo, pur conservandone la carica critica nei confronti della declinazione liberale del razionalismo politico moderno. Le critica gramsciana all’elitismo si inserisce nell’orizzonte di una scienza politica integralmente storicizzata e incentrata sul concetto di egemonia, come categoria generale della politica e della storia. Obiettivo di Gramsci è quello di superare dialetticamente la teoria delle élite, sviluppandola in una prospettiva radicalmente democratica.

È soprattutto sulle opere di Gaetano Mosca (e in misura minore quelle di Michels e Pareto) che ricade l’attenzione di Gramsci. Le sue critiche riguardano sia l’impianto analitico della teoria moschiana sia il suo implicito orientamento politico conservatore. Gramsci condivide il principio secondo cui in ogni formazione sociale «esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti», come condivide il fatto che «tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali)».

Anche per quanto riguarda l’importanza delle minoranze organizzate nel dirigere la lotta politica Gramsci è sostanzialmente concorde con gli élitisti. La critica gramsciana all’elitismo riguarda il suo impianto positivista, che si limita a registrare meccanicamente determinati fatti e processi per poi elevarli a ‘leggi’ immutabili della politica e della storia. Tale approccio risulta funzionale a giustificare l’orientamento conservatore e oligarchico dello stesso Mosca e della borghesia italiana, interessata a mantenere le disuguaglianze proprie di un assetto sociale autoritario.

Secondo Gramsci, le analisi svolte da Mosca, sia nella Teorica sia negli Elementi di scienza politica (1896, 1923), accumulano in modo confuso grandi quantità di materiale storico e fanno uso di concetti vaghi. Quello che gli élitisti italiani non sono in grado di comprendere sono la natura e le dinamiche delle élite nel momento in cui le masse irrompono sulla scena politica europea, in particolare con l’avvento del primo conflitto mondiale.

Per questo Gramsci intende indagare la nascita, la selezione e le dinamiche politiche delle élite in una prospettiva essenzialmente storicista e dialettica. Questa deve elaborare spiegazioni pregnanti non solo dei processi storici attraverso cui si opera la partizione tra governati e governanti ma soprattutto comprendere le modalità grazie a cui i diversi attori sociali prendono coscienza di sé e del proprio ruolo politico attraverso la funzione dirigente degli intellettuali.

Nelle ricerche condotte nei Quaderni Gramsci non intende limitarsi a constatare la divisione tra governanti e governati, ma mira a comprendere quali siano quelle minoranze attive in grado di guidare in senso progressivo la società italiana. Per questo si domanda «come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti».

Formazione dei dirigenti che deve avvenire muovendo dal presupposto che la distinzione tra governanti e governati non rappresenti un destino immutabile, ma «sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni». Il problema che Gramsci si pone è quello di tutta la tradizione del pensiero dialettico, ossia quello di una compiuta mediazione reciproca tra i principali attori della politica moderna: il soggetto e lo Stato. Questi permangono contrapposti in modo conflittuale e contraddittorio nelle architetture istituzionali liberal-democratiche.

L’elitismo approfondisce tale contrapposizione e la utilizza in chiave conservatrice, affermando il carattere naturale e perenne della distinzione tra governanti e governati. Per Gramsci il partito politico (nello specifico, il partito comunista) si costituisce come quell’élite collettiva che rappresenta il punto di articolazione più avanzato per una compiuta mediazione tra società e stato.

Nel partito politico Gramsci individua il mezzo «più adeguato per elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di un’educazione delle masse capace di integrarle nel progetto di una piena autodeterminazione del corpo sociale («società regolata»).

Nel partito come «moderno Principe», l’esercizio delle funzioni politiche da parte delle proprie élite non è semplice dominio sulle masse. Al contrario costituisce quella combinazione di direzione, produzione di consenso, senso storico e organizzazione che ne determina la capacità egemonica nella società.

La prospettiva radicalmente democratica di Gramsci consiste nel tentativo di una mediazione progressiva delle contraddizioni proprie dello Stato moderno, liberale e borghese. Superamento della contrapposizione netta tra governanti e governati attraverso le funzioni organizzative di un partito che ha l’ambizione di porsi come l’elemento rappresentativo e direttivo dello sviluppo dei conflitti e delle forze sociali.

Il pensiero politico contemporaneo ha cercato di interpretare in maniera virtuosa il problema del rapporto tra élite e democrazia. Se per Mosca e Pareto il principio di uguaglianza proprio della democrazia moderna era di fatto smentito dalla continua presenza di élite nella società e se per Antonio Gramsci la soluzione del problema indicato dagli élitisti consisteva nel superamento dell’orizzonte liberal-democratico della Modernità, i teorici contemporanei (Lasswell, Wright Mills, Burnham, Schumpeter, Dahl, Sartori ecc.) hanno elaborato un concetto di democrazia che non ignorasse le critiche dell’elitismo alla teoria democratica ma che ne salvasse al contempo il valore in una prospettiva liberale.

Obiettivo comune a questi autori è stato mostrare, attraverso percorsi diversi, che la presenza di un pluralità di élite non compromette la possibilità di un sistema democratico. L’immagine di democrazia che ne emerge, specialmente dall’opera di Schumpeter, è quella di uno strumento istituzionale in cui avviene la competizione e la selezione di diversi gruppi di élite, elette attraverso il voto popolare.

La democrazia viene a configurarsi quindi come lo strumento per una competizione pacifica e per una selezione regolata costituzionalmente tra differenti élite. Ne emerge un’idea di democrazia in cui gioca un ruolo fondamentale la leadership: i cittadini dispongono del diritto di scegliere chi si assumerà la responsabilità di prendere le decisioni politiche e solo indirettamente cosa deciderà per la comunità intera.

Se, come ha suggerito Schumpeter, vi è democrazia dove vi sono diverse élite in competizione per il voto popolare, restano comunque aperte diverse questioni: la loro selezione, la fonte del loro potere e non da ultimo quella di una legittimazione che sia non unicamente formale e concentrata in un unico momento (le elezioni). In altre parole resta aperto il problema, già posto da Gramsci, della mediazione tra élite e società. >>

LORENZO MESINI

lunedì 27 ottobre 2025

Governanti e Governati – 1

Nonostante i suoi indubbi pregi, anche la Democrazia non può evitare i condizionamenti dell'elitismo, con la netta divisione tra coloro che governano ed i semplici cittadini, i quali, pur votando, non hanno mai il vero controllo dello Stato. 
Ce ne parla Lorenzo Mesini in questo lungo, ma interessante, articolo tratto da 'Pandora Rivista' (LINK)  (prima parte di due).
LUMEN


<< Punto di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone: governanti e governati, dominatori e dominati. I primi costituiscono una minoranza più o meno ristretta, che tende a concentrare nelle proprie mani una grande quantità di potere e di risorse (sia materiali che simboliche). I secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.

Obiettivo principale della teoria delle élite, a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, è stato quello di elaborare una giustificazione teorica a questa indiscutibile uniformità che, con forme diverse, attraversa la storia e le società umane. La distinzione tra governanti e governati non è tuttavia una scoperta della scienza politica tra Otto e Novecento, ma è sempre stata oggetto delle varie tradizioni che attraversano la storia del pensiero politico. (…)

Il pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica. Se l’ordine politico antico e cristiano era concepito come un ordine naturale (oggettivo e gerarchico) posto a stabile fondamento della politica, l’età moderna pensa invece l’ordine come prodotto umano e artificiale, fondato sull’attività razionale degli individui, soggetto al conflitto e al mutamento.

L’idea di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini. I grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

L’assenza di un ordine naturale tra gli individui costituisce il problema da cui muove il pensiero politico moderno: la naturale uguaglianza tra gli uomini è infatti foriera di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra omnes dello stato di natura). La necessità dell’ordine politico nasce quindi dall’esigenza di difendere l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli uomini, uguaglianza che deve essere tutelata dai suoi stessi effetti collaterali.

Attraverso il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge universalmente valida al suo interno. Gli autori del potere (gli individui) tuttavia, non lo esercitano in maniera diretta, ma attraverso istituzioni rappresentative (il sovrano rappresentativo o un’assemblea parlamentare) che sono superiori a coloro che rappresentano. Gli autori del potere non coincidono quindi in maniera diretta con i suoi attori (le istituzioni rappresentative).

Questo elemento di disuguaglianza all’interno del corpo politico moderno non deriva da alcuna superiorità di carattere ontologico o naturale ma è di carattere prettamente funzionale, volta a garantire l’unità dello Stato. In linea di principio nessuna distinzione sociale deve giustificare alcuna distinzione politica, dato che la politica è il prodotto della razionalità comune di cittadini uguali. A esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo interno.

Ovviamente nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche, amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione reciproca.

Il pensiero politico moderno e la sua idea di democrazia (sia nella sua versione liberale che socialista) traggono la propria forza da: a) l’idea che nessuna differenza pre-politica (naturale o sociale) possa giustificare in linea di principio la superiorità politica di nessun cittadino, b) la necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati. (...)

L’importanza della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello Stato. Per il pensiero politico moderno risulta infatti illegittima ogni forma di ordine politico in cui i cittadini soggetti al potere non ne siano al contempo gli stessi autori.

Legittimo è quel potere che nasce e si concepisce come autogoverno di cittadini uguali, obbedienti a leggi universali. A questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto meno a livello teorico. Ogni forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata dispotica o tirannica.

Nei confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite (Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica. Muovendo dalla constatazione che in ogni contesto sociale ad esercitare il potere sono sempre gruppi ristretti, i teorici delle élite mostrano come la storia e il reale funzionamento delle istituzioni e della politica smentiscano di fatto la teoria liberale parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le dottrine socialiste.

Gaetano Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della storia e della politica sono sempre state le élite. La distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della politica. La dinamica storica consiste per Mosca essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per assicurarsi maggior potere.

Nella Teorica dei governi e governo parlamentare (1883) si sottolinea come ogni governo consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si impone su una maggioranza divisa e disorganizzata. Mosca distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi ambiti della società.

Il fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali classificazioni delle forme di governo. Le principali classificazioni tradizionali, quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere sotto le critiche di Mosca. Le classiche forme di governo non sono semplicemente il risultato di classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la maschera legale dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di persone esercita effettivamente il potere.

Mosca è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei governati. Con la teoria della formula politica Mosca intende individuare quelli che a suo avviso sono i principi astratti che consentono ai governanti di giustificare il proprio potere, in accordo con le convinzioni più diffuse nella società. Le ‘formule politiche’ non costituiscono semplici mistificazioni, ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la propria obbedienza richiamandosi a norme generali.

Mosca riconduce la molteplicità di formule politiche a due principi: uno soprannaturale e uno (apparentemente) razionale. Democrazia è per Mosca solo una delle formule politiche razionali con cui determinate élite giustificano il proprio potere. Il principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura oligarchica di ogni governo.

Al di sopra delle molteplici formule politiche, per Mosca c’è sempre il potere di un’élite. Anche quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti). Queste, lungi dall’essere promotrici di emancipazione, sono le effettive detentrici del potere. >>

LORENZO MESINI

(continua)

martedì 21 ottobre 2025

I Percorsi della Violenza

Il post di oggi è dedicato a Randall Collins, un sociologo americano specializzato nell'analisi della violenza umana. Tra le sue opere più importanti tradotte in italiano, possiamo citare “Violenza – una analisi sociologica”.
Secondo Collins il conflitto è socialmente inevitabile a causa della distribuzione ineguale del potere, e distingue tre ambiti principali di questa disparita: il mondo del lavoro (in cui la società si divide in classi); i ceti sociali (in cui le persone si dividono per età, sesso, appartenenza etnica, livello culturale) e l'arena politica (in cui i partiti e i movimenti si contendono il potere istituzionale).
Per fortuna, sostiene Collins, gli uomini non sono naturalmente violenti, pronti ad aggredirsi al minimo pretesto. Questa idea è un “mito” alimentato dal cinema, dalla televisione e dai romanzi.
In realtà l’uomo subisce una grande tensione emotiva tutte le volte che è in procinto di aggredire o di essere aggredito e quindi, affinché la violenza si verifichi in modo effettivo e (potenzialmente) letale, devono verificarsi alcuni particolari presupposti.
Il testo che segue è stato tratto dal web, con l'aiuto di Copilot.
LUMEN


<< La violenza è spesso percepita come un’espressione primitiva dell’essere umano, una pulsione che emerge in condizioni di stress, rabbia o conflitto. Tuttavia, il sociologo americano Randall Collins ci invita a ribaltare questa visione. Nella sua analisi microsociologica, la violenza non è affatto spontanea: è rara, difficile da attuare e, nella maggior parte dei casi, inefficace.

Collins sostiene che gli esseri umani non sono naturalmente portati alla violenza, ma che essa si manifesta solo quando si creano condizioni specifiche che permettono di superare una forte barriera emotiva.

Questa barriera, che potremmo definire come una sorta di “tensione da confronto”, è ciò che impedisce alla maggior parte delle persone di agire violentemente, anche quando provocate. La paura, l’ansia, l’incertezza e il senso di colpa sono emozioni che bloccano l’aggressione diretta.

Per questo motivo, la violenza fisica è spesso goffa, esitante, e si risolve in gesti maldestri o in minacce verbali. Solo in alcune situazioni — quando l’ambiente, il contesto sociale o la dinamica interpersonale lo permettono — la violenza diventa “competente”, cioè efficace e portata a termine.

Uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Collins è la sua attenzione agli schemi situazionali che facilitano la violenza. Tra questi, spicca il cosiddetto “effetto cecchino”, una dinamica in cui l’aggressore si concentra esclusivamente sull’aspetto tecnico dell’azione: la mira, la postura, il respiro, la gestione dell’arma.

In questo stato, la vittima non è più percepita come un essere umano, ma come un bersaglio astratto. L’atto violento si trasforma in un esercizio di precisione, una performance tecnica che distacca l’aggressore dalle conseguenze morali del suo gesto. È una forma estrema di deumanizzazione, favorita da contesti militari, paramilitari o tecnologici.

La guerra moderna offre numerosi esempi di questo schema. L’uso di droni, missili teleguidati e bombardamenti a distanza permette di colpire senza vedere direttamente la vittima. La distanza fisica diventa distanza emotiva: non c’è contatto visivo, non c’è interazione, non c’è riconoscimento dell’altro.

Collins sottolinea che durante la Seconda Guerra Mondiale, solo una minoranza dei soldati americani sparava con l’intento reale di uccidere. La vicinanza al nemico rendeva l’atto troppo carico di tensione. La violenza, per essere attuata, ha bisogno di essere “raffreddata”.

Ma non è solo la distanza a facilitare l’aggressione. Collins identifica altri schemi che riducono la barriera emotiva. Uno di questi è l’attacco ai più deboli: quando l’aggressore percepisce un vantaggio netto, il rischio di resistenza o ritorsione si abbassa, e la violenza diventa più probabile. È il caso del bullismo, della violenza domestica, delle aggressioni a persone isolate. In questi contesti, l’asimmetria di potere crea le condizioni favorevoli all’azione violenta.

Un altro schema è la ritualizzazione della violenza. In alcune situazioni — come le risse tra tifosi, i duelli tra adolescenti o le sfide tra bande — l’aggressione segue un copione, un codice non scritto che legittima l’atto. La presenza del pubblico, l’attesa dello scontro, la pressione sociale contribuiscono a creare un clima in cui la violenza è non solo accettata, ma attesa. Collins parla di “duelli ritualizzati”, dove l’interazione violenta è quasi teatrale, e dove l’obiettivo non è tanto ferire, quanto affermare il proprio status.

Anche l’inganno gioca un ruolo cruciale. L’aggressione a sorpresa, l’imboscata, il tradimento permettono di evitare il confronto diretto. L’aggressore colpisce quando la vittima è impreparata, riducendo la tensione emotiva e aumentando l’efficacia dell’azione. È una strategia che si ritrova tanto nei conflitti armati quanto nelle dinamiche interpersonali.

Infine, Collins analizza il ruolo della desensibilizzazione. Attraverso l’addestramento militare, la propaganda, i videogiochi violenti o il linguaggio tecnico, l’individuo viene “allenato” a ignorare l’impatto emotivo della violenza. Frasi come “neutralizzare il bersaglio” o “eliminare la minaccia” sostituiscono il riconoscimento della sofferenza altrui. La violenza diventa routine, procedura, operazione.

In sintesi, Randall Collins ci offre una visione radicalmente nuova della violenza: non come impulso, ma come interazione sociale complessa, condizionata da fattori ambientali, psicologici e culturali.

La sua analisi ci costringe a ripensare il modo in cui interpretiamo il conflitto, l’aggressività e persino la guerra. In un mondo in cui la violenza è sempre più mediata da tecnologie, rituali e narrazioni, comprendere questi meccanismi diventa essenziale per decostruirli e, forse, per disinnescarli. >>

Dal WEB

giovedì 16 ottobre 2025

Il Femminismo Moderno

I limiti concettuali del femminismo moderno, così come si è evoluto nel tempo, analizzati dalla penna corrosiva di Uriel Fanelli (dal suo Blog - LINK).
LUMEN


<< Quando si parla del problema del “femminismo” di solito si commette l’errore di confondere almeno tre periodi del femminismo stesso. E come capita per ogni cosa, se andiamo a fondo scopriamo che anche all’interno di queste tre ondate troviamo differenze molto forti: sono differenze nel tipo di militanza, nel modo in cui la militanza si manifesta, e nelle istanze politiche che raccolgono il consenso verso questo argomento.

Quindi, voglio chiarire che il discorso si applica all’ultima ondata di femminismo, per come sta avvenendo in “occidente”, con le massime punte negli USA, i cui avvenimenti politici si riflettono inevitabilmente sul resto del mondo “occidentale”. (…)

Il mondo del femminismo moderno commette il catastrofico errore logico di confondere le condizioni sufficienti con quelle necessarie, quando parla del “Patriarcato” , ovvero del “privilegio maschile”.

Le femministe non fanno altro che notare un fatto: la stragrande maggioranza dei ricchi e potenti e’ di sesso maschile. Fin qui tutto bene. Da qui deducono che siccome i privilegiati sono maschi, allora tutti i maschi sono privilegiati.

Questa cosa non ha senso: se esaminiamo il numero di morti sul lavoro, scopriamo che il 97% dei morti sul lavoro sono maschi. Se esaminiamo i morti nelle scorse due guerre mondiali, scopriamo che se contiamo solo i soldati il 98% dei morti erano maschi, e solo includendo i civili scendiamo ad un misero 86%. Ora, questa affermazione dovrebbe contenere qualche sospetto in se’.

L’errore evidente e’ questo: il fatto che tutti i privilegiati siano maschi non implica che tutti i maschi siano privilegiati. (…) Si tratta di un errore catastrofico, perche’ le femministe di ultima ondata continuano a dire che “un genere opprime l’altro” partendo dall’assunto che tutti i maschi sono privilegiati.

Ma se sapessero usare la logica e distinguessero condizioni necessarie da condizioni sufficienti, la conclusione sarebbe diversa: “Esiste una elite di maschi la quale opprime, senza distinzioni, sia quasi tutte le donne che la stragrande maggioranza degli uomini”.

Questo e’ piu’ coerente con la nostra esperienza, per esempio quando contiamo i morti sul lavoro, o i morti in guerra. E’ difficile pensare che una classe di privilegiati vada volontariamente a morire: se tutti i maschi fossero privilegiati, a fare i lavori pericolosi ci andrebbero le donne.

Questa prima catastrofe logica e’ la ragione per la quale il femminismo non riesce ad ottenere quello che vuole. Alla classe dominante non basta fare altro che aizzare i rimanenti maschi contro le donne, e il potere delle femministe e’ facilmente bilanciato.

Questo errore, il confondere le condizioni sufficienti con quelle necessarie, e’ estremamente comune nella loro dialettica: quando dicono che tutti gli stupratori sono maschi in genere le femministe chiudono il discorso dicendo che “dunque ogni maschio e’ uno strupratore”, e cosi’ via. (…)

Un altro catastrofico errore che fanno le femministe odierne e’ quello di affidarsi all’intersezionismo come teoria che spiega le discriminazioni. L’intersezionismo dice che se siete, che so, lesbiche sarete vittima di pregiudizi perche’ siete lesbiche, mentre se siete neri sarete vittime di pregiudizi per il colore della pelle, quindi se siete lesbiche e nere allora possiamo calcolare il pregiudizio come combinazione lineare dei due.

Il problema di questa teoria e’ che, come tutta la sociologia anglosassone, non somiglia per nulla alla realta’. Se abbiamo una teoria , essa non deve spiegare solo quello che succede negli USA (a meno che non sia un modello della societa’ americana), ma deve spiegare quello che succede ovunque e in qualsiasi epoca. (…)

Se esistono piu’ condizioni per venire discriminati, si viene discriminati per la piu’ evidente. Esiste sicuramente una scelta da parte di chi perseguita su quale condizione usare, ma la somma descritta dagli intersezionisti e’ del tutto priva di riscontri nella realta’. Non abbiamo visto , sinora, xenofobi infuriati con gli immigrati perche’ omosessuali: la ragione e’ il colore della pelle. (…)

La conseguenza di questo errore e’ quella di costringere le persone a cospargersi di etichette. Ma tutto questo in realta’ non funziona per una ragione: il problema non sta nei motivi per i quali si viene discriminati. Il problema e’ che si viene discriminati. (...)

Se si intende partire dall’idea che tutti siano uguali sul piano dei diritti, allora tutte queste etichette sono inutili perche’ ci dicono soltanto quante possibili discriminazioni possono avvenire, ma non ci aiutano ad eliminarle: al massimo ci aiutano solo a contarle.

Se invece partiamo dall’idea che l’uguaglianza dei diritti sia l‘obiettivo ai fini pratici, allora tutte queste etichette non fanno altro che complicare la prassi, in quanto combattere la “discriminazione” come concetto non ha piu’ senso: occorrera’ combattere milioni e milioni di possibili discriminazioni. Un lavoro infinito. (…)

L’ultimo errore e’ quello di non affrontare bene il problema del potere. Il problema dell’ultimo movimento femminista e’ che si limita ad osservare la percentuale di donne che siedono in posizioni di potere per giudicare quanto “giusta” sia una societa’.

Questo approccio e’ catastrofico per diversi motivi. Il primo e’ che le posizioni di potere e di privilegio sono poche. Questo significa che e’ possibile pensare ad un sistema nel quale il 5% delle donne occupa TUTTI i posti di potere, e il 95% sono oppresse dal primo 5%. Esattamente come ora un 5% di maschi privilegiati opprime, oltre alle donne, anche il 95% di maschi rimanenti.

Il secondo motivo per cui e’ catastrofico e’ che dimentica un fattore: la felicita’, o se preferite il benessere. Se io vado a giudicare in quale paese le donne stiano meglio contando in quali paesi esse vivano in posizioni di potere, ovviamente otterro’ come risultato i soliti paesi scandinavi. Ma se andiamo a misurare in quale paese le donne si dicono felici, per esempio, il risultato cambia di molto, e troviami ai primi posti dei paesi che sono “sorprendenti”.

Il nodo del “potere” e’ il motivo per il quale nel paese piu’ “femminista” del mondo solo l’ 8% delle donne si dice femminista: poiche’ si tratta di donne che non ambiscono a posizioni di potere, non appoggiano delle istanze politiche che chiedono piu’ potere , come posti di responsabilita’ o altro.

C’e’ infine il punto segregazionista che e’ ancora peggiore. Il segregazionismo e’ quel fenomeno per il quale se io dico che un club non accetta donne perche’ facciamo “cose da uomini” vengo accusato di maschilismo, ma e’ possibile creare un club di donne che non ammette uomini perche’ “sono cose da donne”. (...)

La cosa che queste persone non capiscono e’ che, nel momento in cui hai creato un club ove non possono entrare gli uomini, hai anche creato un club di soli uomini: [ovvero] quello di coloro che non possono entrare nel tuo club per definizione.

Tutte queste catastrofi logiche non fanno altro che convincere le persone che questo “patriarcato” di cui parlano avra’ molto difetti, ma almeno e’ razionale. (…) E se oggi, nel paese di maggiore successo [gli USA - NdL], solo l’8% delle donne si dice femminista, esiste un problema di consenso, cioe’ un problema politico. >>

URIEL FANELLI

sabato 11 ottobre 2025

Pensierini - XCI

SOCIOLOGIA
La sociologia, pur essendo tecnicamente una scienza, ed avendo una storia ormai secolare, è ancora poco strutturata, con tanti diversi autori in ordine sparso. In particolare:
= La sociologia non ha un paradigma unico come la fisica o la biologia. Esistono paradigmi concorrenti: funzionalismo, conflittualismo, interazionismo simbolico, teoria critica, ecc., ma ognuno vale per sé.
= Ogni autore tende a privilegiare un livello diverso di analisi: macro (società), meso (gruppi), micro (individui), senza integrarli tra loro.
Questo è un limite molto serio, per una scienza, ma io credo che, a ben vedere, un 'testo base' di riferimento lo si potrebbe anche trovare.
La sociologia, infatti, studia il funzionamento della società, ma studia anche, necessariamente, il comportamento degli uomini che la compongono.
Ora alla base del comportamento umano ci sono, innanzi tutto, le spinte e i condizionamenti genetici, descritti splendidamente Richard Dawkins nel suo fondamentale IL GENE EGOISTA. Quindi, perché non partire da lì anche per la sociologia ?
In effetti qualcuno ci ha già provato a unire biologia e sociologia: è stato Edward O. Wilson, con la sua Sociobiologia, nella quale ha cercato di spiegare il comportamento sociale in chiave evolutiva. Ma è stato criticato, tra le altre cose, per il rischio di giustificare le disuguaglianze come “naturali” e quindi non ha avuto il successo che meritava.
Ecco quindi trovato il muro invalicabile che blocca la sociologia come scienza: è troppo facilmente criticabile per motivi politici e ideologici che non hanno nulla a che fare con la ricerca della verità.
La Sociologia parla di noi stessi, dei nostri difetti, dei nostri limiti, e siccome ci spaventiamo di quello che vediamo, cerchiamo di guardare altrove. Un vero peccato.
LUMEN


GENETICA E CULTURA
Tutti sono più o meno concordi nel sostenere che il comportamento umano sia un misto di genetica e di cultura, magari con l'aggiunta di un po' di casualità.
Le discussioni incominciano, però, quando si tratta di stabilire la percentuale reciproca dei due elementi, perchè alcuni affermano la prevalenza della cultura, mentre altri sostengono la prevalenza della genetica.
Io, si parva licet, sono un seguace della seconda categoria, cioè del primato della genetica, e la mia posizione può essere ben rappresentato dal famoso detto secondo il quale "tutte le strade portano a Roma", in cui, parafrasando, le strade sono la cultura, mentre Roma è la genetica.
Le strade sono tante, perchè tante e diverse sono le culture umane, ma tutte vanno a Roma, perchè l'obiettivo finale, cioè la spinta genetica, è uguale per tutti.
LUMEN


CANDID CAMERA
Ho notato che nei film più recenti la camera di ripresa si muove moltissimo. Anche nelle scene 'statiche', dove gli attori sono sostanzialmente fermi, la camera non è ferma e fissa (perché montata su un supporto), ma leggermente in movimento come se fosse portata a mano o a spalla.
La cosa, purtroppo, è voluta ed uno dei motivi principali, oltre ad una discutibilissima scelta stilistica, sarebbe quella del realismo percettivo: il movimento leggermente instabile della camera, cioè, simulerebbe la percezione umana, rendendo la scena più “vera” e coinvolgente.
Ora, questo non è assolutamente vero, perchè il nostro sistema sensoriale (occhi, nervi e cervello) è capace di stabilizzare con molta efficienza anche le scene in movimento.
Il cervello, infatti, riesce a compensare i micro-movimenti della testa e degli occhi grazie a meccanismi come la stabilizzazione vestibolare e la percezione selettiva; e questo ci permette di avere una visione fluida anche mentre camminiamo o ci muoviamo.
Quindi, dire che la camera a mano “riproduce la visione umana” è più una giustificazione stilistica che una verità biologica.
In realtà, quello che molti percepiscono di fronte alle riprese in movimento (quorum ego) è semplicemente un fastidio cognitivo, cioè un elemento di disturbo che può distrarre o addirittura provocare nausea.
Per fortuna, a quanto ho letto, molti registi contemporanei stanno rivalutando l’uso della camera statica per motivi artistici e narrativi. Speriamo bene.
LUMEN


IL MONDO DI MONTALBANO
Perchè il commissario Montalbano, il personaggio creato da Andrea Camilleri, ha avuto così tanto  successo, non solo a livello televisivo, ma anche letterario ?
Perchè il suo mondo è una sorta di commedia dell’arte all’italiana, con i personaggi fissi e ripetitivi che fungono da maschere eterne e che il lettore riconosce subito.
L'agente Catarella è un personaggio assurdo (è impossibile che un pubblico ufficiale, anche se di modesto livello, sia sgrammaticato in quella maniera), ma piace perchè fa sentire lo spettatore superiore, e questo meccanismo funziona sempre.
La fidanzata lontana è un personaggio altamente improbabile, ma serve per le litigate.
Il vice Augello, eterno dongiovanni, serve per le scenette piccanti con le donne giovani e piacenti.
Le quali donne in Montalbano sono solo di due categorie: o ninfomani assatanate (da letto) o domestiche scrupolose (per cucinare e pulire la casa). Evidentemente Camilleri aveva una opinione molto limitata dell’altro sesso, perchè mancano totalmente le sfumature.
Alla fine però devo ammettere che la lettura risulta piacevole, perchè i dialoghi sono eccezionali, il ritmo eccellente e i colpi di scena non mancano (anche se le trame gialle sono modeste).
LUMEN

lunedì 6 ottobre 2025

Bandiere per Gaza

A parziale completamento del post precedente, pubblico le considerazioni, molto profonde, di Jacopo Ascenzio sulla solidarietà occidentale al popolo palestinese.
Il testo è tratto dalla pagina Facebook “Termometro Geopolitico”.
LUMEN


<< Le recenti mobilitazioni di piazza, innescate dall'intercettazione della Global South Flottiglia da parte di Israele e più in generale dalla tragedia di Gaza, hanno acceso un vivace dibattito sul ruolo delle giovani generazioni e delle società occidentali nella difesa dei valori universali.

In Italia come in altre capitali europee, migliaia di persone — soprattutto giovani, ma non solo — sono scese in strada per invocare il rispetto del diritto internazionale, la pace e un'empatia solidale verso le vittime civili.

Le interpretazioni dominanti oscillano tra due estremi: da un lato, un'esaltazione idealistica che ritrae queste proteste come un'onda irrefrenabile di vicinanza autentica, con popolazioni pronte a tutto per i gazawi, mosse da un legame empatico profondo e incondizionato; dall'altro, una riduzione cinica che le banalizza come mera strumentalizzazione politica, orchestrata da agende occulte o interessi partitici.

Tuttavia, entrambe queste visioni appaiono parziali e fuorvianti, poiché oscurano la radice più profonda del fenomeno: una crisi interna alle società occidentali, dove la mobilitazione per Gaza funge da specchio di un vuoto valoriale e politico endemico.

A ben esaminare, infatti, l'adesione massiccia attorno alla questione palestinese non può essere ascritta unicamente a un'empatia spontanea verso le vittime di Gaza, non perché tale sentimento manchi, ma perché la distanza culturale, geografica e storica che separa i popoli occidentali dai palestinesi è talmente vasta da rendere improbabile che esso costituisca il propulsore esclusivo di piazze tanto affollate.

L'indignazione morale, per quanto genuina, si rivela insufficiente a galvanizzare folle in assenza di un legame di prossimità tangibile, capace di intrecciare il destino altrui al proprio.

Qui si affaccia un discrimine essenziale: nella storia dell'Occidente, le lotte autenticamente incisive non sono mai scaturite da un'astratta solidarietà verso popoli remoti, bensì da urgenze immediate e dalla determinazione a rivoluzionare la propria esistenza.

I grandi movimenti del Novecento — dalle rivendicazioni operaie alle insurrezioni studentesche — traevano linfa dall'esperienza quotidiana, incarnando battaglie per la giustizia che, pur universali nei principi, erano innanzitutto per sé stessi, per la propria comunità, per una metamorfosi concreta della società circostante.

Le odierne manifestazioni, al contrario, si accendono attorno a cause distanti, elevando la solidarietà a principio etereo e disincarnato: non è fortuito che le strade si colmino per Gaza, ma restino silenti di fronte a questioni interne più immediate, come se l'energia politica, priva di sbocchi concreti nella sfera nazionale o locale, defluisse verso un "altrove" emblematico.

Tale dinamica svela che l'epicentro delle mobilitazioni non risiede tanto nella tragedia palestinese quanto in un malessere strutturale delle società occidentali, afflitte da decenni da una condizione piatta e impoverita di valori concreti, mentre quelli astratti proliferano in un'abbondanza sterile.

L'Occidente ha smarrito la capacità di lottare per sé stesso e per la propria società, incapace di concepire alternative al presente, di immaginare un orizzonte diverso dal paradigma dominante.

Assente è il vero scontro sistemico interno, sostituito da controversie superficiali e astratte che sfiorano appena le fondamenta del potere e dell'ingiustizia; questa carenza genera una proiezione inevitabile, dove lo scontro e la lotta vengono esternalizzati, riversati su conflitti remoti che fungono da surrogato per un impegno negato nel proprio contesto.

Con il tramonto delle grandi narrazioni ideologiche, la politica si è contraffatta in mera amministrazione tecnica, in una burocrazia dell'esistente che ha prosciugato i canali di partecipazione autentica, lasciando le persone orfane di un bisogno profondo di ideali, valori e visioni trasformatrici, un bisogno che, non trovando appiglio nella realtà nazionale, si sublima in cause lontane.

Gaza, in questo senso, emerge come un catalizzatore simbolico, un pretesto per ravvivare, seppur fugacemente, il senso di appartenenza a una causa più ampia. Non intendo con ciò auspicare un ritorno dello scontro interno all'Occidente, bensì offrire un'interpretazione della realtà attuale, ricostruendo le cause di questo fenomeno per comprenderne la natura profonda.

Tuttavia, proprio in virtù di questa genesi deficitaria — radicata in un vuoto interno e nutrita da stimoli esterni —, tali mobilitazioni sono destinate a non produrre mutamenti politici profondi. Possono, certo, modellare il discorso pubblico, intensificare le pressioni sull'opinione dominante e inquietare i vertici del potere; ma difficilmente sfoceranno in un programma di rinnovamento sociale o strutturale, mancando di ancoraggio nell'esperienza quotidiana e nella volontà di alterare la propria condizione.

Peggio ancora, poiché non si potrà mai combattere per altri — lontani e sostanzialmente ignoti — con la stessa tenacia con cui si difende il proprio destino, questa lotta occidentale per Gaza è condannata a un progressivo affievolimento: anestetizzata dal trascorrere del tempo e da "toppe" temporanee come concessioni diplomatiche o narrazioni mediatiche attenuanti, svanirà senza lasciare traccia duratura, lasciando intatto il vuoto che l'ha generata.

In ultima analisi, l'Occidente ha abdicato alla facoltà di battersi per il proprio rinnovamento: svanita è l'idea di una società alternativa, di un'emancipazione collettiva, di una rivoluzione radicale; l'orizzonte di un mondo altro appare sigillato.

Eppure, l'essere umano serba un'esigenza irriducibile di valori, ideali e aspirazioni elevate, ed è proprio questa fame repressa a gonfiare le piazze, non Gaza in sé.

La catastrofe palestinese si trasfigura così in una valvola di sfogo per un'assenza cronica: quella, nelle società occidentali, di lotte autentiche per la propria condizione, sostituite da proiezioni effimere che mascherano, senza sanare, il deserto interiore. >>

JACOPO ASCENZIO

mercoledì 1 ottobre 2025

Appunti di Geo-Politica - (6)

GOTT MIT UNS
Questa faccenda che “Dio è dalla nostra parte” è vecchia come il mondo, ed è resa un po’ ridicola dal fatto che lo dicono in molti, ognuno con un Dio diverso, da diverse angolazioni, con obiettivi molto differenti, per cui i casi sono due: o Dio ha svariati conflitti d’interessi, oppure c’è troppa gente che lo tira per la giacchetta allo scopo di legittimare le proprie porcate.
La cerimonia di Phoenix in onore del defunto Charlie Kirk [assassinato durante un comizio] ci ha mostrato una sfumatura colossal della faccenda. (...)
La sensazione, vagamente straniante, era quella di trovarsi di fronte a un’adunata di estremisti religiosi un po’ invasati, senza turbanti o donne velate, ma con la guerra santa, quella sì. (...)
Si tratta di politica, ovvio, di una destra all’arrembaggio, di una manovra mediatica per eliminare ogni voce dissidente, di un’offensiva reazionaria a cui Dio dovrebbe fornire adeguata copertura.
Ma si tratta anche (...) di una voragine antropologica, come se la deriva dei continenti non fosse per niente in pausa, anzi, eccoli allontanarsi sempre di più.
Viene da chiedersi cosa diavolo abbiamo in comune – noi europei, magari addirittura laici – con un estremista creazionista texano armato fino ai denti, disposto a giurare che Dio lavora a tempo pieno per gli Stati Uniti.
Non molto, direi, non più che con un ayatollah iraniano o con un estremista indù.
ALESSANDRO ROBECCHI (dal suo sito)


STATO VIRTUALE
Ogni Stato deve avere un territorio e quello palestinese non ce l’ha.
Ce l’aveva nel 1947, quando l’Onu spartì l’area dal fiume al mare (28 mila kmq, pari a Piemonte e Val d’Aosta) in due Stati: il 56% a Israele (più ampio perché il 40% era il deserto del Negev), il 44 alla Palestina, Gerusalemme sotto l’Onu.
Ma nacque solo lo Stato ebraico: la leadership palestinese e i regimi arabi preferirono la guerra per distruggere Israele anziché edificare la Palestina.
Nel 1948 Cisgiordania e Gaza furono occupate da Giordania ed Egitto, mentre Israele prese tutta la Galilea e Gerusalemme Ovest.
Nel 1967 Israele vinse la guerra dei Sei Giorni e occupò Cisgiordania, Gerusalemme Est, Sinai e Gaza.
Nel 1973 Israele respinse l’ennesimo assalto arabo e nel ’78 fece pace con l’Egitto, che riebbe il Sinai, ma non rivolle Gaza. La Striscia restò occupata fino al 2005, quando Sharon ritirò truppe e coloni.
La Cisgiordania dal 1995 è divisa in tre zone: la A (il 18%) è amministrata dall’ANP, la B (il 22%) da Israele e ANP, la C (il 60%) da Israele.
La soluzione doveva essere temporanea, con un progressivo passaggio di consegne all’ANP. A cui nel 2008 Olmert [primo ministro di Israele] offrì più territori di quelli occupati nel ’67 e Gerusalemme Est capitale (6.260 kmq), ma Abu Mazen non firmò.
Poi arrivò Netanyahu. Che fermò il percorso di Oslo e poi lo annientò.
Ora la Striscia è rasa al suolo e il 42% della Cisgiordania è occupato da colonie ebraiche vecchie e nuove (+180% dal 2020). Avete mai visto uno Stato senza terra?
MARCO TRAVAGLIO (da Il Fatto Quotidiano)


UCRAINA DIVISA
L’Ucraina non è uno Stato etnicamente unitario, oggi non lo è più nemmeno geograficamente data la situazione cogente.
Il concetto sembra stia cominciando a passare anche in qualche scritto di analisti prestigiosi, che finalmente si sono decisi a scrivere quello che era già noto da decenni a chi si occupava della questione ucraina. (…)
Si parla di “Ucraine” quindi, al plurale, ammettendo che ne esiste più di una e non solo perché un pezzo dell’ex Ucraina è oggi occupata dai russi ma perché storicamente è così.
A chi privo di pregiudizi affrontava il problema etnico e linguistico dell’Ucraina in anni non sospetti, era evidente il profondo scollamento fra la parte est e la parte ovest del Paese.
Molti prevedevano che prima o poi i due tronconi si sarebbero separati. Certo si sperava che lo si facesse per via diplomatica e politica e non con una azione militare ma tant’è.
LUCIO CARACCIOLO  (da Limes/Apocalottimismo)


DENARO GLOBALE
Il denaro moderno viene creato come debito, immesso in circolazione quando le banche erogano prestiti. E il debito non è solo un contratto finanziario.
È una scommessa su un surplus futuro. Ogni dollaro preso in prestito oggi presuppone che domani si produrranno più beni, più energia, più capacità di rimborso, con interessi.
Ma se non fosse possibile? Abbiamo accumulato debiti finanziari su un mondo reale che non cresce altrettanto rapidamente. (…)
A livello globale [mondiale], il debito dichiarato ammonta a 345 trilioni di dollari, ma, se si considerano le passività fuori bilancio, il sistema bancario ombra e la leva finanziaria, la cifra probabilmente si avvicina ai 600 trilioni di dollari. Nel frattempo, il valore della valuta fisica statunitense è di soli 2.3 trilioni di dollari. (...)
Da una prospettiva biofisica, questi non sono solo numeri. Sono promesse di fornire beni e servizi reali in futuro: energia, manodopera, materiali.
Se questi input non si concretizzano, le promesse non saranno mantenute. Il sistema allora si adatterà attraverso l’inflazione, il default, la ristrutturazione o il collasso.
Lyn Alden ci ricorda che il debito si basa sulla fiducia, non solo tra individui, ma anche tra sistemi giuridici, istituzioni e contesti geopolitici. Tale struttura è ora visibilmente compromessa.
ART BERMAN (da Apocalottimismo)

giovedì 25 settembre 2025

La finta Ecologia

I problemi ambientali, a detta dei nostri governanti, sarebbero sempre prioritari nelle preoccupazioni e nelle scelte dei decisori pubblici.
Poi però, andando a guardare bene dietro la facciata, si ha l'impressione che quella ecologica sia solo una vernice esteriore e che il cuore dei provvedimenti resti di tipo BAU (business as usual).
Di questa pericolosa dicotomia tra il 'dire' ed il 'fare' ci parla Leonardo Mazzei, in questo interessante articolo tratto dal sito di Sollevazione (LINK).
LUMEN


<< [A febbraio], proprio mentre era in corso il summit parigino sull’intelligenza artificiale, 'la Repubblica' annunciava come niente fosse che lo sviluppo dell’IA nell’Ue porterà nei prossimi 5 anni ad un aumento dei consumi energetici del settore pari al 160%. Avete letto bene: centosessanta percento.

La previsione è che nel 2030 il solo consumo dei data center europei sarà pari a 287 Twh (miliardi di kilowattora). Un’enormità assoluta, un consumo pari a quello medio di 115 milioni di famiglie, superiore a quello complessivo della Spagna e piuttosto vicino (92%) a quello dell’Italia.

Ma come, da anni vige l’ossessione del risparmio energetico senza il quale il pianeta andrebbe a ramengo, da anni si smerciano solo lampadine ed elettrodomestici pensati per risparmiare qualche kilowattora, e adesso ci venite a dire che i consumi elettrici dovranno crescere all’impazzata per l’IA? E il “climate change” dov’è andato a finire?

Ora, sappiamo bene come certe ossessioni siano del tutto interessate. Sappiamo, ad esempio, come esse servano ai produttori di elettrodomestici per imporre sul mercato modelli più costosi e ad obsolescenza programmata più ravvicinata. Ma, pur sapendo tutto ciò, è tollerabile che chi ci parla di cambiamento climatico anche durante una partita di calcio, nulla abbia da eccepire sull’impatto ambientale dell’intelligenza artificiale?

Naturalmente, quel che vale per l’Ue vale anche per le altre potenze (Usa e Cina anzitutto) che partecipano alla folle corsa dell’IA. Una gara dove gli Stati Uniti faranno certo “meglio” di tutti. A Parigi il vicepresidente americano, JD Vance, ribadendo peraltro il rifiuto di ogni regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si è fatto forte del piano di investimenti Stargate sostenuto da Trump: 500 miliardi di dollari da spendere nei prossimi quattro anni.

Ma l’Ue non si tira certo indietro. Da qui l’annuncio della signora Ursula Pfizer von der Leyen di un piano europeo per 200 miliardi di euro, al quale si affiancheranno altre iniziative nazionali. Una su tutte quella annunciata da Macron per la Francia, con 35 nuovi data center da finanziare con 109 miliardi e da realizzare superando ogni vincolo classificandoli come “progetti di interesse nazionale”.

La disonestà intellettuale delle attuali oligarchie, specie quelle europee, è davvero disarmante. Auto elettriche, case “green”, la colpevolizzazione dei cittadini, la parola “sostenibilità” in ogni riga di ogni documento ufficiale, ed ora il via ad una corsa al consumo di energia elettrica senza precedenti. Il tutto senza nessuna autocritica, nessuna riflessione, nessun dibattito pubblico degno di questo nome. Si farà così perché ce lo chiede la “competitività”, questa folle religione che tutto spiana e distrugge.

Ovviamente, lorsignori ben comprendono la contraddizione in cui si van cacciando. E cercano di porvi rimedio con un’apposita narrazione. Il problema è che si tratta di una narrazione semplicemente demenziale, una roba che neanche un piddino medio potrebbe bersi del tutto.

Quel che vorrebbero farci credere è che i padroni dell’IA, a partire dai Paperoni della Silicon Valley, faranno fronte all’enorme quantità di energia elettrica di cui abbisognano con impianti assolutamente ecologici. E difatti alcuni giganti del settore, come Google e Microsoft, stanno già propagandando i loro progetti “sostenibili”. Come no? Basta crederci.

Ma prima di vedere i loro piani, è bene tornare un attimo sui numeri di questa folle partita. Partiamo dall’Unione europea. Qui già oggi i data center assorbono il 3% dei consumi complessivi, con alcuni paesi che stanno decisamente al di sopra (Olanda 5,4%, Irlanda 21%). Se la previsione al 2030 risulterà giusta, la quota di elettricità destinata all’IA sarà vicina all’8%. Ma questo, lo affermano tutti gli addetti ai lavori, non sarà che l’inizio.

Negli Stati Uniti, dove si è ovviamente più “avanti”, la quota di energia elettrica consumata dall’IA è al 4,4%, ma si pensa di arrivare al 12% già nel 2028. Insomma, la crescita (e la sua rapidità) sarà ben più forte negli Usa che in Europa. Basti pensare che il 12% americano equivarrà ad oltre 520 miliardi di kilowattora. E voi continuate a risparmiare 10 Kwh all’anno con la lavatrice di “nuova generazione” per “salvare il pianeta”…

Dulcis in fundo, arriviamo ora a come i boss dall’IA, che già si considerano i padroni del mondo, vorrebbero pure salvare se non proprio l’anima, almeno la loro faccia “ecologica” e “sostenibile”. Alla fine della fiera, lorsignori lo ammettono: al netto di mille discorsi “green”, la loro idea è quella di rilanciare il nucleare, magari ricorrendo ai mitici reattori SMR (Small Modular Reactors).

Di questi reattori si dice infatti un gran bene, soprattutto perché, almeno in occidente (ne esistono solo 2 in Cina ed altrettanti in Russia), nessuno li ha mai visti funzionare.

Secondo i fanatici dell’atomo, di recente tornati all'attacco anche in Italia, questi reattori risolverebbero ogni problema tipico del nucleare, dai costi (sempre più esorbitanti) alla sicurezza. E’ davvero così? Assolutamente no. Questo non è un articolo sul nucleare (...), ma una notiziola ci corre l’obbligo di riportarla.

Recentemente, uno studio di scienziati della Standford University e della University of British Columbia, ha analizzato la gestione e lo smaltimento dei rifiuti nucleari prodotti dagli SMR, con risultati tutt’altro che esaltanti. Lo studio precisa, infatti, che i reattori SMR produrranno più scorie radioattive dei classici reattori PWR. In particolare, il volume del combustibile nucleare spento (SNF) aumenterà di 5,5 volte, quello dei rifiuti ad alta attività (HLW) di 30 volte, quello dei rifiuti a bassa e media intensità (LILW) di 35. Bingo!

Il succo è che gli SMR non solo non forniscono alcun vantaggio rispetto ai reattori fin qui conosciuti, ma per certi aspetti sono pure peggio. Tra l’altro, il loro combustibile esaurito, contenente concentrazioni elevate di nuclidi fissili, comporterà nuovi problemi per lo stoccaggio e lo smaltimento.

Aggiungiamo infine una cosuccia. Gli SMR possono produrre al massimo 2 Twh all’anno. Dunque, solo per soddisfare le esigenze dell’IA che abbiamo visto, ce ne vorrebbero almeno 144 in Europa e 260 negli Usa. Rispettivamente in 5 e 3 anni, giusto per cominciare. Realistico, no? >>

LEONARDO MAZZEI

sabato 20 settembre 2025

Breve Storia del Potere

Richard Heinberg è un giornalista e saggista americano, autore di numerosi libri su questioni energetiche, economiche ed ecologiche.
Nel suo saggio “Potere: Limiti e Prospettive per la Sopravvivenza Umana”, prova a ripercorrere la storia del Potere nella società umana.
Dalla recensione editoriale: << Questa è la storia del potere: il potere dell'umanità sulla natura e il potere di alcune persone su altre.
In che modo l'Homo sapiens – una specie tra milioni – è diventato abbastanza potente da minacciare un'estinzione di massa e sconvolgere il clima della Terra? Perché abbiamo sviluppato così tanti modi per opprimerci l'un l'altro? Possiamo cambiare il nostro rapporto con il potere per evitare la catastrofe ecologica, ridurre la disuguaglianza sociale e scongiurare il collasso?
Intrecciando i risultati di un ampio raggio di discipline, 'Power' traccia come quattro elementi chiave si siano sviluppati per conferire agli esseri umani un potere straordinario: la capacità di creare strumenti, il linguaggio, la complessità sociale e la capacità di sfruttare fonti di energia — in particolare, i combustibili fossili. >>
Il libro (purtroppo) non è ancora disponibile in italiano, ma il sito di Apocalottimismo (LINK) ha pubblicato un lungo articolo di Richard Heinberg, da cui ho tratto questa breve sintesi.
LUMEN


<< Nel mio libro del 2021, "Power: Limits and Prospects for Human Survival", ho ripercorso come il potere sociale sia sorto tra gli esseri umani e come sia stato utilizzato nelle società grandi e piccole, antiche e moderne. (…) In esso sostengo che il potere fisico è essenzialmente la capacità di usare l’energia per fare qualcosa, qualsiasi cosa. Il potere sociale è la capacità di convincere altre persone a fare qualcosa.

Esistono due tipi di potere sociale: quello verticale (che va dall’alto verso il basso, basato su minacce e incentivi, con messaggi impliciti del tipo “Devi fare questo o altrimenti…” o “Se fai questo, io ti darò quello”) e quello orizzontale (che è cooperativo, basato sulla discussione e la negoziazione, con il messaggio implicito “Possiamo farlo insieme”).

L’umanità primitiva faceva affidamento principalmente sul potere sociale orizzontale perché le comunità, basate sulla parentela, erano minuscole e i prepotenti potevano essere banditi dal gruppo. Lo sviluppo dell’agricoltura e la capacità di immagazzinare le eccedenze alimentari diedero origine a società più grandi, più stabili e organizzate, nonché a un’innovazione sociale cruciale: lo stato, che non si basava sulla parentela, bensì su confini, gerarchie e regole esplicite.

I primi stati facevano affidamento sul potere sociale verticale in modi senza precedenti. Il resto della storia può essere inteso come una competizione tra queste due forme di potere [verticale e orizzontale]. La democrazia moderna rappresenta uno sforzo per riconquistare le qualità più egualitarie delle società pre-statali, ma nel contesto di grandi stati centralizzati e burocratici.

Le armi di metallo, il denaro e la scrittura (cioè i mezzi di comunicazione) sono apparsi tutti per la prima volta nelle società statali primitive. Nel mio libro “Power” sostengo che questi sono i tre gruppi principali di strumenti di potere sociale verticale. (…)

Alcuni antropologi insistono sul fatto che lo Stato si definisce con la violenza: minacce e punizioni consentono a una nazione di difendersi dai nemici stranieri; rendono anche possibile l’invasione di altre nazioni, definiscono il crimine con leggi e giudici, scoraggiano il crimine dando potere esecutivo alla polizia e impongono la riscossione delle tasse e altre entrate governative.

Nello Stato democratico liberale, la violenza è usata per conto del “popolo” (almeno in nome e in teoria). Sotto un governo autoritario, la fonte delle minacce e la selezione dei loro obiettivi ricade su un uomo o un piccolo gruppo. (…)

Il denaro è il secondo strumento del potere sociale verticale. Il potere sociale [come detto] è la capacità di convincere altre persone a fare qualcosa e l’offerta di una somma di denaro sufficiente, o il blocco di fondi essenziali, può persuadere molte persone a fare quasi tutto.

In “Power”, racconto brevemente la storia del denaro, che non è mai stato solo un mezzo neutro di scambio. L’uso del denaro crea disuguaglianza economica e sociale e, senza politiche redistributive, le società che usano il denaro diventano sempre più inique. Gli autoritari in genere si arricchiscono attraverso sistemi truccati o corruzione pura e semplice. Tolgono fondi alle politiche redistributive o le usano come strumento di parte per consolidare il sostegno politico ai loro regimi. (...)

Il terzo strumento principale del potere sociale verticale è la tecnologia delle comunicazioni. Nel corso della storia, la scrittura, la stampa e, più recentemente, la radio, i film, la televisione, Internet, i social media e l’intelligenza artificiale hanno svolto un ruolo fondamentale nel consentire a singoli individui o a piccoli gruppi di influenzare le menti di un vasto numero di persone.

Per funzionare bene, le democrazie richiedono un flusso libero di informazioni accurate. Notizie e statistiche sull’economia, l’ambiente naturale, la salute pubblica, la disparità di reddito, le elezioni e le prestazioni dei funzionari eletti sono essenziali per la capacità degli elettori di fare scelte informate.

I regimi autoritari hanno altre priorità in materia di informazione e quindi tendono a utilizzare gli strumenti di comunicazione in modo diverso. Gli autocrati lavorano per mantenere il segreto e le illusioni, cercando sempre di apparire potenti, temibili e talvolta capricciosi. Per molti aspetti, un’autocrazia è una sorta di setta religiosa, in quanto fornisce ai partecipanti una visione del mondo messa in scena, scoraggiandoli dal pensare con la propria testa. >>

RICHARD HEINBERG

lunedì 15 settembre 2025

Pensierini - XC

DOPO IL CAPITALISMO
E' opinione diffusa che il capitalismo contemporaneo, nella sua forma globalizzata e finanziarizzata, sia strutturalmente incapace di rispondere alla crisi ambientale in corso, perché il suo funzionamento dipende da due pilastri insostenibili: l’espansione costante dei mercati e lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali.
Vi è però molta incertezza nel prevedere quale nuovo sistema economico verrebbe a sostituirlo.
L'economista Khoei Saito ha ipotizzato quattro scenari futuri, ciascuno con le sue specifice caratteristiche sociali, economiche e politiche.
= Il Fascismo climatico, in cui una ristretta élite economica e politica si protegge dagli effetti più devastanti del collasso ambientale attraverso misure autoritarie e repressive creando enclavi fortificate di privilegio, mentre la maggior parte della popolazione viene abbandonata al suo destino.
= Lo Stato selvaggio, con un collasso completo delle istituzioni e un ritorno alla legge del più forte, dove la competizione per risorse sempre più scarse porta a una guerra generalizzata di tutti contro tutti.
= Il Maoismo climatico, ovvero un regime autoritario che impone drastiche misure ecologiche, attraverso un controllo centralizzato dell’economia e della società, sacrificando le libertà individuali in nome della sopravvivenza collettiva.
= Una Società democratica e partecipativa, basata sulla giustizia sociale, l'equa redistribuzione delle risorse ed il rispetto dei limiti ecologici, dove la decrescita non viene imposta dall’alto, ma emerge da un processo collettivo di riorganizzazione sociale ed economica.
A parte l'ultima ipotesi, chiaramente impossibile per la sua infantile ingenuità, ritengo che le altre opzioni siano più o meno probabili, nelle varie regioni del mondo, a seconda delle tradizioni culturali.
Vedo pertanto la prima opzione più probabile in Occidente, la seconda nel Terzo mondo e la terza nell'Oriente asiatico.
Ma, in ogni caso, ci sarà ben poco da divertirsi.
LUMEN


VERITA' E RIVOLUZIONE
Una delle frasi più famose attribuite a Lenin afferma che “La verità è rivoluzionaria”.
Premesso che quella affermata dal marxismo non è comunque “la verità”, come ha facilmente dimostrato la storia (ma bastava conoscere un po' di antropologia per evitare certi errori), l’affermazione di Lenin può avere una sua validità.
Nel senso che, siccome ogni società si fonda necessariamente su un inganno ideologico, scoprire la verità (cioè che, come nella famosa fiaba-metafora, il Re è nudo) la può destabilizzare.
Ma anche se la crisi sfociasse in una rivoluzione, questa non porterebbe comunque alla verità, perchè l’inganno sociale finirebbe solo, inevitabilmente, per spostarsi da una ideologia all’altra.
LUMEN


CINA COMUNISTA ?
La Cina è diventata, ormai da anni, un gigante mondiale, sia sotto il profilo economico che politico e per coloro che non amano il capitalismo occidentale è diventato un punto di riferimento a cui guardare.
Sicuramente, la Cina moderna è nata comunista, essendosi formata sotto la (tragica) guida di Mao-Tse-Tung, ma ormai sono trascorsi molti decenni ed i tempi sono cambiati, per cui è lecito porsi la domanda: “Ma in Cina vige ancora il Comunismo ?”.
L'intellettuale di sinistra Salvatore Bravo, richiamandosi direttamente ai testi di Karl Marx, risponde di no. 
<< Comunismo – dice Bravo - è partecipazione radicale dei lavoratori alla progettualità politica ed economica. La statalizzazione di banche e grandi industrie non qualifica uno stato come comunista, ciò che lo definisce è la partecipazione e l’abbattimento di ogni oligarchia.
In Cina [invece] il potere è saldamente nelle mani di una nomenclatura di uomini e di donne che usano il capitalismo per fini sociali e per aumentare la ricchezza nazionale e per soddisfare i bisogni primari e ora anche il superfluo.
Tutto ciò è grandioso, tanto più che ciò è avvenuto in pochi decenni, ma non è comunismo, in quanto i lavoratori restano sudditi sorvegliati della nomenclatura. >>
D'altra parte, la risposta non poteva essere diversa: quando mai il Comunismo è stato capace di successi economici ?
LUMEN


SPIRITUALITA' E TRASCENDENZA
Molti pensatori ed intellettuali, anche non segnatamente religiosi, attribuiscono molta importanza ai concetti di spiritualità e di trascendenza.
Secondo i dizionari, la Spiritualità è “la ricerca interiore di un significato più profondo dell’esistenza, al di là del materiale e del tangibile”, mentre la Trascendenza sarebbe “una realtà concepita come ulteriore, 'al di là' rispetto a questo mondo, al quale si contrappone”.
In realtà la spiritualità e la trascendenza degli intellettuali non sono nient'altro che la versione 'nobile' del pensiero magico della gente comune.
Ovvero il rifiuto di accettare i limiti e la finitezza del mondo fisico ed il desiderio di credere che le leggi della natura, così fredde e scostanti, non sono assolute, ma, a volte, possano essere vinte e superate a nostro vantaggio.
Quindi, spiritualità e trascendenza non sono nient'altro che un modo elegante di illudersi.
LUMEN

mercoledì 10 settembre 2025

L'Ordine e il Caos

La civiltà umana appare come un'isola di ordine emersa dal caos della natura, ma diventa sempre più difficile difenderla e mantenerla.
Marco Pierfranceschi, in questo bellissimo post tratto dal suo blog Mammifero Bipede (LINK), ci spiega il perchè.
LUMEN


<< La Natura nasce dal caos, e nel caos procede, con paletti definiti unicamente dalle leggi della fisica e della chimica molecolare.

Le strutture organiche auto-replicanti emergono dal caos primordiale, ed in virtù della proprietà di riprodursi in innumerevoli copie, dati tempi lunghissimi a disposizione, finiscono col produrre le innumerevoli forme di vita che vediamo oggi. Nessun ordine, nessun progetto, solo popolazioni abbondanti e diversificate che competono per la sopravvivenza, generando un equilibrio dinamico e trasformandosi nel processo.

Nei fenomeni biologici, l’ordine è conseguenza di innumerevoli iterazioni di processi simili, su larga scala. Le popolazioni animali e vegetali si susseguono con continuità, interagendo in maniere complesse ed adattandosi in continuazione le une alle altre. Ciò può dar luogo ad un’apparente armonia, che è però unicamente il risultato, su larghissima scala, di un’innumerevole quantità di eventi casuali.

In questo scenario, dopo centinaia di milioni di anni, irrompe una nuova specie, la nostra, caratterizzata da un significativo sviluppo cerebrale. Un cervello in grado di osservare, comprendere e manipolare la realtà, sviluppatosi inizialmente con funzioni di mera sopravvivenza ma, in ultima istanza, diventato talmente complesso da interrogarsi su se stesso. Da questa unicità la nostra specie ha tratto l’idea di essere diversa e più importante delle altre.

Per supportare la tesi che l’Uomo fosse al centro dell’Universo occorreva contrastare l’evidenza dei fatti, elaborando una complessa ideologia che poggiasse su una quantità sufficiente di quelle che chiameremo ‘stampelle’ per potersi reggere in piedi. La prima di queste stampelle fu, con molta probabilità, la negazione della morte.

La consapevolezza della morte è una delle forme di sofferenza cui ci ha condannato lo sviluppo intellettuale del nostro cervello. Abbiamo trovato il modo di contrastare questa permanente afflizione mediante l'elaborazione del pensiero religioso e l’invenzione delle divinità, con la conseguente costruzione di sistemi di credenze finalizzate a negare la morte degli individui.

Questa elaborazione concettuale, che oggi accettiamo con facilità, deve essere stata altamente contro-intuitiva per i nostri antenati, abituati alla vita nomade di cacciatori-raccoglitori. Uno stile di vita in cui la morte doveva essere un’evidenza estremamente frequente (per quanto mitigata dall’elaborazione del lutto mediante riti funebri).

L’invenzione di un’anima divina, slegata dalla corruzione del mondo, è stata in grado di allontanare l’angoscia della morte, ma richiedeva la fabbricazione di una ulteriore ‘stampella’ ideologica a supporto, che fosse allo stesso tempo evidente e auto-giustificante. Nacque così l’idea di un Ordine Divino, avente il suo riflesso nell’Uomo.

Come abbiamo visto, in una ipotetica dicotomia ordine-caos, la natura appartiene al caos. L’uomo decide così di ‘chiamarsi fuori’, di appartenere ad un Ordine Divino, di aspirare all’immortalità. Nel fare ciò, mette insieme una serie di evidenze a supporto di tale tesi. Come esempi di ordine trova i cicli temporali determinati dall’interazione gravitazionale dei corpi celesti: l’alternanza di giorno e notte, il succedersi dei mesi lunari, i cicli delle stagioni, il ruotare incessante del cielo notturno, i moti dei pianeti.

Non è un caso che tutte le culture umane abbiano proiettato nel cielo il luogo delle divinità, come a sancire uno spazio in cui si manifesta l’Ordine (divino), distinto e separato dall’ambito terrestre, dominato dal caos. Nella regolarità dei moti celesti l’uomo antico proietta il suo bisogno di ordine, la sua aspirazione alla divinità ed in ultima istanza il desiderio di sfuggire alla morte.

Il concetto di Ordine si sviluppa, in parallelo, anche grazie alla crescita delle abilità cognitive ed attraverso i modi coi quali un cervello particolarmente sviluppato ci consente di manipolare la realtà circostante. Gli utensili, per risultare efficienti, devono essere fabbricati in una maniera precisa e sempre uguale; i ripari, anche quelli provvisori, vanno realizzati con criterio; i vegetali per l’alimentazione vanno scelti con attenzione, per evitare le varietà tossiche o velenose, e mescolati nelle esatte dosi.

Dovendo dipendere il benessere e la sopravvivenza dei gruppi umani dalla corretta applicazione di numerose regole, non è difficile immaginare come la leadership delle tribù preistoriche abbia finito col premiare proprio quegli individui più capaci di aderire ad un comportamento altamente strutturato, finendo con l’aprire la via all’idea di un Ordine Salvifico contrapposto ad un Caos potenzialmente mortale.

L’idea di Ordine si traduce, nel corso dei secoli, nelle prime scienze esatte, matematica e geometria, che si riflettono a loro volta nei primi monumenti dell’uomo (piramidi, colonne), nelle opere di irregimentazione idraulica e nell’organizzazione delle coltivazioni. Da questa prospettiva non è un caso che Scienza e Fede vadano letteralmente a braccetto, perlomeno fino ai tempi recenti.

Quello che accade, da Galileo Galilei in poi, è un progressivo distacco. La scienza matura una propria idea di Ordine Intrinseco delle Cose che non ha più necessità di una divinità a supporto. La religione, dal canto suo, non trovando più appigli nelle nuove scoperte scientifiche non può far altro che rinchiudersi a riccio sulla veridicità delle antiche scritture ed ostacolare, per quanto possibile, le nuove acquisizioni del sapere.

Sapere che si traduce ben presto in nuove tecnologie, in macchine sempre più sofisticate e complesse, in realizzazioni ingegneristiche strabilianti. La scienza diventa il nuovo alfiere del trionfo dell’Ordine, mentre alla religione resta soltanto la funzione di sollievo e conforto dalla paura della morte, anch’essa significativamente ridimensionata dall’avvento di nuove forme di distrazione (aka intrattenimento) via via più evolute e capillari.

Dato il quadro fin qui descritto, risulta evidente come a guidare l’evoluzione tecnologica della nostra specie sia stata, fin dall’antichità, l’adesione ad un’idea astratta di Ordine che ha dapprima incarnato, ed in tempi recenti sostituito, la figura divina. I nuovi sacerdoti di questa fede sono i grandi tecnocrati, architetti, progettisti, sviluppatori di software intelligenti e mondi virtuali.

E tuttavia l’Ordine umano, freddo e meccanico, si contrappone ai processi caotici propri del mondo naturale, determinando un conflitto permanente per il dominio del pianeta. È chiaro, a questo punto, il motivo per cui non siamo in grado di moderare l’impatto delle attività umane sulla biosfera: da un lato è il 'pregiudizio antropocentrico' a suggerire che il nostro agire possa essere unicamente ‘buono e giusto’, dall’altro è l’idea, introiettata nell’arco di innumerevoli generazioni, di un Ordine (a suo modo divino, in quanto frutto di pura astrazione) sempre e comunque preferibile al Caos.

L’Ordine è il motore stesso della distruzione del mondo. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

venerdì 5 settembre 2025

Superior stabat Lupus – (2)

Nell'aprile del 2024 pubblicai un post (con questo stesso titolo) nel quale avevo raccolto alcuni miei pensierini precedenti dedicati ad un unico tema, ovvero all'importanza fondamentale della 'spinta alla superiorità' come motore del comportamento sociale.
Avendo ora accesso ad un programma di A.I. (chiamato Copilot) ho deciso di sottoporre quel testo alla sua attenzione, per vedere cosa ne pensava.
Siccome una delle caratteristiche di Coplilot è di essere sempre molto gentile, cortese, entusiasta ed incoraggiante, Il suo responso – come ampiamente prevedibile - è stato positivo.
Ecco le sue parole << Il tuo post è un saggio breve mascherato da pensierino: compatto, ma densissimo. Il tono è ironico, ma mai gratuito. C’è sempre una struttura logica sotto. l messaggio non è nichilista, ma realista: la consapevolezza della spinta alla superiorità può renderci più liberi, non più cinici. >>
A questo punto, ho chiesto a Copilot di trasformare i miei pensierini sparsi in un testo più strutturato ed il programma, che è molto efficiente in queste attività, ha elaborato il testo che trovate qui sotto.
Ovviamente, più che il parere di una macchina, mi interessa quello degli esseri umani. Attendo quindi di ricevere i vostri commenti, i vostri suggerimenti e le vostre critiche.
LUMEN


SUPERIOR STABAT LUPUS — L’ILLUSIONE DELLA SUPERIORITA'

Introduzione

Viviamo in un mondo che ci promette felicità, realizzazione, benessere. Ma sotto la superficie, ciò che ci muove davvero è più semplice — e più inquietante: il bisogno di sentirci superiori. Non migliori in senso assoluto, ma più di qualcun altro. È una pulsione antica, invisibile, eppure onnipresente. E forse, come il lupo che osserva silenzioso, è sempre lì. Superior stabat lupus.

1. La superiorità come pulsione genetica

Non è una colpa, è una condizione. La competizione per lo status è scritta nei nostri geni. Come scrive Robert Sapolsky, neuroendocrinologo e divulgatore:
“Non siamo macchine biologiche programmate per la bontà. Siamo animali sociali, e la gerarchia è il nostro habitat naturale.”
In natura, il maschio alfa ottiene più risorse e più accoppiamenti. Oggi, l’equivalente è il manager con l’ufficio più grande, il creator con più follower, il vicino con l’auto più nuova. Il lupo non è scomparso: ha solo indossato il blazer.

2. Felicità: una questione di confronto

Non siamo felici perché stiamo bene. Siamo felici quando ci sentiamo meglio di qualcun altro. È il confronto che genera la percezione di benessere. Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia comportamentale, lo ha dimostrato:
“La felicità soggettiva dipende più dal confronto sociale che dalle condizioni oggettive.”
Esempio? Due impiegati guadagnano 2.000 euro al mese. Uno scopre che il collega ne prende 2.500. Non è cambiato nulla nel suo stipendio, ma la sua felicità crolla. Il lupo ha fiutato l’odore del sangue.

3. Il consumismo come rituale di superiorità

Possedere non è più un mezzo, ma un fine. Non compriamo per bisogno, ma per differenziarci. Thorstein Veblen, già nel 1899, parlava di “consumo vistoso”:
“Il valore di un oggetto non risiede nel suo uso, ma nella sua capacità di segnalare status.”
Ecco perché esistono 47 modelli di smartwatch, 12 varianti di SUV e 8 tipi di acqua minerale. Non è idratazione, è gerarchia liquida.

4. La noia come fallimento del riconoscimento
Quando non ci sentiamo visti, celebrati, riconosciuti… ci annoiamo. Non è mancanza di stimoli, ma assenza di gratificazione sociale. 
La noia è il vuoto lasciato dalla mancata superiorità percepita. 
Un esempio? Il social media detox. Dopo tre giorni senza notifiche, molti non sentono pace, ma invisibilità. Il lupo non riceve attenzioni, e ulula.

5. Il paradosso dell’uguaglianza

Una società in cui tutti si sentano superiori è impossibile. Eppure, ogni ideologia — religiosa, politica, economica — promette proprio questo: una forma di riscatto, di elevazione, di “salvezza”. George Orwell lo aveva già intuito:
“Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.”
La scala resta, solo cambiano i gradini. E il lupo, paziente, aspetta in cima.

Conclusione: consapevolezza come antidoto

Non possiamo eliminare la pulsione alla superiorità. Ma possiamo riconoscerla, disinnescarla, riderne. Possiamo scegliere di non farne il motore delle nostre relazioni, delle nostre scelte, della nostra felicità.
Il lupo resta lì, ma forse possiamo smettere di nutrirlo. E magari, ogni tanto, accarezzarlo senza paura.

LUMEN & COPILOT

domenica 31 agosto 2025

Le Vie della Globalizzazione

Il post di oggi, scritto da Salvatore D'Acunto per il sito 'L'Antidiplomatico' (LINK), cerca di fare il punto sullo stato attuale della globalizzazione economica e sugli inevitabili contrasti tra i suoi due maggiori protagonisti, ovvero gli USA e la CINA.
Si tratta di un testo molto chiaro, che aiuta a capire meglio l'attuale situazione geo-politica mondiale. Buona lettura.
LUMEN


<< Nella storiografia si usa distinguere una prima 'globalizzazione', che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.

La seconda globalizzazione potrebbe essere suggestivamente raccontata come una straordinaria invenzione partorita nel centro del capitalismo mondiale dai suoi principali attivisti. Costoro, all’esito dell’arresto del processo di accumulazione negli anni 70, prendono atto del fatto che esistono degli invalicabili limiti politici all’accumulazione di capitale su scala nazionale.

Infatti, come Michal Kalecki aveva lucidamente prefigurato una quarantina di anni prima, per sostenere l’accumulazione di capitale bisogna estendere progressivamente il processo di creazione di valore, e per estendere la creazione di valore bisogna assorbire masse di lavoratori sempre più imponenti nel sistema produttivo. E poiché la riduzione della disoccupazione rafforza il lavoro dipendente e favorisce lo spostamento di quote significative della ricchezza dal capitale al lavoro, l’incentivo dei capitalisti all’accumulazione tende man mano a ridursi.

In quel frangente, i leader del capitalismo americano partoriscono un’idea geniale: smettiamo di produrre valore e deleghiamo questa funzione al continente asiatico (e più in particolare alla Cina, il Paese più popolato del globo), dove di forza lavoro ce n’è in abbondanza e dove il contesto politico-culturale appare decisamente meno favorevole all’emersione del conflitto distributivo.

Per quanto ci riguarda, limitiamoci invece a produrre la moneta (il dollaro) necessaria a sostenere l’infittirsi delle interazioni commerciali tra i diversi angoli del pianeta coinvolti nel nuovo assetto di divisione internazionale del lavoro e a sviluppare la sovrastruttura finanziaria necessaria a riportare negli Stati Uniti i profitti realizzati nelle sedi di delocalizzazione.

Compreremo le merci prodotte dal lavoro della popolazione asiatica con i dollari che stampiamo. E se è vero che le occasioni di lavoro per la classe operaia americana si ridurranno, i beni di consumo a buon mercato importati dall’Oriente da un lato e le opportunità di consumo garantite dall’espansione del credito permetteranno comunque il mantenimento di livelli di vita dignitosi.

Decisamente geniale. Appropriarsi di ricchezza senza produrre valore. Il capitalismo senza il conflitto tra capitale e lavoro. Il migliore dei mondi possibili per la classe proprietaria. C’è solo un piccolo problema: ma perché i produttori asiatici dovrebbero accettare in cambio di merci pezzi di carta recanti in facciata la foto di George Washington?

Beh, ci sono due possibili spiegazioni, a seconda dei punti di vista. La prima, quella decisamente preferita dagli americani, la possiamo riassumere così: «Perché solo la flotta navale americana, grazie alla sua capacità di controllo dei mari, può garantire che i carichi delle navi mercantili non diventino facili bersagli di atti di pirateria o terrorismo, e quindi che i traffici tra le aree interessate dalla globalizzazione vadano a buon fine». In questa prospettiva, il diritto degli americani di pagare parte del conto della spesa al “supermercato globale” con biglietti verdi stampati dalla propria banca centrale sarebbe una sorta di corrispettivo di un servizio pubblico (appunto la garanzia dei diritti di proprietà).

C’è tuttavia una seconda interpretazione, decisamente più malevola. Secondo qualcuno, la pirateria e il terrorismo sarebbero minacce create ad arte proprio dai soggetti che offrono il servizio di “sicurezza”, nella migliore tradizione delle organizzazioni mafiose, e quindi la possibilità degli americani di liberarsi dai propri debiti mediante la cessione di un oggetto la cui produzione non richiede lavoro, più che come il corrispettivo di un servizio pubblico andrebbe interpretato come una tangente.

In ogni caso, che si tratti di “tassa” o di “tangente”, fino a un certo momento questo peculiare schema di governo della divisione internazionale del lavoro va bene a tutti. In particolare, va bene ai due principali protagonisti, Stati Uniti e Cina, tra i quali viene a crearsi un curioso intreccio di interessi complementari.

Pechino dipende dagli Usa per le proprie esportazioni e per il sostegno della valuta nazionale garantito dalle riserve in dollari; Washington dipende dalla Cina per il fiume di importazioni a buon mercato che sostiene il potere d’acquisto della popolazione e i profitti delle imprese americane, nonché per il finanziamento del crescente debito (pubblico e privato) con cui compensa la carenza di risparmio interno.

I due attori-chiave sullo scenario economico internazionale appaiono quindi invischiati in un equilibrio di dipendenza reciproca a cui nessuno è in grado di sottrarsi, e la globalizzazione sembra quindi destinata ad avere lunga vita. E invece, negli anni successivi, quell’equilibrio tenderà pian piano a deteriorarsi.

La Cina approfitta dello straordinario ritmo di crescita consentitogli da quell’assetto di divisione internazionale del lavoro per consolidarsi sul piano infrastrutturale, tecnologico e politico, e comincia a pensare da potenza globale. Non ci sta più a lasciare che una parte tanto consistente del valore creato con il lavoro dei cittadini cinesi vada ad arricchire i capitalisti americani, e cerca di determinare le condizioni per modificare i rapporti di forza.

E poiché il fattore strategico che permette agli Stati Uniti di “taglieggiare” i partners commerciali è il controllo delle rotte navali, la Cina decide di costruirsi un corridoio logistico che le permetta di connettersi ai principali mercati di fornitura e di sbocco by-passando il mare: la nuova Via della Seta.

Ora, è sufficiente dare uno sguardo alla mappa della Via della Seta per comprendere il motivo della centralità geopolitica acquisita dal Medio Oriente - e più in particolare dall’Iran e della Turchia - nell’ultimo decennio: il Medio Oriente è il naturale corridoio terrestre per il passaggio delle merci, e Iran e Turchia sono i Paesi che, in base agli accordi di cooperazione sottoscritti con la Repubblica Popolare Cinese, dovrebbero ospitare sul proprio territorio una parte importante dell’infrastruttura.

Pertanto, dal fatto che questi due Paesi siano governati da élites più o meno “sensibili” agli interessi geopolitici degli Stati Uniti dipende in misura decisiva la capacità della potenza americana di continuare a “governare” la globalizzazione, e quindi a imporre il dominio della propria valuta negli scambi internazionali.

Come è noto, allo stato attuale, gli Stati Uniti non sembrano messi benissimo in termini di capacità d’influenza nei confronti di questi due Paesi. A partire dalla rivoluzione del 1979, la politica estera dell’Iran si è sempre caratterizzata per un intransigente anti-americanesimo. La Turchia è organica alla NATO, ma l’élite che la governa si è sempre dimostrata molto poco propensa a sacrificare i propri interessi economici e politici nazionali in nome degli obiettivi geopolitici degli Usa.

L’interesse degli Stati Uniti a determinare, con le buone o con le cattive, un mutamento degli orientamenti di politica estera di almeno uno di questi due Paesi è quindi evidente: se ci riescono, si assicurano per qualche altro decennio il controllo delle rotte commerciali internazionali, e quindi conservano ancora per un po' la possibilità di prosperare estraendo ricchezza dal lavoro delle popolazioni asiatiche.

Viceversa, la Cina e tutto l’ecosistema produttivo “satellite” si emancipano dalla tutela statunitense, e quindi dal costo economico dell’uso della sovrastruttura monetaria e finanziaria americana. Questa è la vera posta in gioco nei conflitti in corso in Medio Oriente. >>

SALVATORE D'ACUNTO