sabato 25 agosto 2018

Forme di partito e sistemi elettorali

La struttura dei partiti politici dipende da vari fattori, ma è legata soprattutto al sistema elettorale vigente, che può essere, secondo una distinzione di massima, di tipo proporzionale o di tipo maggioritario.
Ce ne parla, con la consueta chiarezza e competenza, un grande esperto come Aldo Giannuli (dal suo sito). 
LUMEN


<< Un partito [che sia stato] “educato” da un sistema maggioritario, ha un modo di essere e di pensare completamente diverso da quello di un partito che agisce in regime proporzionale: cambiano le strategie comunicative, la cultura politica, il rapporto con l’elettorato, soprattutto il modello organizzativo. (…) Per capirlo vale la pena di analizzare la diversa logica dei due sistemi.

Nel sistema parlamentare-proporzionale non è affatto necessario ottenere la maggioranza assoluta o relativa di voti e seggi, quanto, piuttosto, il grado di “coalittività”, cioè la capacità di comporre una coalizione che abbia un numero sufficiente di seggi (…). Quello che garantì alla Dc 45 anni di governo fu la sua maggiore capacità di trovare alleati (di volta in volta Pli, Psdi, Pri, Psi, monarchici) rispetto al Pci che ebbe sempre pochissimi partiti disposti ad allearsi con lui (…).

Ne deriva che i partiti tendono ad un modello di comunicazione meno “generalista” e più mirato a raccogliere il consenso di gruppi particolaristici qualificati (coltivatori diretti, professionisti, insegnanti, artigiani, minoranze religiose, particolari aree culturali eccetera).

Ovviamente i partiti più grandi si orienteranno verso i gruppi sociali maggiori (ad es. pubblico impego in blocco, oppure commercianti o artigiani organizzati nelle rispettive formazioni di categoria) ed al maggior numero di gruppi sociali possibili, per cui essi riserveranno pur sempre una quota del proprio discorso politico ad un approccio generalista, ma coltivando rapporti privilegiati con questa o quella categoria.

Questo perché, per quanto l’ipotesi di ottenere il 51% sia molto remota, il partito maggiore si batte per ottenere il maggior numero di voti possibile che lo ponga in buona posizione per conquistare la guida del governo. Al contrario, il partito minore sa di non avere probabilità di conquistare la guida del governo (…) pertanto è meno attento al discorso generalista che coltiverà solo limitatamente, e punterà le sue carte sulla rappresentanza di un determinato gruppo sociale circoscritto e qualificato (ad esempio i professionisti o gli operatori di borsa o una particolare categoria di operai) o un particolare territorio.

Il partito minore sa di avere un ruolo ancillare, ma gioca sulla possibilità di essere il “partner marginale” cioè quello determinante per una particolare formula di maggioranza ed alzare il prezzo.

Ne consegue che tanto i partiti maggiori quanto quelli minori non puntano ad allargare il proprio seguito elettorale oltre misura e si concentrano sull’elettorato “simpatizzante”, meno distante e più facile da conquistare, destinando all’elettorato più lontano e difficile (antipatizzante) una attenzione residuale o magari lasciandolo a qualche alleato più digeribile da parte dell’elettorato ostile (la Dc sapeva di avere poche speranze di conquistare un elettore laico e delegava questo compito a repubblicani, liberali o socialdemocratici).

Pertanto, nella competizione proporzionale, ciascun partito curerà la maggiore precisione della sua comunicazione, cercando di realizzare il massimo di seduttività sull’elettorato ‘gardè’, mentre i messaggi diretti all’elettorato lontano saranno in secondo piano, meno efficaci e più generici.

Contrariamente a quanto la vulgata maggioritaria di questi anni ha sostenuto, i partiti minori, in un regime proporzionale, non sono meri elementi di frammentazione della rappresentanza, nicchie particolaristiche che ostacolano e rallentano la formazione di una maggioranza solida.

Al contrario, essi hanno la funzione di “fluidificare” la rappresentanza politica e creare più facilmente una coalizione di maggioranza. Infatti, tanto nei regimi proporzionali quanto in quelli maggioritari, la “regola” non è quella delle “grandi coalizioni”, per la banale ragione che i partiti maggiori, normalmente, sono alternativi fra loro ciascuno aspira all’egemonia nella coalizione e, dunque, sono più difficilmente alleabili.

Dunque, nel regime maggioritario la soluzione è quella di trasformare la maggioranza relativa (cioè la minoranza più grande) in maggioranza assoluta, mentre nel proporzionale la soluzione è quella della più efficace politica delle alleanze, attirando intorno al partito maggiore una quantità sufficiente di partiti minori. E’ per questo che il sistema proporzionale è più propenso a valorizzare il principio di rappresentanza, la positività del conflitto sociale e la mediazione politica.

Inoltre, nel regime proporzionale (normalmente accoppiato al sistema parlamentare) l’opposizione non è del tutto esclusa dal processo governativo: ci sono terreni di condivisione (spesso lo è la politica estera) ma, attraverso i regolamenti parlamentari e le commissioni, c’è una continua dialettica fra maggioranza ed opposizione che porta in diversi casi a testi di legge unificati o emendati. (…)

Questa esigenza di mediazione politica spinge i partiti a preparare progetti molto elaborati, che bilancino gli interessi particolaristici fra loro e rispetto al “progetto paese”, che ogni partito cerca di proporre in modo dettagliato, perché nella competizione proporzionale paga il progetto che appaia come il più concreto, preciso ed articolato, più capace di raggiungere i diversi strati sociali e sollecitarne il consenso.

Completamente diversa è la logica del sistema maggioritario, che si basa sull’idea di trasformare una maggioranza relativa in una maggioranza assoluta e, dunque, sacrifica una quota di rappresentanza per favorire la decisione, nel presupposto che una compagine governativa più coesa esprima un indirizzo politico più omogeneo e processi decisionali più rapidi.

Pertanto, il partito del maggioritario, al contrario di quello da competizione proporzionale, non può concentrarsi solo sull’elettorato più vicino, ma deve cercare di sfondare anche in quello “antipatizzante” che deve sottrarre nella maggior quantità possibile al suo avversario e, vice-versa, deve curarsi che il suo competitore non faccia breccia sul suo elettorato, magari perché una sua frangia è ostile a qualche proposta particolare del proprio programma.

Questo ha due conseguenze: in primo luogo il programma dovrà rivolgersi alla maggior parte dell’elettorato e dovrà evitare punte che possano urtare particolari nicchie elettorali. La soluzione sta in un programma prevalente mente generalista, assai vago e retto da uno “slogan di trascinamento” (il milione di posti di lavoro di Berlusconi, gli 80 euro di Renzi, la Flat Tax del centro destra o il reddito di cittadinanza dei 5 stelle eccetera).

La seconda conseguenza è che proprio la vaghezza del programma e il carattere composito degli esponenti del partito, spinge a cercare il punto di unificazione della figura del capo, cui è demandato il compito di “incarnare” lo spirito del partito, garantirne l’unità e sciogliere le ambiguità e vaghezze del programma con le sue decisioni dopo la vittoria.

Dunque lo spirito del maggioritario è quello di esaltare al massimo la delega ai governanti, l’esatto contrario della democrazia diretta ed una concezione molto restrittiva anche della democrazia rappresentativa, quasi una cosa a metà strada fra essa e la dittatura temporanea.

Per questo, la comunicazione politica, nel maggioritario, ha un ruolo preminente sull’ideazione politica: il suo compito è presentare il messaggio del partito nel modo più suggestivo, proprio per colmare “buchi” e vaghezze del programma e la risorsa estrema sarà quella della pubblicità negativa contro l’avversario costantemente demonizzato.

Il messaggio implicito sarà sempre “Anche se il mio programma non ti convince, votami perché l’altro è peggiore: votami per non far vincere il mio nemico che è in assoluto peggiore di me”. Dunque, il confronto politico gradualmente cederà il passo allo scontro sulle caratteristiche personali dei due capi coalizione, allo scandalismo eccetera.

Riassumendo: il sistema maggioritario (e la forma presidenziale del governo cui spesso sii accompagna) privilegia la decisione sulla mediazione, esalta l’autonomia del ceto politico rispetto alla rappresentanza del corpo elettorale, esalta il momento generalista rispetto al consenso sociale qualificato e, di riflesso, deprime la conflittualità sociale e il ruolo dei corpi intermedi (associazioni di categoria, sindacati, ecc.) rispetto alla comunicazione mediatica.

Ne derivano ulteriori differenze fondamentali. [Mentre] il sistema proporzionale privilegia il ruolo del partito come aggregatore della domanda politica e, pertanto produce partiti a gruppo dirigente collegiale, al contrario, il sistema maggioritario esalta il ruolo del singolo capo: l’”uomo forte” che incarna il progetto del partito e che “sa comunicarlo” meglio degli altri.

Pertanto lo stesso partito viene ridotto alla funzione di comitato elettorale di supporto al capo, attivo solo in campagna elettorale, e pertanto è incline ad una passivizzazione dei cittadini: la partecipazione politica è sempre più ridotta all’attimo in cui il cittadino deposita la sua scheda nell’urna. >>

ALDO GIANNULI

sabato 18 agosto 2018

Siamo soli nell’universo ?

Secondo i calcoli degli astronomi, ci sono oltre 300 miliardi di stelle nella nostra sola galassia, e forse 100 miliardi di galassie nell'Universo; è pertanto ragionevole pensare che là fuori, in un cosmo che ha 14 miliardi di anni, esista o sia esistita una civiltà avanzata almeno quanto la nostra.
Ma allora perché non ne abbiamo testimonianza ?
Stephen Webb, fisico e saggista inglese esperto di cosmologia, ha deciso di scrivere un libro su questo argomento, che ha intitolato (citando una celebre “battuta” del fisico italiano Enrico Fermi) "Se l'universo brulica di alieni, dove sono tutti quanti ?".
Il libro, divertente ma rigoroso, raccoglie, presenta ed approfondisce 50 diverse soluzioni al paradosso, fra le tante avanzate nel corso del tempo da scienziati, filosofi, storici ed anche autori di fantascienza.
Quella che segue è la recensione del libro scritta da Giovanni Dall’Orto (dal suo sito).
LUMEN


<< Il fatto che questo libro su un tema assolutamente astruso sia arrivato alla terza edizione, mostra come la divulgazione scientifica un suo pubblico ce l'abbia... se solo riesce a perdere la maledetta abitudine italiana di credere che ciò che non annoia il lettore non è vera cultura.

Questo libro non vi annoierà, e se è per questo non vi chiederà neppure d'essere adepti dei culti degli Ufo o ‘raeliani’, e nemmeno, onta suprema, d'essere appassionati di fantascienza (anche se, a dire il vero, qui esserlo aiuta).

Dietro la domanda sbarazzina del titolo (che però viene da uno scienziato del massimo calibro come Enrico Fermi) si cela infatti una riflessione rigorosissima sull'origine della Vita, e soprattutto sul cosiddetto Principio Antropico, che è il vero tema (occulto) del saggio: una di quelle robe che a metterle nel titolo avrebbero ammazzato le vendite prima ancora di uscire dalla tipografia. Invece, messa com'è messa, la cosa è perfettamente digeribile per tutti.

L'autore organizza il suo discorso attorno a 50 possibili risposte. Il numero tondo denuncia subito il carattere "artificiale" della costruzione, che serve fondamentalmente a dare ordine a una materia piuttosto vasta organizzandola in aree tematiche, o se preferite pillole di dimensioni abbastanza piccole per andare giù senza strozzare nessuno.

Ogni pillola sviscera un aspetto scientifico diverso, alcuni dei quali strettamente connessi al problema posto nel titolo ("Esistono e stanno comunicando, ma noi non siamo capaci di riconoscere il segnale come tale"; "Non abbiamo ascoltato abbastanza a lungo") oppure molto lontani, e più legati al discorso più ampio dell'origine della Vita (gli extraterrestri non esistono perché: "La transizione da procarioti e eucarioti non avviene spesso" - "La tettonica a zolle è un fenomeno raro" - "Le ecosfere continue sono troppo sottili" - "La Luna è un unicum"...).

E ovviamente, per ogni risposta è necessario spiegare i concetti sottesi, e così senza accorgercene ci si trova a discutere del ruolo della tettonica a zolle o della Luna sull'evoluzione della vita così come l'ha conosciuta la Terra. Affascinante.

L'autore, che è palesemente un appassionato di fantascienza (il Senso del Cosmico ce l'ha!) alleggerisce la narrazione mescolando alle ipotesi più serie alcune ipotesi spiritose e perfino strampalate (ma trattate con impeccabile approccio scientifico) che sono di casa in questo genere letterario: "Gli alieni non esistono perché sono stati sterminati da berseker", cioè macchinari da guerra sfuggiti al controllo dei creatori, oppure: "Esistono e... siamo noi!".

Questa mescolanza tra serio e faceto riesce a impacchettare una quantità di nozioni scientifiche di tutto rispetto, che il lettore manda giù senza accorgersene, come i bimbi a cui si dice "guarda l'uccellino che vola!" per distrarli e approfittarne per far loro ingollare le pappine più disgustose che la razza umana sia mai riuscita a escogitare. E anche qui: "Guarda il berseker che vola!"... e béccati questa digressione sulla possibilità teorica della "intelligenza artificiale".

La conclusione che dà l'autore, dopo la sua cavalcata tra le ipotesi scientifiche, è che lui personalmente crede che gli alieni non ci hanno mai contattato perché non esistono. La vita autocosciente (che, si noti, non è la stessa cosa della "la vita in sé", che invece potrebbe essere comunissima, ma sotto forma di fanghiglie rosse abbarbicate alle rocce di millanta pianeti alieni) è un evento troppo raro, troppo straordinario, soggetto a casi troppo bizzarri per essere comune.

Tuttavia, la quantità degli elementi esaminati nel libro garantisce che le rispose apodittiche non siano possibili. Le probabilità che la sequenza di eventi necessari alla nascita non solo della vita, ma anche dell'intelligenza, è talmente improbabile da essere in pratica nulla. Eppure abbiamo le prove del fatto che almeno una volta questa impossibilità è diventata realtà. Perché allora non due ? Già, perché no ?

Questo libro mi ha provocato spesso le vertigini, perché ragionare sulle grandezze cosmiche, e sulle scale temporali di miliardi di anni, fa sempre l'effetto di ricordare che razza di minuscole formiche noi siamo in questo smisurato Universo.
La concatenazione dei ragionamenti dell'autore fa anche nascere il dubbio che la risposta ai "perché" che ci poniamo sia fuori dalla portata delle nostre menti come lo sarebbe per una formica capire cosa sia un computer.

Non è che sia impossibile spiegare cosa sia, è solo che in quel cervello lì la spiegazione non entrerà mai. Forse la risposta a "Chi ha creato Dio?" (incidentalmente: Dio è la spiegazione numero 8) esiste, solo che noi non siamo in grado di capirla. E a leggere questo volume, il dubbio torna con una frequenza decisamente fastidiosa. (…)

Il libro, scritto da un fisico, è accessibile a chiunque ami il pensiero scientifico persino nel caso che sia, come lo sono io, un negato totale per la matematica.
È un ottimo lavoro di divulgazione, che per essere apprezzato richiede soltanto un lettore che alzando la testa verso le stelle si sia chiesto almeno una volta non solo cosa siano, ma anche "perché" siano. Certo, ammetto che resterebbe deluso chi lo leggesse perché crede negli Ufo e sta cercando la prova della loro esistenza (su cui il libro non ha nulla da dire, né a favore né contro).

Questo perché si troverebbe di fronte a un libro che alla fin fine non è davvero interessato a rispondere alla domanda: "Perché mai gli Ufo non dovrebbero esistere ?", ma solo a quella, che per me è infinitamente più intrigante, "Perché mai esistiamo noi ?". Se la domanda appassiona anche voi, questo libro non vi deluderà. >>

GIOVANNI DALL’ORTO


sabato 11 agosto 2018

Il paradosso della tecnologia

Uno dei paradossi dell’uomo moderno è quello di essere figlio inconsapevole di una tecnologia avanzatissima e pervasiva, che però di fatto non conosce.
Al punto da non comprenderla, e neppure apprezzarla come merita.
Quelle che seguono sono alcune considerazioni sull’argomento del sempre bravo e brillante Sergio Ricossa (tratte dalla prefazione di uno dei suoi libri).
Lumen


<< Siamo figli di una civiltà industriale che non conosciamo: viviamo in mezzo a macchine di cui ignoriamo il modo di funzionare, e lavoriamo in una economia che obbedisce a regole sulle quali sappiamo poco o nulla.

Ogni sera decine di milioni di persone guardano un apparecchio, chiamato televisore, che è un perfetto oggetto misterioso: realizza il prodigio di farci vedere quel che sta accadendo magari all'altro capo del mondo, ma non quello di farci chiedere come sia stata possibile l'invenzione della televisione, chi l'abbia concepita, e perché il lusso di possedere una tale scatola magica se lo possano permettere quasi tutti, e non solo pochi privilegiati.

Zworykin, l'uomo che forse più di ogni altro contribuì all'invenzione, è un nome che quasi nessuno ha sentito nominare: a quest'uomo non si innalzano monumenti e non si intitolano vie; i libri di storia generalmente tacciono di lui.

Di conseguenza la nostra civiltà industriale non è nostra affatto, non sentiamo che ci appartenga; la giudichiamo male, ma siamo incapaci di confrontarla sensatamente con le altre diverse; il suo destino, che è vulnerabile, ci lascia indifferenti. Ci comportiamo come se fosse piovuta dal cielo, senza alcuno sforzo nostro o dei nostri avi, quasi dovesse soddisfare un nostro diritto naturale; e pensiamo spesso che, senza alcuno sforzo nostro, abbia l'obbligo di darci sempre di più, sempre di meglio.

Un qualunque intoppo, per esempio un ostacolo ai rifornimenti di petrolio, ci coglie di sorpresa. Un qualunque difetto ci indigna. Perché le paghe non dovrebbero aumentare almeno del 10% all'anno, ogni anno? Perché gli orari di lavoro non dovrebbero diminuire, per lasciar posto a più vacanze retribuite? Perché, insomma, siamo insoddisfatti?

Naturalmente, siamo insoddisfatti, e sempre lo saremo, perché siamo uomini, perché abbiamo dentro di noi un pungolo che nessun altro animale possiede, ed è questo che determina la nostra supremazia fra tutti gli esseri viventi.

Ma c'è modo e modo di reagire, e noi oggi sembriamo voler reagire nel modo peggiore, che è la frustrazione. Sperduti nel labirinto della civiltà industriale, non vogliamo stare fermi e non sappiamo in quale direzione procedere. Ci manca una mappa adeguata del nostro passato, la quale indichi come siamo arrivati qui, a questo punto, ma pretendiamo una impossibile mappa del nostro futuro, e che sia di un solo colore: rosa.

[E’ utile pertanto] guardare indietro nel tempo, non per cercare il segreto della felicità, o per consolarci se troveremo, come troveremo, che i mali di una volta erano sovente peggiori degli attuali, ma per comprendere meglio il presente.

Non sappiamo se i nostri avi erano più o meno felici di noi, ma vivevano molto diversamente da noi. Per secoli, anzi per millenni, la gente comune, la gran massa dei lavoratori, subì le ferree costrizioni di una economia primitiva, preindustriale, che rispetto all'economia industriale appare immobile, stagnante.

Oggi, invece, tutto sembra girare vorticosamente, e ciò basta per darci una ragione del senso di vertigine che proviamo.

Il cambiamento cominciò in Gran Bretagna tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, poi si propagò a gran parte dell'Europa occidentale e dell'America del nord. In Italia bisognò attendere la fine del secolo scorso, e forse addirittura la fine della seconda Guerra Mondiale, perché gli effetti dell'industrializzazione diventassero possenti come altrove.

Tra le due guerre, non lontano da Milano, Torino e Genova, i vertici del nostro "triangolo industriale", non poche famiglie contadine vivevano ancora in condizioni paragonabili a quelle medievali: non avevano l'elettricità, attingevano l'acqua dal pozzo, si scaldavano e cuocevano il cibo con la legna raccolta nel bosco, pativano la fame o la sete se il raccolto del grano o la vendemmia andava male, riservavano le scarpe e la giacca per i giorni di festa, non si allontanavano mai dal villaggio, dove si nasceva, si cresceva, ci si sposava, si invecchiava, si moriva, avevano nel cavallo e nel bue i loro "motori" coi quali risparmiarsi qualche fatica, e ascoltavano le storie della città come leggende di terre lontane.

Due o tre generazioni sono bastate perché modi di vivere millenari scomparissero quasi ovunque, e di essi si perdesse perfino il ricordo. La civiltà industriale ci è piombata addosso con effetti traumatizzanti; siamo sotto shock, abbiamo dimenticato chi eravamo, da dove venivamo, quale sangue ci scorre nelle vene. (…)

E nell’indagare sulle origini della civiltà industriale, sul declino della civiltà agricola, sull'estensione della miseria nell'una e nell'altra, [si potrà riflettere] sulla natura della fatica nell'una e nell'altra, e su quel che si è guadagnato e perso passando dall'una all'altra. >>

SERGIO RICOSSA

sabato 4 agosto 2018

Il genio di Darwin – 7

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Settima parte. Lumen)


<< Abbiamo lasciato un po' in sospeso il discorso dell'adattamento e del suo ruolo concettuale nell'ambito delle spiegazioni evolutive. Siamo giunti al momento di riprendere le fila del discorso, anche tenendo conto di quanto abbiamo detto.

Il discorso dell'adattamento (adaptation) è talmente chiaro di per sé, che non dovrebbe presentare dei problemi. Tutti gli esseri viventi sono e sono stati adatti alla vita nel loro ambiente, altrimenti non ci sarebbero stati. Si ritiene però generalmente, e niente lo può smentire, che gli organismi che sono venuti dopo in una determinata linea evolutiva siano più adatti dei loro antenati a quel tipo di vita.

Ciò soddisfa la nostra intuizione e ci fornisce una chiave per capire la direzione del processo evolutivo nel suo complesso, chiave ben presente nella mente di Darwin e per nulla da lui disdegnata. È proprio da queste premesse che nasce la frase: «La selezione naturale seleziona gli individui più adatti».

Fin qui tutto bene. Il problema nasce quando si tenta di dare una formulazione scientifica a queste impressioni e a queste affermazioni. Ricapitoliamo.

Va detto innanzitutto che la constatazione dell'adattamento di una struttura o di un comportamento a un certo ambiente può essere effettuata solo a posteriori. Noi riscontriamo un adattamento osservando che quel particolare organismo che vive in un dato ambiente ha escogitato quel determinato trucco.

Non possiamo conoscere nei dettagli come era quell'organismo prima di adattarsi a quell'ambiente e soprattutto non sappiamo se avrebbe potuto adattarsi anche meglio sviluppando altre caratteristiche strutturali o comportamentali. Quindi l'adattamento è una realtà riconoscibile solo a posteriori, sulla base di un'interpretazione.

In secondo luogo, allo stesso ambiente ci si può adattare in mille modi diversi. Noi osserviamo quindi alcune forme di adattamento, non l' adattamento. Alle condizioni di una certa zona desertica si sono adattate certe piante, certi rettili, certi insetti, certi uccelli e perfino certi piccoli mammiferi, senza che si possa dire chi si sia adattato meglio o quale sia il trucco più riuscito e soprattutto se si sarebbe potuto escogitare qualcosa di ancora migliore.

L'adattamento quindi non è assoluto ma relativo a certe condizioni: date certe condizioni ambientali e biologiche di partenza — essere un rettile, un insetto o una pianta con certe caratteristiche — si riscontra o meno un buon adattamento.

In terzo luogo, il grado di adattamento non si può misurare e neppure comparare: si tratta in sostanza di un parametro isolato e qualitativo. Non si può affermare che una struttura o un comportamento sono meglio adattati di altri, sia che questi ultimi siano presenti nella stessa specie sia in organismi di altre specie.

Al massimo si può affermare che un organismo che sta invadendo un nuovo ambiente è per il momento molto male adattato a certe caratteristiche di quell'ambiente. È molto probabile per esempio che un dromedario o un'ara avrebbero qualche difficoltà a vivere in Antartide. È più facile in sostanza riscontrare o sottolineare un non-adattamento che il contrario.

Ci dobbiamo quindi accontentare di una definizione intuitiva e approssimata di adattamento. In questa luce è decisamente inappropriata, come abbiamo visto, quella formulazione ingenua dell'evoluzionismo darwiniano secondo la quale la selezione naturale favorirebbe gli individui più adatti. Anche se alla fine il significato è quello, questa formulazione non soddisfa alcun criterio di scientificità e non ha nessun valore predittivo.

Si tratta di un'affermazione di grande effetto ma di natura intrinsecamente circolare. Come faccio infatti a sapere chi sono i più adatti se non osservando quegli individui che sono stati selezionati? Come faccio a distinguere gli adatti dai più adatti? Come faccio infine a comparare il grado di adattamento delle due sottospecie che così di frequente la selezione naturale finisce per sostituire a una data specie?

Questa formulazione avrebbe un significato non ambiguo solo se disponessimo di un criterio indipendente, e magari quantitativo, per valutare il grado di adattamento a determinate condizioni ambientali di una struttura o di una funzione, ma questo criterio, almeno per il momento, non esiste.

La formulazione corretta, anche se certamente meno soddisfacente dal punto di vista psicologico, è quella secondo cui la selezione naturale favorisce preferenzialmente alcuni individui di una data specie rispetto ad altri. Negli individui che la selezione ha favorito possiamo riconoscere alcuni tratti di un buon adattamento a quell'ambiente, ma anche altri che difficilmente potrebbero essere definiti tali. La selezione infatti opera sugli individui nel loro complesso, non sui singoli tratti biologici.

La formulazione più corretta potrebbe quindi essere: la selezione naturale assegna una capacità riproduttiva differenziale ai vari tipi di individui presenti in ogni istante all'interno di una data popolazione. Secondo la visione corrente, tutto il resto deriva da questa azione selettiva differenziale.

A parte questa formulazione comune, più cauta e fondamentalmente inoppugnabile, occorre dire che non tutti sono d'accordo riguardo a una svalutazione del concetto di adattamento biologico. Alcuni naturalisti, soprattutto di lingua e tradizione anglosassone, attribuiscono tutt'oggi una notevole importanza al concetto di adattamento e vengono di solito definiti adattamentisti o iper-adattamentisti.

A rigore, insomma, non esistono neppure i geni per fare le gambe, le mani o quelli per fare le antenne, contrariamente a quanto abbiamo detto in precedenza. Il singolo gene ignora, per così dire, ciò che è destinato a fare. È lì per sintetizzare il suo prodotto e basta. Se questo verrà utilizzato per produrre una struttura biologica oppure un'altra, non lo riguarda affatto.

Innanzitutto perché i prodotti di un gene possono essere utilizzati per la costruzione di un certo numero di strutture biologiche diverse nello stesso organismo. E, in secondo luogo, perché lo stesso gene può entrare nella costruzione di strutture biologiche diverse in specie differenti. Quello che cambia da una specie all'altra è la regia, non gli attori, che sono invece notevolmente conservati.

Di recente ha sollevato un certo scalpore la notizia che le spugne, che sono fra gli organismi più primitivi e che vivono in colonie, possiedono alcune proteine molto simili a quelle utilizzate nel sistema nervoso degli animali superiori per far funzionare le sinapsi, le minuscole connessioni dei nervi tra di loro. Nelle spugne, però, le proteine in questione sembrano compiere una funzione assai differente: regolare o meno l'adesione di una cellula all'altra nello sviluppo di una colonia.

A parte il fatto che, dal punto di vista astratto, le due funzioni non sono poi così differenti – in un caso come nell'altro si tratta di riconoscere e discriminare, una funzione fondamentale per la vita nel suo complesso –, che cosa c'è di strano in questa interessante scoperta?

La chiave per comprendere il fenomeno è tutto sommato molto semplice: i geni in questione non producono né strutture di riconoscimento fra cellule di spugna né complessi sinaptici di animali superiori; si limitano semplicemente a produrre il loro prodotto, che può essere utilizzato per questo oppure per quel fine. Il fatto è che la vita, in tutte le sue manifestazioni, dalla replicazione dei virus all'intelligenza e al pensiero, è di natura intrinsecamente e inesorabilmente molecolare.

Perché pensare che la replicazione cellulare e la digestione siano fenomeni molecolari, mentre la memoria e la creatività no? Gli attori sono sempre gli stessi. Inconsapevoli nel senso più metaforico del termine. Le molecole si aggregano, si parlano, si separano, che si tratti di spugne o di Mammiferi, di aggregazione cellulare o della risoluzione di un problema. La differenza non risiede nella natura intrinseca di questi fenomeni, ma nel nostro modo di considerarli. >>

EDOARDO BONCINELLI

(continua)