« Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista (Kenneth Boulding). »
Su questa ironica, ma ineccepibile, considerazione si basa la “filosofia” del “Movimento per la Decrescita Felice”, l’associazione fondata e guidata da Maurizio Pallante, economista alternativo ed esperto di risparmio energetico.
Nel lungo articolo che segue (scritto nel 2010), Maurizio Pallante ci parla dello strano rapporto che intercorre tra decrescita e occupazione: perché se è vero che - in linea di massima, ma non sempre - più crescita vuol dire più occupazione, non è necessariamente vero il contrario.
Su questa ironica, ma ineccepibile, considerazione si basa la “filosofia” del “Movimento per la Decrescita Felice”, l’associazione fondata e guidata da Maurizio Pallante, economista alternativo ed esperto di risparmio energetico.
Nel lungo articolo che segue (scritto nel 2010), Maurizio Pallante ci parla dello strano rapporto che intercorre tra decrescita e occupazione: perché se è vero che - in linea di massima, ma non sempre - più crescita vuol dire più occupazione, non è necessariamente vero il contrario.
LUMEN
(prima parte)
<< Una delle obbiezioni che più di frequente viene avanzata alla decrescita è che provocherebbe una diminuzione dell’occupazione. A maggior ragione in questo periodo in cui le economie dei paesi industrializzati stanno attraversando una crisi da cui non sanno come uscire.
Questa obbiezione non regge alla prova dei fatti, mentre invece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, se correttamente intesa e guidata, consenta, probabilmente è l’unico modo per consentire, un aumento dell’occupazione e un superamento della crisi con l’apertura non solo di un nuovo ciclo economico, ma di una fase storica più avanzata di quella che abbiamo vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale.
Prima di entrare nel merito è utile chiarire che cos’è la decrescita perché molti associano a questa parola un’idea negativa di regresso, diminuzione del benessere, ristrettezze economiche. Questa interpretazione si fonda sulla convinzione che l’indicatore della crescita, il prodotto interno lordo (PIL), misuri la quantità dei beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un sistema economico e produttivo nel corso di un anno.
Se così fosse, l’incremento del prodotto interno lordo misurerebbe l’aumento del benessere, la decrescita la sua diminuzione. In realtà il prodotto interno lordo è un indicatore monetario e, come tale, può misurare solo il valore economico degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro. Ovvero, delle merci. Ma non tutte le merci, non tutti gli oggetti e i servizi che si scambiano con denaro, sono “beni”: rispondono cioè a un bisogno e fanno aumentare il benessere.
Per sgombrare il campo da trite e ritrite considerazioni psicologiche sulla potenziale illimitatezza della propensione al consumo, i bisogni a cui si fa riferimento non sono soggettivi, ma oggettivi.
Un edificio mal costruito, che consuma 20 metri cubi di gas al metro quadrato all’anno per il riscaldamento, fa crescere il prodotto interno lordo più di un edificio ben costruito che ne consuma 5, ma 15 metri cubi su 20, i tre quarti del gas utilizzato, sono una merce (che, tra l’altro, si paga sempre più cara), non sono però un bene, perché non servono a scaldare l’edificio. Non rispondono a nessun bisogno, non hanno nessuna utilità, provocano anzi un danno perché contribuiscono ad aggravare inutilmente l’effetto serra.
La decrescita non è una diminuzione del prodotto interno lordo tout court, ma una riduzione guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ossia degli sprechi. Per ridurre la produzione di “merci che non sono beni” occorrono tecnologie più avanzate di quelle attualmente in uso.
Da ciò deriva la necessità di creare occupazione in attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili, perché non solo riducono il consumo di risorse che stanno diventando sempre più rare - si pensi in particolare alle fonti fossili - ma anche gli effetti negativi sugli ambienti che inevitabilmente ne derivano, sia in fase di prelievo, sia in fase di utilizzazione.
Di conseguenza, la decrescita non ha niente a che vedere con la recessione. Tra la decrescita e la recessione c’è un rapporto analogo a quello tra chi mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta per stare meglio e chi è costretto a farlo perché non ha abbastanza da mangiare.
Queste precisazioni consentono di argomentare tre tesi che apparentemente sembrano paradossali, ma in realtà forniscono gli strumenti per impostare una politica economica e industriale in grado di creare occupazione e riavviare il ciclo economico.
La prima è che la crescita da almeno trent’anni non crea occupazione. La seconda è che le politiche economiche tradizionali, finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la spesa pubblica e la riduzione delle tasse, stanno dimostrando di non essere più in grado di farlo.
La terza è che la decrescita guidata della produzione di “merci che non sono beni” è l’unico modo di creare occupazione in questa fase nei paesi industrializzati. Che cioè il superamento della crisi economica si può realizzare solo sviluppando le tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse, riducendone il consumo e, di conseguenza, gli impatti ambientali che generano.
L’affermazione che la crescita economica sia indispensabile per far crescere l’occupazione viene ripetuta come un mantra benché, a differenza del mantra, non abbia lo scopo di liberare la mente dalla realtà illusoria, ma di avvilupparla in una illusione irreale, priva di riscontri empirici e di fondamenti teorici.
Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (…); la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998).
Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola dapprima dall’agricoltura all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, anche dall’industria ai servizi.
Se dalla constatazione dei dati si passa alla ricerca delle cause, non è difficile capire che in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioni qualitative della loro utilità, il mercato impone che le aziende accrescano la loro competitività (secondo mantra rovesciato) investendo in tecnologie “labour saving” per aumentare la produttività (terzo mantra della serie), che tradotto in chiaro significa: produrre sempre di più con sempre meno addetti.
Cosa che a livello aziendale può risultare vantaggiosa, ma a livello macroeconomico comporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una crescita dell’offerta. Un problema non di poco conto che - se non ci si nasconde dietro il risibile alibi di imputare un carattere prevalentemente finanziario alla crisi o alle cause che l’hanno generata - è la causa reale della crisi economica, produttiva e occupazionale che stiamo vivendo.
La sua gravità è accentuata dal fatto che s’intreccia con una crisi energetica e ambientale altrettanto grave e molto vicina al punto di non ritorno, ammesso che non sia già stato superato. Da studi recentissimi (2010) del Pentagono e del Ministero della difesa tedesco risulta che il picco di Hubbert della produzione petrolifera sia stato raggiunto.
Secondo le valutazioni dell’IPCC, se si riuscirà a ridurre le emissioni di CO2 del 20 per cento entro il 2020, cosa tecnicamente possibile se ci fosse la dovuta sensibilità da parte della politica e dell’opinione pubblica (ma non c’è), in questo secolo la temperatura media della terra aumenterà di 2 °C, il triplo del secolo scorso. Se, come è più probabile, non si riuscirà, la temperatura media della terra aumenterà più di 2 °C e si autoalimenterà progressivamente, sfuggendo a ogni possibilità di controllo umano. >>
MAURIZIO PALLANTE
(continua)
(prima parte)
<< Una delle obbiezioni che più di frequente viene avanzata alla decrescita è che provocherebbe una diminuzione dell’occupazione. A maggior ragione in questo periodo in cui le economie dei paesi industrializzati stanno attraversando una crisi da cui non sanno come uscire.
Questa obbiezione non regge alla prova dei fatti, mentre invece può essere vero il contrario, che cioè la decrescita, se correttamente intesa e guidata, consenta, probabilmente è l’unico modo per consentire, un aumento dell’occupazione e un superamento della crisi con l’apertura non solo di un nuovo ciclo economico, ma di una fase storica più avanzata di quella che abbiamo vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale.
Prima di entrare nel merito è utile chiarire che cos’è la decrescita perché molti associano a questa parola un’idea negativa di regresso, diminuzione del benessere, ristrettezze economiche. Questa interpretazione si fonda sulla convinzione che l’indicatore della crescita, il prodotto interno lordo (PIL), misuri la quantità dei beni che vengono prodotti e dei servizi che vengono forniti da un sistema economico e produttivo nel corso di un anno.
Se così fosse, l’incremento del prodotto interno lordo misurerebbe l’aumento del benessere, la decrescita la sua diminuzione. In realtà il prodotto interno lordo è un indicatore monetario e, come tale, può misurare solo il valore economico degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro. Ovvero, delle merci. Ma non tutte le merci, non tutti gli oggetti e i servizi che si scambiano con denaro, sono “beni”: rispondono cioè a un bisogno e fanno aumentare il benessere.
Per sgombrare il campo da trite e ritrite considerazioni psicologiche sulla potenziale illimitatezza della propensione al consumo, i bisogni a cui si fa riferimento non sono soggettivi, ma oggettivi.
Un edificio mal costruito, che consuma 20 metri cubi di gas al metro quadrato all’anno per il riscaldamento, fa crescere il prodotto interno lordo più di un edificio ben costruito che ne consuma 5, ma 15 metri cubi su 20, i tre quarti del gas utilizzato, sono una merce (che, tra l’altro, si paga sempre più cara), non sono però un bene, perché non servono a scaldare l’edificio. Non rispondono a nessun bisogno, non hanno nessuna utilità, provocano anzi un danno perché contribuiscono ad aggravare inutilmente l’effetto serra.
La decrescita non è una diminuzione del prodotto interno lordo tout court, ma una riduzione guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni, ossia degli sprechi. Per ridurre la produzione di “merci che non sono beni” occorrono tecnologie più avanzate di quelle attualmente in uso.
Da ciò deriva la necessità di creare occupazione in attività professionalmente più evolute e oggettivamente utili, perché non solo riducono il consumo di risorse che stanno diventando sempre più rare - si pensi in particolare alle fonti fossili - ma anche gli effetti negativi sugli ambienti che inevitabilmente ne derivano, sia in fase di prelievo, sia in fase di utilizzazione.
Di conseguenza, la decrescita non ha niente a che vedere con la recessione. Tra la decrescita e la recessione c’è un rapporto analogo a quello tra chi mangia meno di quanto vorrebbe perché ha deciso di fare una dieta per stare meglio e chi è costretto a farlo perché non ha abbastanza da mangiare.
Queste precisazioni consentono di argomentare tre tesi che apparentemente sembrano paradossali, ma in realtà forniscono gli strumenti per impostare una politica economica e industriale in grado di creare occupazione e riavviare il ciclo economico.
La prima è che la crescita da almeno trent’anni non crea occupazione. La seconda è che le politiche economiche tradizionali, finalizzate a superare la crisi e a rilanciare la crescita sostenendo la domanda attraverso la spesa pubblica e la riduzione delle tasse, stanno dimostrando di non essere più in grado di farlo.
La terza è che la decrescita guidata della produzione di “merci che non sono beni” è l’unico modo di creare occupazione in questa fase nei paesi industrializzati. Che cioè il superamento della crisi economica si può realizzare solo sviluppando le tecnologie che consentono di attenuare la crisi ambientale aumentando l’efficienza con cui si usano le risorse, riducendone il consumo e, di conseguenza, gli impatti ambientali che generano.
L’affermazione che la crescita economica sia indispensabile per far crescere l’occupazione viene ripetuta come un mantra benché, a differenza del mantra, non abbia lo scopo di liberare la mente dalla realtà illusoria, ma di avvilupparla in una illusione irreale, priva di riscontri empirici e di fondamenti teorici.
Dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi di lire (…); la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento, ma il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998).
Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41,5 al 35,8 per cento della popolazione. Si è limitata a ridistribuirla tra i tre settori produttivi, spostandola dapprima dall’agricoltura all’industria e ai servizi, poi, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, anche dall’industria ai servizi.
Se dalla constatazione dei dati si passa alla ricerca delle cause, non è difficile capire che in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioni qualitative della loro utilità, il mercato impone che le aziende accrescano la loro competitività (secondo mantra rovesciato) investendo in tecnologie “labour saving” per aumentare la produttività (terzo mantra della serie), che tradotto in chiaro significa: produrre sempre di più con sempre meno addetti.
Cosa che a livello aziendale può risultare vantaggiosa, ma a livello macroeconomico comporta simultaneamente una diminuzione della domanda e una crescita dell’offerta. Un problema non di poco conto che - se non ci si nasconde dietro il risibile alibi di imputare un carattere prevalentemente finanziario alla crisi o alle cause che l’hanno generata - è la causa reale della crisi economica, produttiva e occupazionale che stiamo vivendo.
La sua gravità è accentuata dal fatto che s’intreccia con una crisi energetica e ambientale altrettanto grave e molto vicina al punto di non ritorno, ammesso che non sia già stato superato. Da studi recentissimi (2010) del Pentagono e del Ministero della difesa tedesco risulta che il picco di Hubbert della produzione petrolifera sia stato raggiunto.
Secondo le valutazioni dell’IPCC, se si riuscirà a ridurre le emissioni di CO2 del 20 per cento entro il 2020, cosa tecnicamente possibile se ci fosse la dovuta sensibilità da parte della politica e dell’opinione pubblica (ma non c’è), in questo secolo la temperatura media della terra aumenterà di 2 °C, il triplo del secolo scorso. Se, come è più probabile, non si riuscirà, la temperatura media della terra aumenterà più di 2 °C e si autoalimenterà progressivamente, sfuggendo a ogni possibilità di controllo umano. >>
MAURIZIO PALLANTE
(continua)
Argomentazioni davvero idiote, prive di raziocinio, da assemblea condominiale:
RispondiElimina- l'essere un bene e' dato al suo valore, e il valore non e' un bene materiale, e' un giudizio individuale dato da una persona (il "popolo" non e' una persona e percio' non puo' dare giudizi);
- "un bene che non e' un bene" quindi e' un assurdo non solo verbale ma anche logico: per giudicare cosa e' un bene e cosa no, non esiste un metodo oggettivo, che astragga dal soggetto giudicante; cio' che per Pallante e' un valore, per altri e' un disvalore (compreso il restare in coda in una macchina con l'aria condizionata e impianto stereo, compreso abitare in una casa poco isolata e zero riscaldamento, ma con 5 maglioni e 4 paia di calzini di lana come faccio io, perche' a me piace cosi', posso o il ducetto Pallante me lo proibisce, dato che deve essere obbligatorio per legge avere 20 gradi e non 10 o 35?);
- l'economia misura il valore, per cui la sua crescita significa solamente che aumenta l'ammontare totale del "valore" come descritto sopra, che oggi come oggi, ma solo per la sua parte tassabile, ed e' espresso con unita' di misura monetarie; il valore di un bene e' dato da quanto un soggetto e' liberamente disposto a spendere per l'acquisizione di quel bene; ma ci sono anche valori che, PER FORTUNA, non sono prezzabili, e uno di quelli piu' importanti e' la liberta', cosa che i tipi come Pallante e' incomprensibile, tutto deve avere un prezzo (le famose esternalita' positive e negative, economicismo tecnocratico e disumano portato all'estremo);
- sotto sotto quello che resta e' che il personaggio e il suo gruppo di illuminati sanno cos'ha un valore, gli umili uomini comuni no: un'accozzaglia di autoritarismo ottuso malamente mascherato cosi' e' difficile da trovare.
Semplicemente odioso.
Vi avevo raccomandato questo:
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=Woz3JtRClgw
<< ci sono anche valori che, PER FORTUNA, non sono prezzabili, e uno di quelli piu' importanti e' la liberta', cosa che i tipi come Pallante e' incomprensibile >>
RispondiEliminaLo pensi davvero ?
A me non pare proprio.
Premesso che la parte critica, ovvero l'analisi dei difetti dell'attuale BAU, mi sembra difficilmente contestabile, posso convenire che la parte propositiva contenga una buona dose di "ingenuità".
Ma tutto questo autoritarismo, onestamente, non ce lo vedo.
"Ma tutto questo autoritarismo, onestamente, non ce lo vedo."
EliminaIo si', come pensi che, se Pallante andasse al governo, metterebbe in pratica i suoi propositi? Con la sburocratizzazione?
Ma, peggio, la mentalita' soggiacente e' esplicitamente autoritaria, dato che pretende di definire dall'alto cosa e' un "bene" e cosa no, con quella tipica odiosa asettica presunzione dello spirito autoritario, come ho un po' confusamente cercato di spiegare sopra, per la rabbia. :)
Questi sono gli stessi che predicano una cosa, ma poi quando vanno al governo, non contraddicendosi ma bensi' per le logiche conseguenze della cosa che predicano, ci sommergono di direttive sulla lunghezza del cetriolo, sono quelli che mettono le chiavi elettroniche personalizzate sui cassonetti della monnezza, perche' la monnezza e' la "fonte di materie prime del futuro", ma intanto invece di pagartela visto che e' una materia prima che gli conferisci, ti raddoppiano ogni anno la tassa. Coglioni e' dir poco.
Sono gli utili idioti dell'aumento della burocrazia e della complessita' che, col pretesto dell'ecologia e dela sicurezza, del "mondo perfetto", fanno aumentare i consumi. Cosa credi che il sole 24 ore e la stampa economica si sia buttata a capofitto su queste fregnacce, approfittando per richiedere incentivi e rottamazioni a tutto spiano, ottenendoli?
Su una cosa do' torto a M. Fini nel video citato sopra: quando dice che il tentativo di riformare di Pallante prolunghera' l'agonia del sistema, sbaglia, l'accelerera' facendo collassare tutto molto prima, e molto prima di quanto faccia il BAU.
<< la mentalita' soggiacente e' esplicitamente autoritaria, dato che pretende di definire dall'alto cosa e' un "bene" e cosa no >>
EliminaPuò darsi che sia vero, caro Diaz, ma può anche darsi di no.
Quello che ipotizza Pallante non mi pare propriamente uno 'stato etico' - tipico esempio di stato impiccione - ma piuttosto uno stato che sceglie di modificare (magari semplicemente con la leva fiscale) i percorsi naturali dell'economia di mercato, passando dal puro BAU di consumo ad un ri-utilizzo intelligente.
Ed è un tentativo che, date le tristi prospettive dell'economia tradizionale, vale la pena di compiere, essendo minimo (a mio avviso) il rischio di deriva autoritaria.
In fondo una burocrazia soffocante ce l'abbiamo già (difficile fare peggio), così come l'intervento della mano pubblica sulle linee di sviluppo economico.
Potrebbe non funzionare ? Certamente.
Finirebbe per essere peggio di oggi ? Io non lo credo.
"i percorsi naturali dell'economia di mercato"
EliminaMa quando li abbiamo mai visti i "percorsi naturali dell'economia di mercato"... e basta con questo mito fatto di menzogne ripetute fino alla nausea, tutto quello che ci circonda e' frutto di scelte strategiche decise a livello statale/sindacale, in modo piu' o meno abborracciato, almeno dal 1925 in poi.
Cio' non esclude ovviamente che l'economia di mercato avrebbe potuto fare ancora peggio, ma non lo sappiamo ne' lo sapremo mai, perche' almeno nel nostro paese clerico-fascist-comunista, essa non si e' mai vista perlomeno nelle ultime generazioni.
"nel nostro paese clerico-fascist-comunista"
Eliminae dimenticavo corporativo...
Quello che ipotizza Pallante non mi pare propriamente uno 'stato etico' - tipico esempio di stato impiccione - ma piuttosto "uno stato che sceglie di modificare (magari semplicemente con la leva fiscale) i percorsi naturali dell'economia di mercato, passando dal puro BAU di consumo ad un ri-utilizzo intelligente"
EliminaMa guarda che questo di cui parli E' uno stato etico: uno Stato che decide cosa devi fare e cosa no, con la sua "superiore intelligenza e saggezza", anche solo tramite incentivi e disincentivi, e' autoritario. Non ce ne rendiamo conto solo perche' non abbiamo mai sperimentato altro. Salvo poi affermare, proprio per tale ignavia, che viviamo sotto il giogo del neoliberismo... ma per piacere.
Lo vedi che siamo impregnati di clerico-fascismo (di destra o di sinistra cambia poco), che e' la categoria filtrante con cui non possiamo fare a meno di guardare al nostro vivere sociale.
Io non voglio con questo dire che il (neo)liberismo sarebbe migliore, voglio solo dire che non avendolo MAI provato non lo possiamo sapere, perlomeno non in modo "sperimentale".
Caro Diaz, tra uno 'stato etico' e uno stato che interviene nell'economia, cosa sempre avvenuta (come sottolinei anche tu) dall'ottocento in poi, mi sembra che esista ancora una certa differenza.
EliminaD'altra parte il liberismo assoluto non è praticabile, per un semplice, insuperabile motivo: che presuppone la privatizzazione sia degli utili che delle perdite.
Invece le elites econmiche, tramite il loro controllo di quelle politiche, riscono ad ottenere legalmente (tramite una adeguata legislazione), la privatizzazione degli utili e la pubblicizzazione delle perdite.
A quel punto, tra un Craxi (faccio un nome a caso) e un Pallante, mi tengo Pallante.
"tra uno 'stato etico' e uno stato che interviene nell'economia mi sembra che esista ancora una certa differenza"
EliminaNo, se l'intervento raggiunge i valori assoluti che raggiunge oggi, e ancora meno se all'intervento economico si sommano centinaia di migliaia di prescrizioni normative e perbenistiche in tutti i campi, tipiche proprio di uno Stato etico, "che sa lui" cosa e' bene e cosa no per i suoi cittadini (stato etico vuol dire solo questo).
Sai cosa vuol dire SS no? Vuol dire "squadre di protezione". E' una tecnica tipica delle dittature (e puo' trattarsi di istituzioni) arrivare al potere e conservarlo col pretesto di volere il bene degli altri. Se ci pensiamo un attimo vediamo che tutte quelle del XX secolo hanno operato cosi': volevano salvare il mondo, o perlomeno, piu' modestamente, i loro protetti piu' meritevoli, la loro nazione, razza, classe, l'ambiente, dalle prevaricazioni, quasi sempre inventate all'uopo, e sempre molto esagerate, altrui. Volevano solo proteggere e "mettere ordine".
"le elites economiche, tramite il loro controllo di quelle politiche, riscono ad ottenere legalmente (tramite una adeguata legislazione), la privatizzazione degli utili e la pubblicizzazione delle perdite."
Appunto, questo non e' il liberismo, questo e' intervento dello Stato nell'economia, e non mi pare vada del tutto a suo merito. Semmai serve a dimostrare che e' meglio cercare di perseguire il liberismo (che comunque non c'e' nessun rischio che diventi prevaricante) che asservirsi gia' in partenza all'una o all'altra prevaricazione. La sotira mostra che combattere i monopoli sostituendoli con un unico grande monopolio, illudendosi di poterlo poi controllare, e' un'idiozia. (vedi, e' sempre la mania di controllo quella che riaffiora)
"A quel punto, tra un Craxi (faccio un nome a caso) e un Pallante, mi tengo Pallante."
Direi che abbiamo abbastanza anni ed esperienza da poter concludere che se al posto di Craxi ci fosse stato al governo chiunque allora rappresentava l'opposizione di sinistra dell'epoca, sarebbe stato ancora peggio. E sarebbe stato ancora peggio del peggio se avesse prevalso e governato quell'opposizione che non rappresentava il "comunismo reale" del PCI, ma quella ancora piu' idealistica, nelle sue sfumature maoistiche, dell'estrema sinistra, da cui tutto il movimento ambientalista deriva, ereditandone la volonta' di potenza (a cui possiamo ascrivere, ideologicamente, Pallante). La cambogia dei khmer rossi era molto peggio della russia del comunismo reale proprio perche' voleva fare molto meglio e molto piu' in fretta: se non erro in pochissimi anni riuscirono a far morire un terzo o piu' della popolazione, come una pestilenza medievale.
Oggi e' abbastanza chiaro che Craxi e' stato distrutto non perche' ladro (come rubavano i socialisti rubavano tutti i partiti di governo o sottogoverno, anzi istituzionalmente erano tutti funzionali a procurare privilegi ai loro iscritti, sindacati compresi e forse i peggiori di tutti), bensi' perche' voleva trasformare il partito socialista in un normale partito socialdemocratico, e sostituire il PCI come partito di maggioranza relativa a sinistra, in modo da poter avere un ricambio di governo che non comportasse la fine di quel po' di democrazia liberale che, grazie al fatto di aver perso la guerra, avevamo raggiunto.
Caro Diaz, certo Craxi rubava come tutti gli altri, però proprio il suo progetto di fare del (relativamente piccolo) PSI il protagonista della sinistra a spese del PCI lo costringeva a rubare di più.
EliminaPerchè il PCI, è ben noto, aveva i finanziamenti sovietici ed i contributi sindacali che lo aiutavano a gestire la (costosissima) baracca del partito.
Craxi, invece, aveva solo il sottogoverno (non credo che gli USA fossero particolarmente innamorati di lui...).
"in un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci indipendentemente da valutazioni qualitative della loro utilità, il mercato impone"
RispondiEliminaChe razza di nonsense da stalinista, il mercato (libero!) imporrebbe che quelle aziende falliscano perche' producono beni che nessuno compra dato che sono considerati qualitativamente inutili, che e' quello che sta gia' succedendo spontaneamente se non fosse che per tenere insieme il BAU e il PIL lo Stato, attraverso leggi e regolamenti ispirati propri da quegli "utili idioti" di leninistica memoria, fa di tutto per imporne il consumo, e ne impone almeno l'80 per cento (questa o di piu' e' l'intermediazione dello stato nella nostra economia), e ad ogni istante fa nuove leggi per farli aumentare ancora di piu'.
Lo sapete qual e' uno dei maggiori stimoli all'economia moderna? La scuola! (o educazione dei pargoli in senso lato) Mette in moto una quantita' enorme di risorse materiali per il suo svolgersi. Ennesima forma di "consumo obbligatorio che non e' un bene" per cui la gente, a meno che non sia impazzita o congenitamente imbecille, se puo' scegliere, non fa piu' figli, dato che costano troppo e, nel "software applicativo", sono un "bene" che non vale la candela.
<< Lo sapete qual e' uno dei maggiori stimoli all'economia moderna? La scuola! (o educazione dei pargoli in senso lato) >>
EliminaMah, forse poteva essere vero nei decenni scorsi, ma oggi non saprei.
La scuola, la cultura e l'istruzione (per non parlare dei libri) mi sembrano sempre meno centrali nella nostra società, scavalcate e fagocitate dal suo cugino più attraente che si chiama 'divertimento', da intendersi nel senso più ampio del termine.
Ma posso sbagliare.
Nelle scuole, fra discenti, insegnanti, e indotto vario, sara' occupato in modo freneticamente inutile almeno un terzo della popolazione. Basta osservare che la scolarizzazione ormai copre un terzo della vita utile delle persone gia' solo come studenti. Poi c'e' il resto che serve a far funzionare il tutto. Uno spreco immane di energia.
EliminaUn terzo mi pare davvero tanto.
EliminaNon insisto, però, perchè, avendo perso contatto (anche indirettamente) con la scuola vissuta, non conosco adeguatamente l'argomento.
Fra l'altro si tratta sempre di piu' di una "scuola etica", in quanto pretende non tanto di fornire al cittadino la cultura e gli strumenti per giudicare e scegliere quanto piu' liberamente, bensi' di indottrinarlo ad essere appunto un "perfetto cittadino" secondo i dettami della costituzione piu' bella del mondo e le manie e le mode del momento.
EliminaQuante volte abbiamo sentito perorazioni per questo, per una scuola che "formi il cittadino"?
Ma anche questo, nel suo piccolo, e' un progetto se non totalitario, in una certa misura autoritario.
Trovate un sacco di materiale critico in proposito sui vecchi post del blog del compianto Giorgio Israel, circa la differenza fra una cultura che liberi e una che indottrini.
Certo lo stato, con tutti i soldi che butta nel comparto scolastico, non può essere del tutto neutrale.
EliminaE senza arrivare al 'libro e moschetto' di mussoliniana memoria, è ovvio che cercherà di fare dei piccoli studenti dei buoni cittadini, rispettosi del governo e dei valori dominanti.
E questo lo si vede soprattutto nello studio della storia, argomento su cui sto preparando un post per le prossime settimane.