di Giacomo Leopardi
(seconda parte)
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
Spesso in questi luoghi desolati alle pendici del vulcano, che la lava indurita ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde del mare, trascorro la notte; e sulla campagna triste in azzurro purissimo vedo dall’alto brillare le stelle, alle quali da lontano il mare fa da specchio, e vedo tutto intorno, nella cavità serena, immensa, del cielo, brillare di scintille il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senz'alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo?
E quando fisso quelle luci, che agli occhi sembrano un punto, mentre sono tanto grandi che un punto, rispetto a loro, sono in realtà la terra e il mare; alle quali luci non solo l’uomo, ma anche questo pianeta, dove l’uomo è nulla, è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa, che a noi pare quasi nebbia, alla quale non solo l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel numero e nella grandezza, compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa; al pensiero mio cosa sembri allora tu, genere umano ?
E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Ed io, ricordando la tua condizione miserevole, di cui è testimonianza il suolo che calpesto; e poi, dall'altra parte, ricordando che ti credi di essere stata destinata ad essere dominatrice e fine ultimo dell’universo; e ricordando quante volte ti piacque raccontare che in questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra, scendevano per causa tua gli dei, creatori dell’universo, e conversavano spesso, per diletto, insieme agli uomini; e ricordando che perfino il secolo attuale, che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, reca insulto agli uomini saggi rinnovando sogni ormai ridicoli; quale sentimento o quale pensiero, infelice umanità, assale alla fine il mio cuore?
Non so se prevale il riso oppure la pietà.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi,
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
di liquefatti massi
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là su l'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Come un piccolo frutto, in autunno inoltrato, la sola maturazione, senza il concorso di altre forze, fa precipitare a terra, e, cadendo, schiaccia, annienta e sommerge in un attimo i nidi scavati nel molle terreno dalle formiche con grande fatica e lavoro, e le provviste che quel popolo laborioso aveva accumulato con previdenza, a gara, durante l’estate; così, allo stesso modo, la tenebra ed una valanga di ceneri, di rocce laviche e di pietre, miste a ruscelli di lava, piombando dall’alto, dopo esser stata scagliata verso il cielo dalle viscere fragorose del vulcano, oppure un’immensa piena di massi liquefatti, e di metalli e di sabbia infuocata, scendendo furiosa tra l'erba lungo il pendio della montagna, sconvolse, distrusse e ricoprì in pochi istanti le città, che il mare lambiva là sulla costa: per cui su quelle città ora pascola la capra, e nuove città sorgono dall’altra parte, sopra quelle sepolte e l’alto monte quasi calpesta con il suo piede le mura cadute.
Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
La natura non nutre più attenzione, né maggiore considerazione per la specie umana che per la formica, e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno numerosa.
Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli.
Ben milleottocento anni passarono dopo che sparirono, sepolti dalla forza della lava infuocata, le città popolose, e il contadino, intento alla cura dei vigneti, che a stento in questi campi la terra arida e bruciata fa crescere, ancora alza lo sguardo con apprensione alla sommità del vulcano, che per nulla divenuta più mite, ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia strage a lui ed ai figli e ai loro miseri averi.
E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
su l'arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E spesso il meschino, trascorrendo la notte insonne all’aperto sul tetto della modesta abitazione, e sobbalzando più volte per la paura, scruta con attenzione l’avanzare del fronte lavico, che si riversa dalle viscere inesauribili del vulcano sul pendio sabbioso, al cui bagliore riluce la marina di Capri, il porto di Napoli e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
E se vede avvicinarsi la colata, o se sente gorgogliare nella profondità del pozzo di casa l’acqua che ribolle, subito sveglia i figli e la moglie e fugge via, portando con sé quante più cose può, e vede da lontano la sua abitazione di sempre, e il piccolo campo, che fu l’unica difesa dalla fame, preda della lava che avanza crepitando, e che inesorabile, per sempre, si distende sul campo e sulla casa.
Torna al celeste raggio
dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.
Dopo un oblio di secoli, torna alla luce del sole l’estinta Pompei, come uno scheletro, che il desiderio di tesori o la pietà restituisce all'aria aperta, togliendolo dalla terra; e dal foro deserto degli scavi, il visitatore, in piedi tra le file delle colonne spezzate, contempla da lontano la doppia cima del vulcano il pennacchio di fumo che ancora minaccia le rovine sparse intorno.
E nell'orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s'aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
E nell’orrore della notte che cela ogni cosa, per i teatri vuoti, per i templi deturpati e per le case distrutte, dove il pipistrello nasconde i piccoli, come una fiaccola sinistra che lugubre si aggiri per i palazzi spopolati, corre il bagliore della lava mortale, che da lontano rosseggia nelle tenebre della notte e colora i luoghi tutto intorno.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star.
Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
Così, indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni dagli avi ai nipoti, la natura si mantiene sempre giovane e vigorosa, ed anzi il suo cammino è così lungo ch'ella sembra star ferma.
Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue diverse: ella non se ne avvede, e nonostante questo l'uomo si vuole arrogare il vanto di essere eterno.
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste.
E tu, flessuosa ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate, anche tu presto soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava tornando al luogo già altra volta visitato stenderà il suo mantello avido di morte sulle tenere selve di ginestre.
E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
E, senza opporre resistenza, piegherai il tuo capo innocente sotto il peso della lava: ma senza averlo piegato prima inutilmente dinnanzi all'oppressore futuro, ma neanche levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove sei nata ed hai dimora non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma lo farai ben più saggia, tanto meno insensata dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che le tue stirpi, per merito tuo o del destino, siano diventate immortali.