L’intervista
virtuale di questo post ha come vittima l’economista Maurizio Pallante,
fondatore del “Movimento della decrescita felice”,
con il quale parleremo dei guasti prodotti dalla costruzione e dalla
cementificazione sfrenata che hanno colpito l’Italia in questi ultimi
decenni, ma anche della possibilità di trovare un punto di equilibrio
tra la tutela del territorio e una edilizia intelligente..
LUMEN
LUMEN
– Professor Pallante, come sono state possibili le devastazioni
dell’ambiente che si sono verificate in Italia nell’ultimo mezzo secolo ?
PALLANTE -
I processi, devastanti e irreversibili, di trasformazione
del paesaggio e, insieme ad essi, del sistema dei valori delle
generazioni che li abitavano, non si sarebbero potuti realizzare se non
fossero
stati vissuti come fattori di progresso, se non avessero avuto il
consenso di tutti gli strati sociali, se tutti gli strati sociali non
fossero stati convinti che avrebbero comportato miglioramenti alle loro
condizioni di vita.
LUMEN – C’era quindi la ricerca, magari miope e distorta, di un maggior benessere.
PALLANTE – Sì. L’Italia del dopoguerra voleva crescere, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo, il progresso. Questi sono stati in sintesi i moventi del processo che, con l’apporto di una potenza tecnologica sempre maggiore, in poco più di cinquant’anni ha distrutto i paesaggi a cui gli esseri umani che li hanno abitati avevano aggiunto col lavoro di secoli bellezza alla bellezza originaria. Questi sono stati i capisaldi della cultura che lo hanno reso desiderabile e connotato positivamente nell’immaginario collettivo.
LUMEN - Cosa significa il verbo “crescere” quando viene applicato alle attività economiche e produttive ?
PALLANTE - La crescita non è, come si fa credere
e si fa finta di credere, l’aumento della produzione di beni che
migliorano la qualità della vita, perché il parametro che la misura, il
famoso PIL (prodotto interno lordo), può calcolare soltanto il valore
monetario degli oggetti e dei servizi che
vengono scambiati con denaro, cioè le merci, ma non può dare nessuna
indicazione sulla loro qualità, sulla loro utilità, o sui danni che
causano agli ambienti e alle persone nei modi in cui vengono prodotte,
quando vengono utilizzate e quando vengono smaltite,
come una bilancia può misurare soltanto il peso e non può dare nessuna
indicazione sulla qualità di ciò che pesa.
Può indicare quanto pesa una certa quantità di mele, ma non se sono buone o cattive, mature, acide o appassite.
LUMEN – Mi sembrano considerazioni abbastanza ovvie e banali.
PALLANTE
– In effetti lo sono, ma sono state escluse dalla valutazione della
produzione di merci, e – in questo modo - la quantità ha preso il posto
della qualità.
«Più» è diventato sinonimo di «meglio». Mentre le economie finalizzate alla sussistenza, alla
produzione di beni per auto-consumo, si fondano sulla misura, perché
produrre più di quello che serve non
avrebbe senso, le economie finalizzate alla crescita della produzione
di merci si fondano sulla dismisura.
LUMEN – Già gli antichi romani dicevano “in medio stat virus”.
PALLANTE
- Per produrre sempre di più occorre in primo luogo accrescere in
continuazione la potenza tecnologica, costruire macchine operatrici
sempre più potenti
in grado di aumentare la produttività. Ma se se si produce sempre di più occorre indurre le persone
a consumare sempre di più, perché se tutto ciò che viene prodotto non
venisse consumato, non si potrebbe
continuare a produrre sempre di più.
LUMEN – Un meccanismo infernale, direi.
PALLANTE
– Sarebbe stato possibile devastare alcuni tra i paesaggi più belli
d’Italia se il «più» non fosse stato identificato nell’immaginario
collettivo col
«meglio» ? Se il modo di produzione industriale e le innovazioni
tecnologiche non fossero state considerate fattori di progresso perché
consentono di accrescere la produzione di merci ? Se la crescita dei
consumi di merci non fosse stata considerata un miglioramento
rispetto all’auto-produzione di beni ? Se la salubrità dei luoghi e la
salute umana fossero state considerate più importanti del reddito
monetario ?
LUMEN – Sicuramente no.
PALLANTE – Ne consegue che, oggi, non è possibile fermare la devastazione dei paesaggi senza una rivoluzione culturale
che smonti nell’immaginario collettivo il valore della crescita.
LUMEN – E’ una parola…
PALLANTE -
Tutti
i piani regolatori hanno sempre previsto, si potrebbe dire «per
definizione», consistenti aumenti delle superfici edificabili,
indipendentemente
dal colore politico delle giunte. Più in generale l’edilizia ha svolto
una funzione di traino per la crescita economica in tutti i paesi
industrializzati. Ma se la crescita del settore edile è il fattore
trainante della crescita economica, e si è convinti
che l’urbanesimo costituisca un progresso rispetto alle miserie della
civiltà contadina, come si può pensare di ridurre le devastazioni
paesaggistiche ponendo semplicemente dei limiti di legge a tutela dei
paesaggi ?
LUMEN – In effetti, appare un’arma inadeguata.
PALLANTE
- I paesaggi sono stati disegnati nei secoli dalla civiltà contadina.
Pertanto la loro tutela, non fosse altro dal punto di vista
idro-geologico, non
si può realizzare se non nell’ambito di una rivalutazione della civiltà
contadina e di un ridimensionamento dell’urbanesimo. Un’edilizia capace di aggiungere bellezza alla bellezza originaria dei luoghi
si può sviluppare soltanto all’interno di un paradigma culturale che liberi il fare dalla finalizzazione a fare sempre di più
(la crescita della produzione di merci) e lo ridefinisca nella
sua connaturata dimensione qualitativa, facendolo tornare ad essere un
fare bene finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto.
LUMEN – Ed arriviamo quindi al concetto di “decrescita”.
PALLANTE – Sì. La decrescita, se correttamente intesa, è in grado di fornire il contesto culturale necessario a fare
questo passaggio. La
decrescita non è la riduzione quantitativa della produzione di merci.
Non è la semplice sostituzione del segno più col segno meno
davanti al valore monetario del PIL, perché in questo modo non si
uscirebbe dalla valutazione quantitativa del fare.
LUMEN – Quindi la decrescita non va confusa con la recessione.
PALLANTE
– Assolutamente no ! Tra decrescita e recessione c’è un rapporto
analogo a quello che intercorre tra una persona che mangia meno di
quanto vorrebbe
perché ha deciso di fare una dieta, e una persona che mangia meno di
quanto vorrebbe perché non ne ha.
LUMEN – Una metafora perfetta !
PALLANTE - A partire dalla distinzione concettuale tra “beni” e “merci”, la decrescita si realizza, in primo luogo
diminuendo la produzione e il consumo di “merci che non sono beni” (per esempio: l’energia che si disperde da una casa mal costruita), ma
non anche dei beni che si possono ottenere solo in forma di merci (per esempio, un computer o una tac).
LUMEN – Mi pare ovvio.
PALLANTE - In secondo luogo si realizza aumentando la produzione e l’uso di beni che non passano attraverso uno scambio
di denaro,
o perché si possono più vantaggiosamente auto-produrre (per esempio:
alcuni generi alimentari o alcune riparazioni), o perché si possono
più vantaggiosamente scambiare sotto forma di dono e reciprocità
nell’ambito di rapporti comunitari (molti servizi alla persona), o
perché non possono essere comprati e venduti (i beni relazionali:
l’amore, la solidarietà ecc.).
La decrescita reintroduce criteri di valutazione qualitativi nel fare umano e si propone di ridurre gli scambi commerciali alla loro dimensione fisiologica rispetto ai più rozzi criteri di valutazione
semplicemente quantitativa e di mercificazione totale utilizzati nel calcolo del PIL.
LUMEN – Quindi, una
vera e propria rivoluzione culturale.
PALLANTE – Senza dubbio. Ma una rivoluzione
in
grado di costruire un diverso immaginario collettivo, definire un
diverso sistema di valori e sviluppare una legislazione urbanistica
finalizzata
non solo a tutelare i paesaggi, ma a favorire la ripresa di
quell’opera, sapiente e paziente, con cui gli esseri umani hanno
aggiunto, nel corso dei secoli, bellezza alla bellezza originaria dei
luoghi in cui vivono.
LUMEN – E all’interno di questo cambiamento di paradigma, cosa è possibile proporre, in concreto ?
PALLANTE – Si può cominciare con il blocco dell’espansione edilizia, a partire da una indagine conoscitiva degli edifici vuoti, che sono tanti, molti più di quello che si pensa. Un blocco da considerare non come una misura contenitiva, ma come una proposta progettuale per un futuro migliore, Dal dopoguerra a oggi non si è costruito solo troppo, ma si è anche costruito anche male, dal punto di vista estetico, ingegneristico, ambientale ed energetico.
LUMEN – Quindi il lavoro, in campo edilizio, non verrebbe a cessare.
PALLANTE – Certamente no. Si dovrà infatti procedere alla riqualificazione degli edifici esistenti, in particolare dal punto di vista energetico, non soltanto perché ciò consente di ridurre nella maniera più significativa le emissioni di anidride carbonica, ma anche perché la riduzione delle dispersioni termiche non comporta peggioramenti delle condizioni di benessere e ripaga i suoi costi d’investimento con la riduzione dei costi di gestione.
LUMEN – Che altro ?
PALLANTE – Si potrebbero anche avviare progressivi processi di decostruzione delle aree urbane più degradate e la loro ri-naturalizzazione, sull’esempio di quanto sta avvenendo a Detroit.
LUMEN – Una bella sfida.
PALLANTE - Una politica urbanistica di questo genere consentirebbe di superare la crisi che attanaglia il settore dell’edilizia, dovuta principalmente alla saturazione del mercato ed al progressivo aumento degli edifici invenduti. Solo la riduzione della quantità e il miglioramento della qualità, coerentemente al paradigma culturale della decrescita sono in grado di ridare fiato al settore.
LUMEN – Scusate professore, ma mi sembra solo un bel sogno.
PALLANTE
– Non sono d’accordo. Le possibilità che questa svolta possa avvenire
sono maggiori di quanto si creda, perché da alcuni decenni non sono più
soltanto
alcuni architetti e urbanisti illuminati a formulare proposte di questo
genere, ma anche settori sempre più vasti dell’opinione pubblica e
della società civile. La svolta è partita dalla tanto vituperata
sindrome NIMBY (ovvero “fatelo pure, ma non nel mio
giardino”) che, seppure con connotazioni egoistiche, ha segnato la
rottura dell’egemonia culturale della crescita, rimettendo in
discussione la sua identificazione col concetto di progresso.
LUMEN – Una considerazione molto acuta.
PALLANTE
- Oggi le grandi opere e i grandi impianti industriali che distruggono i
paesaggi e la vita degli esseri umani che li abitano devono essere
imposti
con la forza, l’occupazione militare del territorio, la demonizzazione
mediatica di chi li rifiuta. Una saldatura tra questi movimenti e gli
intellettuali impegnati a costruire un paradigma culturale dove il
fare torni ad essere un fare bene e il fine del
fare bene sia la possibilità di contemplare ciò che si è fatto, può essere decisiva per imprimere una direzione positiva alla svolta della storia che stiamo vivendo.
LUMEN
– Grazie professore. E speriamo che quello tra edilizia e territorio
smetta finalmente di essere un rapporto perverso tra predatore e preda, e
diventi
un’intesa virtuosa tra buoni alleati per il bene comune.
La decostruzione e la riqualificazione sia estetica che strutturale (con isolamento termico) di interi quartieri mal-costruiti dal dopoguerra a oggi è anche la proposta dell'architetto Loris Rossi. Mezza italia sarebbe da ricostruire e riqualificare. Per non parlare delle aree da recuperare a verde con l'abbattimento sic et simpliciter del costruito abusivo. A Roma ad esempio c'è la più vasta periferia d'Europa (forse del mondo?) frutto di espansione demografica (e immigratoria) con migliaia di ettari edificati di costruzioni abusive e al fuori di ogni coefficiente energetico, spesso enza fogne e servizi. Sarebbe da riconvertire tutta l'economia italiana solo per questo compito immane....
RispondiElimina<< Sarebbe da riconvertire tutta l'economia italiana solo per questo compito immane.... >>
EliminaGiuustissimo, caro Agobit.
E poi dicono che l'economia è in crisi. E' in crisi l'economia vecchia del BAU, del crescere per crescere.
Quella intelligente del conservare è lì che ci aspetta.
E forse ci sarebbe anche più lavoro per tutti.
Effettivamente gli edili non resterebbero a spasso: c'è tantissimo da fare per riparare, isolare, migliorare, eliminare (sì, abbattere!), ristrutturare. Ma i nostri uomini politici quando pensano all'edilizia per "ripartire" intendono costruire ancora di più, rialzare gli edifici di qualche piano (anche se contro le norme), insomma continuare la devastazione che frutta soprattutto a certuni vantaggi enormi e qualche briciola ai poveri fessi.
RispondiElimina<< Effettivamente gli edili non resterebbero a spasso >>
RispondiEliminaAppunto, caro Sergio.
Ma il vecchio modo di intendere l'edilzia, intesa solo come nuove costruzioni, è difficile da combattere, in parte per semplici motivi di mentalità, in parte, forse, perchè certe categorie non potrebbero più arricchirsi come oggi..
Nel discorso di Pallante mi è piaciuto molto il ricordare che l'opera dell'uomo ha aggiunto nel corso dei secoli bellezza alla bellezza, come testimoniano tutte le belle cittadine sparse per il paese e il paesaggio rimodellato dall'uomo. Oggi ci stiamo accanendo per distruggere quel poco di bello che resta, come risuona nelle accorate parole di Raffaele La Capria che ho già diffuso una volta ma penso non dispiacerà rileggerle (seppure con molta malinconia):
RispondiElimina"Perduto è questo mare – pensai – e tutte le baie, le spiagge, le marine ridenti sulla costa italiana, per più di seimila chilometri su settemila. Perduti Miseno Cuma e Baia, i Campi Flegrei fumanti sulfurei vapori, perduti Lucrino e Trentaremi e Nisida dai bei nomi. Perduto il golfo della sirena Partenope, di Lucullo e di Stazio, perduto dal Capo di Posillipo fino alle rive vesuviane, perduto più di Pompei e di Ercolano, da Portici a Oplonti, Vico Equense e Seiano. Perduta la penisola cara a Minerva coi pensili giardini di limoni, perduta la trasparenza delle acque di Nerano, Amalfi e Positano, di Licosa e Palinuro. Perduta Pesto e perduta – ah come perduta!, la Calabria, dall’uno all’altro mare. Perduta, ahimè perduta!, la Sicilia dove l’onda ha ancora il colore del vino, perduta la città dei Templi e quella delle Latomie su cui si affaccia la stupida barbarie geometrile, perdute Selinunte e Segesta solitarie, e Noto e Catania, la Conca d’Oro e la dolce Palermo. Perdute, perdute, per sempre perdute!"
Raffaele La Capria, da "Capri e non più Capri"
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RispondiEliminaUn'Italia da amare - o riamare (almeno in una trentina d'immagini):
RispondiEliminahttp://www.corriere.it/foto-gallery/14_maggio_12/cento-buoni-motivi-amare-l-italia-31bd5426-da18-11e3-8b8a-dcb35a431922.shtml
Caro Sergio, come sempre accade, la stessa mano dell'uomo può portare la bellezza della misura o la devastazione dell'eccesso.
RispondiEliminaSta a noi la scelta.
Guarda caso, la bellezza si accompagna quasi sempre con una popolazione modesta e costante, mentre la devastazione tende a prevalere con una popolazione in crescita rapida ed incontrollata.