Mi
rendo conto che l'economia e la finanza sono argomenti difficili, per non dire
ostici, e che per informarsi bisogna affrontare linguaggi parimenti difficili e
ostici.
Ma non
essere informati è un lusso che non ci possiamo permettere, perchè sono
argomenti troppo importanti per la nostra vita.
Per
questo, ho apprezzato molto l'idea di Albero Bagnai (l'economista anti-euro di cui
ho già parlato) di scrivere una specie di fiaba moderna sull'argomento.
L'ha
intitolata "Il Romanzo di Centro e Periferia" e, purtroppo, non ha
(ancora) un lieto fine; però mi è sembrata interessante e, soprattutto,
comprensibile.
Potete
leggere qui i passi più significativi.
LUMEN
<<
I protagonisti [della storia] sono due: quello maschile è un paese sviluppato,
lo chiameremo “il centro”, con una forte base finanziaria e
industriale; quello femminile è un paese, o un gruppo di paesi, relativamente
arretrato, che chiameremo “periferia”.
Fra
centro e periferia l’attrazione è subitanea e fatale (soprattutto per la
periferia), ma, come in ogni trama che si rispetti, la diversità di origini
pone qualche problema. (…)
Il
centro è un ragazzo moderno, spregiudicato, mentre la periferia è una ragazza
all’antica, risparmiatrice, saggia, e un po’ repressa. Che pensate? No, non sessualmente
repressa ! (…) E’
un po’ repressa finanziariamente, il che significa, in buona sostanza,
che nella periferia lo Stato mantiene un certo grado di controllo sul circuito
del risparmio e dell’investimento.
Ad
esempio, pensate un po’ che idea bislacca, nella periferia si considera
la politica monetaria come uno strumento a disposizione dell’azione del
governo, da mantenere, sia pure in forma mediata, sotto il controllo della
sovranità democratica dei cittadini. Avete capito bene: è esattamente quello
che gli intellettuali della nostra sinistra definirebbero
“populismo”, termine con il quale (…) etichettano qualsiasi
circostanza nella quale il popolo non fa ciò che loro hanno deciso che faccia.
Che ne sa il popolo della moneta?
La
periferia è repressa e populista, e da questo scaturiscono tutta una serie di
vetuste pratiche: la banca centrale non è “indipendente” (che poi
significa indipendente dai lavoratori, ovviamente, non dai capitalisti), e una
serie di istituzioni finanziarie (banche, fondi pensione) sono sotto il diretto
o indiretto controllo dello Stato; il costo del denaro quindi non è fissato ad
arbitrio del mercato, ma è gestito, indirizzato, dallo Stato; e per realizzare
questo obiettivo i movimenti internazionali di capitali sono sottoposti a
controlli, perché altrimenti i capitali fuggirebbero in cerca di miglior
remunerazione altrove.
Ma non
solo i deflussi, anche gli afflussi di capitali sono controllati, dalla
periferia repressa: l’idea moderna che le aziende (pubbliche o private)
nazionali siano lì per essere messe in vendita al miglior offerente, questa
idea tanto progredita, nella periferia ancora non è arrivata; e questo vale
soprattutto in ambito finanziario, dove si applica alle banche estere il principio
(…) “basta che ognuno stia a casa sua” (…).
Invece, guarda un po’, la
periferia è talmente repressa che perfino le istituzioni finanziarie nazionali
vengono controllate dallo Stato, che impone loro vincoli di portafoglio, che
poi significa che queste istituzioni sono obbligate ad acquistare una certa
quota di titoli del debito pubblico; e impone anche massimali sul credito, che
significa che le banche non possono prestare troppo, cioè che i privati non
possono indebitarsi troppo.
Del
resto, nemmeno lo Stato si indebita troppo, e anzi il suo debito in rapporto al
Pil scende, perché i tassi di interesse sono tenuti sotto controllo, e quindi
non è necessario rincorrere, aumentando la pressione fiscale e diminuendo la
spesa per i servizi essenziali, l’esplosione della spesa per interessi
(che poi significa redistribuire reddito dai contribuenti che contribuiscono ai
detentori dei titoli del debito... che spesso non contribuiscono).
Ecco:
questa è la repressione finanziaria. (…) Qualcuno, più cortese, la chiama
“regolamentazione” dei mercati finanziari.
Vi
sembra un mondo così strano, così vetusto? Be’, avete memoria corta: fino
agli anni ’80 questo mondo è stato il nostro mondo, il mondo occidentale,
ed è ormai chiaro che occorre che torni nuovamente a esserlo.
Comunque,
quel mondo ora non è più il nostro, e quindi così non va: il centro, che è un
ragazzo evoluto, non può mica presentare ai propri genitori, i mercati, una
ragazza così fuori moda! E allora il centro “suggerisce” alla
periferia qualche riforma, anzi, due riforme a caso, sempre quelle:
l’adozione di un tasso di cambio fisso e la liberalizzazione, dei mercati
finanziari, e anche, a valle, dei movimenti internazionali di capitale.
Il
centro, che è un po’ un furbetto, ottiene così due vantaggi.
Vantaggio
numero uno: in periferia la liberalizzazione dei mercati finanziari
necessariamente fa salire i tassi d’interesse. Pensate: lo Stato non può
più contare su una serie di acquirenti istituzionali per i suoi titoli (non la
Banca centrale, che diventa “indipendente”; non le banche e i fondi
pensione, che piano piano passano in mano al settore privato), e quindi per
finanziarsi deve offrire tassi d’interesse più alti.
Ma
anche i tassi del settore privato vengono liberalizzati, e quindi
tendenzialmente crescono. Pensate: in periferia di capitali in effetti bisogno
ce n’è, visto che, come abbiamo detto, la sua base industriale è
arretrata, il che necessariamente comporta che i tassi d’interesse
tendano ad essere alti. Ma prima, quando la periferia era repressa, lo Stato in
qualche modo controllava il costo del denaro, mantenendolo entro limiti da lui
stabiliti.
Certo,
in questo modo il denaro costava relativamente poco, ma se l’economia si
surriscaldava, perché gli imprenditori ne prendevano troppo in prestito, lo
Stato interveniva, magari con strumenti di tipo quantitativo, come il massimale
sugli impieghi: se, per un dato costo del denaro, il settore privato si stava
indebitando troppo, finanziando in debito la propria domanda di beni,
semplicemente lo Stato proibiva alle banche di prestare oltre un certo limite.
Ma ora
i controlli quantitativi vengono aboliti: che brutta cosa, sa di economia
pianificata, mica siamo bolscevichi! Il mercato sa cosa fare, lasciamo che
domanda e offerta siano guidate dal prezzo, liberalizziamo i tassi! Quindi, se si vuole evitare che
venga erogato troppo credito necessariamente bisogna lasciare che il tasso di
interesse cresca. Certo: in questo modo gli imprenditori locali ci pensano due
volte a indebitarsi a tassi più alti (legge della domanda e dell’offerta:
costa di più, compro di meno).
Ma...
forse avete dimenticato un dettaglio. Eh già! Abbiamo liberalizzato anche i
movimenti internazionali di capitali. E allora cosa succede? Succede che i
creditori del centro, le grandi banche del sistema maturo, attirati dai tassi
più alti, esportano i capitali in periferia. Capitali ne hanno, e come! Il
centro ha un’industria che guadagna bene, e gli industriali non sono
soliti tenere i soldi sotto il materasso, sapete? Quindi le banche del centro i
soldi ce li hanno, e li spostano in periferia, dove lo Stato e i privati pagano
interessi più alti che nel centro, maturo, sazio e repleto di capitali.
Come
fanno? In mille modi: aprono filiali delle loro banche nella periferia (ora si
può); aprono finanziarie che gestiscono il risparmio o erogano credito al
consumo (ora si può); magari integrano queste finanziarie nelle catene di
distribuzione (supermercati, concessionarie) che nel frattempo si sono
acquistate (ora si può); e poi possono sempre intervenire nei mercati
borsistici e acquistare pacchetti di controllo di aziende nazionali (ora si
può); e se qualche azienda nazionale che fa bei soldi fosse, malauguratamente,
pubblica, non c’è problema: si comprano due o tre giornali (ora si può) e
un po’ di ministri (questo si è sempre potuto), e si comincia a
diffondere ventiquattro ore su ventiquattro l’idea che lo Stato è
inefficiente e fonte di ogni male, e che quindi bisogna privatizzare le aziende
pubbliche, partendo da quelle che funzionano, e il gioco è fatto. (…)
Ma
perché siamo partiti dalla fissazione del cambio? Ma è semplice! Perché i
capitalisti del centro desiderano (legittimamente) lucrare lo spread, la
differenza, fra i tassi d’interesse, senza patire rischio di cambio, cioè
senza correre il rischio che la periferia svaluti, come sarebbe in fondo
naturale per un paese che diventa importatore netto di capitali e quindi di
merci. In fondo non c’è nulla di male: giochi innocenti, purché si sappia
smettere al momento giusto (...).
E poi,
pensateci un momento. Se anche i tassi d’interesse fossero uguali al
centro e alla periferia, fissando il cambio, un effetto comunque lo si ottiene.
Sapete quale? Ve lo dico subito: aumenta lo spread.
“Come?” direte voi “Ma adottando un cambio credibile non si
abbassano forse gli spread, com’è successo in Europa, dove i greci e gli
spagnoli hanno potuto beneficiare di tassi tedeschi?” Aspettate un
attimo: al vostro ragionamento manca un pezzo.
Se si
effettua un investimento in un’altra valuta, nel rendimento complessivo
bisogna anche considerare la rivalutazione o svalutazione attesa di questa
valuta. Esempio pratico: prima dell’euro, il tedesco che prestava allo
spagnolo doveva guardare non solo ai tassi d’interesse (più alti in
Spagna), ma anche a cosa avrebbe fatto il cambio. Ti serve a poco guadagnare un
punto di interesse in più prestando a Carlos anziché a Hans, se poi Carlos
svaluta, poniamo, del 4%, giusto? Dice: ma noi quando parliamo di spread
confrontiamo solo due tassi di interesse, mica parliamo di cambio. E certo,
appunto: oggi il cambio non c’è più: è 1 euro (italiano) per 1 euro
(tedesco). Per questo non parliamo di cambio, perché il cambio non c’è.
Ma quando c’era se ne parlava.
Vuoi un
esempio? Nel 1998, un anno prima dell’entrata in Eurolandia, il tasso
d’interesse sui titoli a lungo termine era 4.8 in Spagna contro 4.6 in
Germania, e quindi lo spread era 0.2, cioè 20 punti base. Ma siccome la peseta
nel 1998 perse circa l’1.2% sul marco, lo spread effettivo, cioè corretto
per la svalutazione, fu negativo: 0.2-1.2=-1.0, cioè l’investitore
tedesco prestando a Carlos in fondo ci avrebbe rimesso. Meglio prestare a Hans.
Nel
1999 i due tassi erano entrambi scesi, di conserva: Spagna 4.7, Germania 4.5.
Lo spread quindi era 0.2, come l’anno prima. (…) Ma nel 1999
c’era l’euro, quindi non bisognava più correggere per la
svalutazione. (…) Significa che lo spread della Spagna era passato da
-1.0 a 0.2, cioè era aumentato di 1.2, di 120 punti base. Con l’euro,
meglio prestare a Carlos, no? >>
ALBERTO
BAGNAI
(continua)
Caro Lumen, pur non capendo molto di economia mi par di intendere che con l'euro ci ha guadagnato solo la Germania che ha allargato il suo mercato, e ha impoverito le economie deboli che non possono più svalutare. Però, piuttosto che tornare alle monete nazionali, bisognerebbe riformare l'Europa, creando una vera banca centrale e istituzioni politiche realmente rappresentative e dotate di potere decisionale. Mi ricordo di quando la lira aveva generato un'inflazione al 20%. Oggi non sarebbe sostenibile...
RispondiEliminaCaro Agobit, la paura del ritorno alla Lira viene gonfiato ad arte dai sostenitori dell'euro, ma in realtà NON è fondato.
RispondiEliminaPerchè ci sarebbe, è vero, una svalutazione, con una conseguente (ma modesta) inflazione, però ci sarebbe anche una ripresa immediata di tutta l'economia e soprattutto delle esportazioni che, con una parallela riduzione delle importazioni, migliorerebbe la situazione economica generale.
Inoltre restando nell'Euro avremmo una ulteriore, progressivo peggioramento della situazione economica,
Siccome neanch'io sono un esperto (figuriamoci !) Ti consiglio di visitare il blog del prof. Bagnai (Goofynomics) o di leggere il suo ultimo bellisismo libro "Il tramonto dell'euro".
P.S. - Ovviamente qui non entriamo nel merito della dicotomia crescita / decrescita, di cui preferisco parlare in altri post.