sabato 3 novembre 2012

Tainter e i limiti della complessità - 1

Sono riuscito a reperire sul web altre pagine in italiano relative a Joseph Tainter ed alle sue teorie sui problemi delle società complesse.
Si tratta di una lunga relazione scritta dallo stesso Tainter in occasione di un convegno (la traduzione è di Carpanix per Oil Crash Italia).
Ne riporto qui di seguito i passi più interessanti (divisi in due parti), a completamento dei post precedenti su questo autore.
LUMEN


<< Un limite ricorrente incontrato dalle società del passato è stata la complessità nella risoluzione dei problemi. Si tratta di un limite che di solito non viene riconosciuto nell’analisi economica contemporanea.
Per i trascorsi 12.000 anni, le società umane sono sembrate divenire inesorabilmente sempre più complesse. Nella maggior parte dei casi, ciò è si è rivelato un successo: la complessità comporta vantaggi, e una delle ragioni del nostro successo come specie è stata la nostra capacità di accrescere rapidamente la complessità del nostro comportamento.
Eppure la complessità può anche rivelarsi dannosa in termini di sostenibilità. (…)

La complessità viene solitamente intesa come qualcosa che si riferisce a elementi quali le dimensioni di una società, il numero e la differenziazione delle sue parti, la varietà dei ruoli sociali specializzati che comprende, il numero delle distinte personalità sociali presenti, e la varietà dei meccanismi per organizzare tutto ciò in un complesso coerente e funzionale.
Aumentare una qualsiasi di queste dimensioni, incrementa la complessità di una società.
Le società di cacciatori-raccoglitori (…) non contengono più di poche dozzine di personalità sociali distinte, mentre i censimenti europei moderni riconoscono da 10.000 a 20.000 ruoli occupazionali distinti, e le società industriali possono comprendere complessivamente oltre 1.000.000 di tipi differenti di personalità sociali. (…)

La complessità è quantificabile. Per oltre il 99% della storia dell’umanità, abbiamo vissuto come raccoglitori o coltivatori a bassa densità, in comunità egualitarie di non più di alcune dozzine di persone (…)
Da questa base di società indifferenziate che richiedevano piccole quantità di energia, lo sviluppo di sistemi culturali complessi era, a priori, improbabile.
Il punto di vista convenzionale è stato che le società umane hanno una tendenza latente verso una maggiore complessità. Si presuppose che la complessità sia una cosa desiderabile e che sia la conseguenza logica di un eccesso di cibo, di tempo libero e di creatività umana.

Sebbene questo scenario sia popolare, non è adatto a spiegare l’evoluzione della complessità. Nel mondo della complessità culturale, per usare un’espressione colloquiale, non si mangia gratis.
Le società complesse sono più costose da mantenere di quelle semplici e richiedono livelli di sostentamento pro-capite maggiori.
Una società più complessa ha più sottogruppi e ruoli sociali, più reti tra gruppi e individui, più controllo orizzontale e verticale, un maggiore flusso di informazioni, una maggiore centralizzazione delle informazioni, più specializzazione e maggiore interdipendenza delle parti. Accrescere una qualsiasi di queste dimensioni richiede energia biologica, meccanica o chimica. (…)

Molti aspetti del comportamento umano sembrano opporsi alla complessità. La cosiddetta “complessità della vita moderna” è una lamentela ricorrente nei discorsi popolari. Parte dello scontento dell’opinione pubblica nei confronti dei governi nasce dal fatto che questi aggiungono complessità alla vita della gente.
Nelle scienze, il principio del Rasoio di Occam continua ad essere apprezzato poiché afferma che la semplicità in una spiegazione è preferibile alla complessità.
La complessità è sempre stata inibita dai carichi di tempo ed energia che impone, e dalla opposizione alla complessità (senza dubbio legata ai costi).

Per questo, spiegare come mai le società umane sono divenute sempre più complesse rappresenta una sfida più di quanto comunemente si creda.
La ragione per la quale la complessità aumenta è che, per la maggior parte del tempo, essa funziona. La complessità è una strategia di risoluzione dei problemi che emerge in condizioni di necessità impellenti o di benefici evidenti.
Per l’intero corso della storia, le tensioni e le sfide che hanno dovuto affrontare le popolazioni umane, sono spesso state risolte incrementando la complessità. (…)

La complessità cresce per mezzo di maggiore differenziazione, specializzazione e integrazione (…): riduce i costi e apporta benefici.
È un investimento, e restituisce profitti variabili. La complessità può apportare benefici o danni. Il suo potenziale distruttivo è evidente nei casi storici nei quali le accresciute spese per la complessità socioeconomica hanno determinato profitti sempre minori e, alla fine e in alcuni casi, profitti negativi.
Questo risultato emerge da un normale processo economico: le soluzioni semplici e non costose vengono adottate prima di quelle più complesse e costose.

Così, col crescere della popolazione umana, la caccia e la raccolta hanno lasciato spazio a una agricoltura sempre più intensiva e ad una produzione alimentare industrializzata che consuma più energia di quanta ne produca.
Allo stesso modo, la produzione di minerali e di energia si sposta dalle riserve più facilmente accessibili e sfruttabili con poca spesa a quelle che sono più costose da trovare, estrarre, lavorare e distribuire.
L’organizzazione socioeconomica si è evoluta da una reciprocità egalitaria, a una dirigenza a breve termine dai ruoli generici, a complesse gerarchie con sempre maggiore specializzazione.

Quando una società diviene più complessa, espande gli investimenti in cose quali la produzione delle risorse, l’elaborazione delle informazioni, l’amministrazione e la difesa.
La curva del rapporto tra i costi e i benefici di queste spese può dapprima evolvere favorevolmente, quando vengono adottate le soluzioni più semplici, generiche e non costose (…). Non appena la società incontra nuovi problemi e le soluzioni poco costose non sono più sufficienti, la sua evoluzione procede in una direzione che comporta maggiori investimenti.
Alla fine, una società in crescita raggiunge un punto nel quale ulteriori investimenti nella complessità comportano sì maggiori profitti, ma in misura sempre più marginale e in graduale riduzione. Giunti ad un certo punto, una società (…) inizia ad essere vulnerabile nei confronti del collasso

A questo punto, due cose rendono una società soggetta al collasso.
Primo: nuove emergenze premono su un popolo che sta investendo in una strategia che apporta sempre meno profitti.
Man mano che tale società viene economicamente indebolita, ha meno riserve alle quali ricorrere per affrontare gravi avversità. Una crisi alla quale essa sarebbe potuta sopravvivere ai suoi inizi, diviene ora insormontabile.

Secondo, i profitti sempre minori rendono la complessità meno attraente e moltiplicano la disaffezione.
Man mano che le tasse e gli altri costi crescono e i benefici a livello locale calano, sempre più gente viene attratta dall’idea di essere indipendente. La società si “decompone” poiché la gente persegue i propri bisogni immediati piuttosto che i traguardi a lungo termine dei propri dirigenti.

Man mano che una società (…) procede lungo la curva dei profitti marginali fino a superare i punti critici, (…) i costi sono sempre maggiori, mentre i benefici scendono ad un livello già disponibile con un minor livello di complessità.
Questo è il regno dei profitti negativi che derivano dall’investimento nella complessità. Una società, a questo punto, scoprirebbe che, in caso di tracollo, i profitti derivanti dagli investimenti nella complessità crescerebbero notevolmente. Una società che si trovi in queste condizioni è estremamente vulnerabile nei confronti del collasso.

La storia della complessità culturale è la storia della soluzione dei problemi da parte degli uomini. (…) Con l’esaurirsi delle soluzioni semplici, la soluzione dei problemi volge inesorabilmente verso maggiore complessità, costi più elevati e profitti minori. Questo non conduce necessariamente al collasso, ma è importante capire in quali condizioni potrebbe.
Per illustrare queste condizioni, è utile analizzare tre esempi di complessità e onerosità crescenti nella soluzione dei problemi: il collasso dell’Impero Romano, lo sviluppo dell’industrializzazione e le tendenze della scienza contemporanea. >>

JOSEPH TAINTER

(continua)

2 commenti:

  1. Ho letto questo testo due volte perché era interessante: tutto vero e giusto quello che vi si afferma, ma anche troppo ... complesso. Provo a tradurre con le mie parole semplificando magari un po' troppo.

    La complessità è inevitabilmente il risultato di un flusso d'informazioni utili che apportano effettivi vantaggi (al singolo e alla collettività). Più informazioni maggiori opportunità e miglioramento delle condizioni di vita. Ma a un certo punto la complessità raggiunge un livello non più gestibile e i vantaggi scemano o si azzerano. Il mantenimento del livello di complessità raggiunto non è più possibile e il sistema collassa.

    Il "logorio della vita moderna" è indice di una complessità non più gestibile dal singolo - che desidera a questo punto più semplicità e accetta anche la rinuncia a certe comodità vere o presunte.

    È immaginabile e possibile immettere sempre più uomini e automobili nel "sistema"? Evidentemente no. Ricordo che nel 2000 (appena dodici anni fa) circolavano nel mondo 550 milioni di veicoli. Adesso ne circolano un miliardo e se dipendesse da Marchionne ne dovrebbero circolare almeno il triplo (ci sono ancora troppi pedoni, dannazione!). Ma non disperiamo: "Sta natura ognor verde / e l'uom d'eternità s'arroga il vanto." O l'uomo si dà una regolata (riduce la complessità) o ci penserà la natura.
    In uno stagno le ninfee si moltiplicano dapprima molto lentamente, poi sempre più in fretta. A un certo punto occupano la metà dello stagno - e un attimo dopo tutto lo stagno. Fine delle ninfee.

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  2. << O l'uomo si dà una regolata (riduce la complessità) o ci penserà la natura. >>

    Caro Sergio, il nocciolo della questione è proprio questo.
    Quelli di "Rientro Dolce" si sono dati quel nome proprio per indicare la via: o cerchiamo di rientrare dolcemente (cosa molto difficile psicologicamente, ma tecnicamente non impossibile) o dovremo rientrare amaramente.
    Come per le ninfee...

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