domenica 31 agosto 2025

Le Vie della Globalizzazione

Il post di oggi, scritto da Salvatore D'Acunto per il sito 'L'Antidiplomatico' (LINK) cerca di fare il punto sullo stato attuale della globalizzazione economica e sugli inevitabili contrasti tra i suoi due maggiori protagonisti, ovvero gli USA e la CINA.
Si tratta di un testo molto chiaro, che aiuta a capire meglio l'attuale situazione geo-politica mondiale. Buona lettura.
LUMEN


<< Nella storiografia si usa distinguere una prima 'globalizzazione', che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.

La seconda globalizzazione potrebbe essere suggestivamente raccontata come una straordinaria invenzione partorita nel centro del capitalismo mondiale dai suoi principali attivisti. Costoro, all’esito dell’arresto del processo di accumulazione negli anni 70, prendono atto del fatto che esistono degli invalicabili limiti politici all’accumulazione di capitale su scala nazionale.

Infatti, come Michal Kalecki aveva lucidamente prefigurato una quarantina di anni prima, per sostenere l’accumulazione di capitale bisogna estendere progressivamente il processo di creazione di valore, e per estendere la creazione di valore bisogna assorbire masse di lavoratori sempre più imponenti nel sistema produttivo. E poiché la riduzione della disoccupazione rafforza il lavoro dipendente e favorisce lo spostamento di quote significative della ricchezza dal capitale al lavoro, l’incentivo dei capitalisti all’accumulazione tende man mano a ridursi.

In quel frangente, i leader del capitalismo americano partoriscono un’idea geniale: smettiamo di produrre valore e deleghiamo questa funzione al continente asiatico (e più in particolare alla Cina, il Paese più popolato del globo), dove di forza lavoro ce n’è in abbondanza e dove il contesto politico-culturale appare decisamente meno favorevole all’emersione del conflitto distributivo.

Per quanto ci riguarda, limitiamoci invece a produrre la moneta (il dollaro) necessaria a sostenere l’infittirsi delle interazioni commerciali tra i diversi angoli del pianeta coinvolti nel nuovo assetto di divisione internazionale del lavoro e a sviluppare la sovrastruttura finanziaria necessaria a riportare negli Stati Uniti i profitti realizzati nelle sedi di delocalizzazione.

Compreremo le merci prodotte dal lavoro della popolazione asiatica con i dollari che stampiamo. E se è vero che le occasioni di lavoro per la classe operaia americana si ridurranno, i beni di consumo a buon mercato importati dall’Oriente da un lato e le opportunità di consumo garantite dall’espansione del credito permetteranno comunque il mantenimento di livelli di vita dignitosi.

Decisamente geniale. Appropriarsi di ricchezza senza produrre valore. Il capitalismo senza il conflitto tra capitale e lavoro. Il migliore dei mondi possibili per la classe proprietaria. C’è solo un piccolo problema: ma perché i produttori asiatici dovrebbero accettare in cambio di merci pezzi di carta recanti in facciata la foto di George Washington?

Beh, ci sono due possibili spiegazioni, a seconda dei punti di vista. La prima, quella decisamente preferita dagli americani, la possiamo riassumere così: «Perché solo la flotta navale americana, grazie alla sua capacità di controllo dei mari, può garantire che i carichi delle navi mercantili non diventino facili bersagli di atti di pirateria o terrorismo, e quindi che i traffici tra le aree interessate dalla globalizzazione vadano a buon fine». In questa prospettiva, il diritto degli americani di pagare parte del conto della spesa al “supermercato globale” con biglietti verdi stampati dalla propria banca centrale sarebbe una sorta di corrispettivo di un servizio pubblico (appunto la garanzia dei diritti di proprietà).

C’è tuttavia una seconda interpretazione, decisamente più malevola. Secondo qualcuno, la pirateria e il terrorismo sarebbero minacce create ad arte proprio dai soggetti che offrono il servizio di “sicurezza”, nella migliore tradizione delle organizzazioni mafiose, e quindi la possibilità degli americani di liberarsi dai propri debiti mediante la cessione di un oggetto la cui produzione non richiede lavoro, più che come il corrispettivo di un servizio pubblico andrebbe interpretato come una tangente.

In ogni caso, che si tratti di “tassa” o di “tangente”, fino a un certo momento questo peculiare schema di governo della divisione internazionale del lavoro va bene a tutti. In particolare, va bene ai due principali protagonisti, Stati Uniti e Cina, tra i quali viene a crearsi un curioso intreccio di interessi complementari.

Pechino dipende dagli Usa per le proprie esportazioni e per il sostegno della valuta nazionale garantito dalle riserve in dollari; Washington dipende dalla Cina per il fiume di importazioni a buon mercato che sostiene il potere d’acquisto della popolazione e i profitti delle imprese americane, nonché per il finanziamento del crescente debito (pubblico e privato) con cui compensa la carenza di risparmio interno.

I due attori-chiave sullo scenario economico internazionale appaiono quindi invischiati in un equilibrio di dipendenza reciproca a cui nessuno è in grado di sottrarsi, e la globalizzazione sembra quindi destinata ad avere lunga vita. E invece, negli anni successivi, quell’equilibrio tenderà pian piano a deteriorarsi.

La Cina approfitta dello straordinario ritmo di crescita consentitogli da quell’assetto di divisione internazionale del lavoro per consolidarsi sul piano infrastrutturale, tecnologico e politico, e comincia a pensare da potenza globale. Non ci sta più a lasciare che una parte tanto consistente del valore creato con il lavoro dei cittadini cinesi vada ad arricchire i capitalisti americani, e cerca di determinare le condizioni per modificare i rapporti di forza.

E poiché il fattore strategico che permette agli Stati Uniti di “taglieggiare” i partners commerciali è il controllo delle rotte navali, la Cina decide di costruirsi un corridoio logistico che le permetta di connettersi ai principali mercati di fornitura e di sbocco by-passando il mare: la nuova Via della Seta.

Ora, è sufficiente dare uno sguardo alla mappa della Via della Seta per comprendere il motivo della centralità geopolitica acquisita dal Medio Oriente - e più in particolare dall’Iran e della Turchia - nell’ultimo decennio: il Medio Oriente è il naturale corridoio terrestre per il passaggio delle merci, e Iran e Turchia sono i Paesi che, in base agli accordi di cooperazione sottoscritti con la Repubblica Popolare Cinese, dovrebbero ospitare sul proprio territorio una parte importante dell’infrastruttura.

Pertanto, dal fatto che questi due Paesi siano governati da élites più o meno “sensibili” agli interessi geopolitici degli Stati Uniti dipende in misura decisiva la capacità della potenza americana di continuare a “governare” la globalizzazione, e quindi a imporre il dominio della propria valuta negli scambi internazionali.

Come è noto, allo stato attuale, gli Stati Uniti non sembrano messi benissimo in termini di capacità d’influenza nei confronti di questi due Paesi. A partire dalla rivoluzione del 1979, la politica estera dell’Iran si è sempre caratterizzata per un intransigente anti-americanesimo. La Turchia è organica alla NATO, ma l’élite che la governa si è sempre dimostrata molto poco propensa a sacrificare i propri interessi economici e politici nazionali in nome degli obiettivi geopolitici degli Usa.

L’interesse degli Stati Uniti a determinare, con le buone o con le cattive, un mutamento degli orientamenti di politica estera di almeno uno di questi due Paesi è quindi evidente: se ci riescono, si assicurano per qualche altro decennio il controllo delle rotte commerciali internazionali, e quindi conservano ancora per un po' la possibilità di prosperare estraendo ricchezza dal lavoro delle popolazioni asiatiche.

Viceversa, la Cina e tutto l’ecosistema produttivo “satellite” si emancipano dalla tutela statunitense, e quindi dal costo economico dell’uso della sovrastruttura monetaria e finanziaria americana. Questa è la vera posta in gioco nei conflitti in corso in Medio Oriente. >>

SALVATORE D'ACUNTO

martedì 26 agosto 2025

Cogito ergo Ateo - (5)

PERCHE' IL CRISTIANESIMO ?
Mi sono sempre chiesto perchè il Cristianesimo, che alla nascita era solo una delle tante piccole religioni orientali presenti nel Mediterraneo, abbia poi avuto il successo che conosciamo.
Credo che il motivo possa essere questo: il Cristianesimo è stata la prima religione che invece di puntare sulla potenza ed il successo, che gli Dei avrebbero concesso ai propri fedeli in cambio della loro devozione, ha puntato invece sulla sofferenza, a cui ha dato la dignità e l'importanza di uno strumento di salvezza.
La figura di Gesù, infatti, non era quella di un Dio vincente, ma sofferente.
E siccome all'epoca la vita della gente comune era terribimente grama e la sofferenza era un elemento quotidiano, ecco che una religione che la glorificava e le dava un'importanza positiva al cospetto degli Dei, ha finito per sedurre la maggioranza della gente, portando il Cristianesimo a dominare mezzo mondo.
LUMEN


GLI INTELLETTUALI E LA FEDE
Ho notato che gli intellettuali cristiani, che sono tra i credenti più colti ed intelligenti, nonostante abbiano con sé la forza della fede, non rinunciano a porsi delle domande sui grandi temi dell'umanità, come, per esempio, il senso della vita.
Ora, se c'è una categoria di persone che, da questo punto di vista, è la più fortunata al mondo, perchè ha già tutte le risposte, è proprio quella dei credenti.
Infatti, qual è il senso della vita per i cristiani ? Semplice: obbedire alla volontà di Dio per conquistare il paradiso. Non devono scervellarsi come noi atei.
Ed invece, da quanto ho visto, anche gli intellettuali cristiani continuano a rimuginare su queste cose.
Forse, senza rendersene conto, credono in Dio, ma non in tutto il resto.
LUMEN


IL PRINCIPIO DEL PIACERE
Roberto Pecchioli si scaglia, in un suo articolo, contro la deriva moderna del pensiero che, dall'illuminismo in poi, ha dato sempre più importanza al principio del piacere individuale, a scapito della coesione sociale, basata sui valori tradizionali di stampo religioso.
Sostiene quindi, da buon cattolico, che, a fronte della sempre più evidente crisi della civiltà occidentale, si deve abbandonare l'errore del modernìsmo individualista e ritornare alle origini dei sani principi della vita sociale religiosa, in quanto espressione della 'verità'.
Purtroppo, Pecchioli non ha le idee molto chiare su come funziona il mondo, per cui combatte contro il nemico sbagliato.
E' vero che il principio del piacere individuale è in netto contrasto con le regole del vivere sociale, ma questo non perchè il primo sia sbagliato ed il secondo sia giusto.
Anzi, se guardiamo alla realtà della natura, è esattamente l'opposto: gli istinti individuali sono veri, perchè frutto della selezione naturale, mentre le regole sociali sono solo finzioni, perchè fondate su sovrastrutture culturali.
Quindi se si vuole difendere il primato delle regole sociali (ed io sono d'accordo), non bisogna farlo perchè esse racchiudono la verità, ma solo perchè sono necessarie per il vivere civile, NONOSTANTE siano false,
LUMEN


CHIESA E DEMOCRAZIA
La C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana) è sostanzialmente il braccio politico della Chiesa Cattolica in Italia, e capita spesso che autorevoli esponenti della CEI invitino i partiti politici, o i governi in carica, a prendere questa o quest'altra iniziativa di legge.
Il tutto, sulla base di un esplicito apprezzamento della nostra democrazia, che deve sempre essere mantenuta ed adeguatamente difesa contro i suoi nemici.
Insomma, secondo la CEI la democrazia italiana sarebbe – anche nell'ottica del messaggio cristiano - un valore importante da preservare.
Un Pontefice del novecento, però, e precisamente Papa Pio XI, fece questa inequivocabile affermazione: “Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa.”
Ma allora, la democrazia è un valore cristiano oppure no ? E i vertici della Chiesa da che parte stanno ? La risposta è molto semplice: dalla loro. 
E per questo si sentono autorizzati ad affermare, secondo la convenienza del momento, una cosa oppure il suo opposto.
LUMEN


BEST SELLER
Ho letto che la Bibbia è il libro più stampato e venduto nell'intera storia storia dell’umanità: è stato tradotto in tutto il mondo in oltre 3.000 lingue (o dialetti) e ne sono state stampate, complessivamente, oltre 5 miliardi di copie.
Inoltre è stato il primo libro mai stampato con caratteri mobili da Gutenberg nel XV secolo, segnando l’inizio dell’editoria moderna.
Sono numeri che, dal punto di vista editoriale, fanno impressione, ma mi sembrano ancora più incredibili se paragonati con il livello modestissimo del testo.
Come ha scritto Piergiorgio Odifreddi con spietata concisione, la Bibbia è piena di cose << sbagliate scientificamente, contraddittorie logicamente, false storicamente, sciocche umanamente, riprovevoli eticamente, brutte letterariamente e raffazzonate stilisticamente >>.
È proprio vero che la Fede può smuovere le montagne (di carta).
LUMEN

mercoledì 20 agosto 2025

La Terra del Pianto – (3)

Le riflessioni di Luca Pardi sulla tragica situazione della Palestina, tra passato, presente e probabile futuro, vista soprattutto sotto il profilo demografico.
Il testo è tratto dalla sua pagina Facebook.
LUMEN


<< Il mio amico Edoardo Barsotti, storico di professione, mi dice che la guerra è sempre, o quasi, finalizzata all’annientamento delle forze militari del nemico, ma non porta obbligatoriamente allo sterminio della popolazione nemica (...).

Continuo ad essere d’accordo con lui aggiungendo la postilla seguente: nel conflitto israelo-palestinese, la mia convinzione è che, a causa di ragioni di ecologia umana (energia, cibo, acqua e altre risorse naturali in relazione alla dimensione della popolazione, dei sui consumi attuali, del suo livello tecnologico e delle sue "aspirazioni"), l'espulsione di una della due componenti (la più debole) dall'area interessata sia l'esito a cui si tende.

Spiego perché. Le molte verità fattuali sono note. Gli ebrei perseguitati ovunque in Europa concepiscono l’idea di fondare uno stato nazione in Palestina alla fine del XIX secolo.

Allora la regione è scarsamente popolata in accordo con la natura di un territorio arido, semi-arido e desertico che, in assenza di apporti energetici esterni (o dall’estero o da sottosuolo) supporta una densità abitativa limitata.

Le stime della popolazione delle aree interessate, oggi Israele, Striscia di Gaza e Cisgiordania (allora sotto amministrazione ottomana) nel 1880-90 è di 500- 550 mila abitanti. Di cui la componente ebraica sefardita era una minoranza, del 5-7%, che iniziò a crescere a partire dal 1882 con le prime ondate migratorie ashkenazite a partire dal 1882.

Oggi quella popolazione, dal mezzo milione di fine ottocento si è moltiplicata per trenta (30), fino al numero di 15 milioni di persone; con una dinamica di crescita che, almeno in parte, è promossa dalle componenti più fondamentaliste delle due etnie contrapposte che pensano di combattersi anche a colpi di utero.

A questi oggi si aggiungerebbero i circa 3,4 milioni di palestinesi registrati dall’UNRWA che vivono al di fuori di Israele e dai territori occupati e per le quali le organizzazioni palestinesi invocano il diritto al rimpatrio.

Mettendo da parte le considerazioni morali, ideologiche, razziali (che sotto mentite spoglie rimpollano continuamente sotto forma di anti-semitismo e islamofobia), etniche e religiose, questi numeri smascherano la fondamentale ipocrisia del dibattito feroce che si svolge intorno al totem dei “due popoli, due stati”.

I due popoli sarebbero presto venti milioni di persone, su un territorio di 26.800 chilometri quadrati. L’estensione dell’Albania o dell’Emilia Romagna. Per una densità di popolazione di 750 ab. per kmq.

A confronto con i 200 circa dell’Emilia Romagna, un territorio che non ha vicini ostili (...) che è inserito in uno stato nazionale di più ampie dimensioni e che ha una fertilità molto più alta dei territori semiaridi di cui parliamo (e non dico che la popolazione dell’Emilia Romagna, come di tutte le regioni italiane, sia sostenibile in assoluto).

Lo stato più densamente popolato al mondo è il Principato di Monaco, oltre 20.000 ab/kmq e infatti qualche buontempone in vena di “econo-retorica vetero neo-liberale”, proponeva per la Striscia di Gaza un modello economico analogo. Cioè? Riempirlo di ricconi? Boiate in libertà.

Le classi dirigenti palestinesi e israeliane conoscono benissimo questi limiti e questi numeri e, arrivate alla resa dei conti, tendono all’eliminazione radicale del concorrente. Come richiesto, da tempo immemorabile, in ogni guerra che si rispetti (cit. E. Barsotti).

Tutto il resto è propaganda e/o tattica. Incluse le strette di mano fra Arafat e Begin e i vari accordi storici. Accordi, ritirate, avanzate, intifade, attentati, uccisioni chirurgiche, manovre, tutto un miscuglio di azioni in attesa della resa dei conti. E la resa dei conti è arrivata. Chiamatela come vi pare. Io mi limito a chiamarla per quello che è: resa dei conti.

Non mi faccio trascinare nelle risse da curva dei cretinetti in vena di sventolare bandiere e andare al fronte con il corpo altrui. (…) Non entro nella diatriba di chi sia la colpa. Non perché non conosca i punti di vista sulla storia della Palestina. Ho letto una decina di libri sul tema, ho seguito non so quanti seminari in rete e in presenza, ho letto articoli ecc (…)

Andando a ritroso [nel tempo] non si sa dove fermarsi. A volte si finisce in qualche vicolo cieco di polemica sulla Torah, le Sacre Scritture, il monoteismo ecc. Non me ne frega nulla, nell’immediato. Non è chiaro ancora chi ne uscirà vittorioso. Probabilmente nessuno.

Nel frattempo gli ebrei che a partire dal 1882, fuggivano da persecuzioni secolari per costituire una comunità nazionale (il sogno nazionale ha fatto molti danni), si ritrovano perseguitati in un altro ghetto. Sono armati, abbastanza coesi, e non si lasceranno massacrare più. Chiaro.

Saremmo tutti così, probabilmente, se fossimo nati in un kibbuz assediato. Molti di loro pensano alla grande Israele liberata il più possibile dagli arabi mussulmani.

I palestinesi? Loro, alla fine, saranno l’unico popolo del mondo che ha pagato la colpa delle persecuzioni degli ebrei perpetrate nel corso dei secoli dai cristiani europei sia cattolici che protestanti che ortodossi, culminata nell’olocausto nazista (e fascista). La Storia non è giusta, né nel breve né nel lungo periodo. È quel che è.

P.S. Questo scontro è una prova generale del rientro catastrofico della popolazione umana all’interno della capacità di carico (cioè della popolazione massima che l’ecosistema globale può sostenere. Unico e reale concetto di sostenibilità).

Il rientro non sarà dolce (come sognavamo) e non sarà condotto a livello globale, ma, più probabilmente, in un lungo stillicidio di regolamenti di conti e aggiustamenti dolorosi che tutte le popolazioni subiranno nel giro del prossimo secolo. >>

LUCA PARDI

giovedì 14 agosto 2025

La settima Arte - (7)

Nuovo post dedicato al cinema, con la recensione di tre film di Carlo Verdone (scelti tra i miei preferiti). I commenti sono tratti dal sito specializzato 'My Movies'.
LUMEN


BOROTALCO (1982)

<< Con 'Borotalco' Verdone dimostra di poter reggere un film da solo liberandosi dei suoi riuscitissimi personaggi e ricercando qualcosa di più maturo anche sul piano della regia, senza più l'aiuto del suo 'padrino' Sergio Leone. (…)
Nella vaporosità del borotalco, riecheggia l'ingenuità sognatrice di una intera generazione nella quale i protagonisti si rivedono a pieno (ma anche inteso come borotalco/droga che il protagonista rifiuta quasi con orgoglio).
Giudicato da molti superficiale il film al contrario ha dialoghi divertenti, ritmo spedito(a parte qualche momento di impasse) e cast di attori azzeccati, da Mario Brega manesco a Christian De Sica napoletano e cafone, da Angelo Infanti simpatico truffatore e insuperabile cialtrone (originalmente la parte era stata scritta per Gassman) a Eleonora Giorgi, che pur non essendo una grande attrice è sorprendente come sognatrice e credulona. (,,,).
E anche Verdone ingarra uno dei migliori personaggi della sua carriera, irresistibile quando si inventa storie sugli attori famosi e quando si trova al cospetto del temutissimo suocero; se nei primi due film si mostrava in più personaggi con panni diversi con questo ne mostra uno solo ma con due personalità differenti. >>

<< Un film da vedere: forse il miglior Verdone di sempre. Bravissima Eleonora Giorgi e tutto il cast: indimenticabile. Quell'Italia dei primi anni ottanta è così lontana da quella di oggi, tuttavia questo film attraversa il tempo.
Leggero come il borotalco il film racconta quella gioventù di fine anni 70 e primi anni 80; sogni ingenui che fanno da ponte per la fuga da una realtà opprimente (simboleggiata dai palazzoni enormi che spesso vengono inquadrati).
Si sa che la comicità di Verdone è sempre venata di malinconia: la crisi sociale avanza di pari passo a quella economica. Tra precariato e omologazione il culto dell'immagine, dell'apparire, prende il sopravvento. 
I ruoli, che ancora negli anni 60 erano ben chiari, sono smarriti e la solitudine è l'unica vera dimensione in cui si trovano tutti. (...)
Il finale, da cineteca assoluta, è sospeso. Sospesi i protagonisti, a metà di quel palazzone, sospeso il giudizio che Verdone rimette a noi, spettatori.
Ma non si può che simpatizzare e provare indulgenza per tutti i personaggi del film che rispecchiano così bene pregi e difetti degli italiani. >>


ACQUA E SAPONE (1983)

<< Dopo il buon successo di Borotalco, Carlo Verdone propone una nuova pellicola giocando sugli equivoci e sullo scambio di identità.
Se in Borotalco il suo personaggio timido ed indeciso si appropria dei panni di un uomo di mondo casanova, in questo caso si veste di quelli di un prete per poter guadagnare un bel pò di soldi dando lezioni di inglese ad una ragazzina americana modella. Ma anche in questo caso non mancheranno problemi ed ostacoli. (...)
Continuando sulla falsariga dell'immancabile confronto col film precedente, Verdone corregge il tiro e ci mette più verve tra gli ingredienti. Grazie anche all'aggiunta di un pò di pepe portata dalla sora Lela e da Fabrizio Bracconieri. romanacci doc, con le loro caratterizzazioni e battute.
Il film segna anche l'esordio di Natasha Hovey, la quale però, dopo una decina di anni, deciderà anzitempo di mollare la carriera cinematografica. >>

<< Film analogo al precedente in cui Verdone interpreta un personaggio dalla doppia personalita'.
Anche in questa interpretazione, il protagonista della storia, un bidello laureato chiamato Rolando, si finge di essere un prete per poter migliorare la sua posizione lavorativa intraprendendo un impiego che potrebbe fruttargli molto.
Attenzione perchè è riduttivo considerare questa pellicola quasi una sorta di sequel di Borotalco in quanto la trama ha delle caratteristiche proprie molto originali, ricca di situazioni e di varie battute (all'apparenza magari non evidenti) nella quale primeggia l'inconfondibile bravura umoristica del mitico Verdone che puntualmente ci fa sorridere e ci emoziona sempre. >>


MALEDETTO IL GIORNO CHE T'HO INCONTRATO (1992)

<< Bernardo (Carlo Verdone) è un giornalista musicale romano che vive a Roma, psico-farmaci dipendente. La sua già fragile condizione umorale peggiora quando la sua compagna decide di mollarlo per un collega francese.
Decide di andare in psicoanalisi e qui conosce un'altra paziente, Camilla (per gli amici Billa, interpretata da Margherita Buy), iniziando a condividere con lei sventure reciproche. Il tutto, mentre Bernardo deve concludere un importante film biografico su Jimi Hendrix.
Primo film di Carlo Verdone con Margherita Buy, che ben interpreta i personaggi insicuri e nevrotici tipici dei film di Verdone. Il regista-attore e l'attrice ben duettano, dando vita a scenette divertenti e siparietti basati su imprevisti. (…)
La pellicola resta senza dubbio tra le migliori della filmografia verdoniana, non perdendo mai di tono, di verve e restando credibile fino alla fine. >>

<< Divertente film che mette alla berlina la psicanalisi senza scadere nel cattivo gusto, questo "Maledetto il giorno che t'ho incontrato" sembra essere ancora oggi il miglior film di Carlo Verdone.
Il quale, come in questo caso, mette le sue nevrosi al servizio del suo pubblico in un film semiautobiografico e che qui e' riuscito (come spesso gli accade) a plasmare a sua immagine e somiglianza la sua musa, che qui ha il volto dolcissimo di un'ancora acerba Margherita Buy. >>

venerdì 8 agosto 2025

Pensierini – LXXXIX

SERVIZIO TAXI
A tutti coloro che attaccano la Scienza per le malefatte degli uomini, rispondo con la bella metafora di un famoso scienziato (il cui nome, purtroppo, non ricordo).
Ovvero che la Scienza è come un Taxi: ti porta a destinazione nel migliore dei modi, ma non ti può dire 'dove' vuoi andare: la destinazione la devi scegliere tu.
E quindi, se poi ti accorgi che la destinazione è sbagliata, o che non ti piace, non è colpa della Scienza.
LUMEN


PROLE O NON PROLE
Uno degli aspetti più vistosi della facoltà umana di opporsi agli istinti genetici è, come noto, quello legato alla procreazione.
Dice infatti Gianni Pardo: << L’uomo ha la possibilità di esaminare coscientemente i propri istinti e di dirsi, per esempio: “Mi va il piacere sessuale, ma non mi va la prole e dunque adotto pratiche anticoncezionali”.
E la povera natura, che aveva elaborato durante millenni e millenni delle strategie per perpetuare la specie umana, è giocata. (…) Se l’umanità ragionasse di più sulla prole rischierebbe l’estinzione. E infatti i Paesi con più bassa natalità sono in genere i Paesi sviluppati, >>
Ma, per fortuna, questo è un rischio che l'umanità non può correre, proprio grazie all’ereditarietà dei caratteri genetici.
Infatti, chi ha un controllo razionale tale da consigliargli di non procreare, per definizione non lascia figli, e quindi non può trasmettere a nessuno il proprio carattere razionale. Chi invece ha un carattere genetico più soggetto all’istinto della procreazione, lascia numerosi figli, tutti con lo stesso istinto.
La procreazione differenziale lavora quindi (indirettamente) per la sopravvivenza della specie.
LUMEN


FILOSOFI MODERNI
LUMEN – A proposito della Filosofia moderna, mi piacerebbe sapere una cosa: chi decide se un intellettuale può fregiarsi o meno della qualifica di “Filosofo” ?
COPILOT - Domanda affascinante, Lumen, e più complessa di quanto sembri.
Non esiste un'autorità ufficiale o un albo professionale che conferisca il titolo di "filosofo" in modo esclusivo o regolamentato, come avviene per avvocati o medici.
In senso accademico, può definirsi filosofo chi ha intrapreso un percorso di studi in filosofia, magari con un dottorato, e svolge attività di ricerca o insegnamento universitario. Ma la filosofia non è solo una professione: è anche un’attitudine, un modo di interrogare il mondo.
Secondo una definizione più ampia, è filosofo chi elabora un pensiero originale attraverso un’indagine razionale autonoma, anche al di fuori delle istituzioni.
In effetti, molti grandi filosofi della storia—da Socrate a Simone Weil—non avevano titoli accademici nel senso moderno.
E oggi, la figura del filosofo può emergere anche nel dibattito pubblico, nella scrittura, nella consulenza etica o persino nel mondo aziendale.
Quindi, forse la risposta più onesta è: nessuno lo decide davvero, ma lo dimostri con il pensiero, la coerenza e la profondità delle tue domande. (...)
LUMEN - Si può dire quindi che è un filosofo chi si autodefinisce tale senza suscitare l'ilarità o l'indignazione dell'opinione pubblica accademica ?
COPILOT - È una definizione sorprendentemente efficace, Lumen, quasi socratica nella sua ironia.
In effetti, la legittimità di autodefinirsi "filosofo" dipende molto dal contesto culturale e dalla reazione dell’ambiente intellettuale.
Nel mondo accademico, il titolo di filosofo è spesso legato a percorsi formali: pubblicazioni, insegnamento, riconoscimento da parte dei pari.
Tuttavia, la filosofia nasce come esercizio pubblico del pensiero critico, e molti dei suoi protagonisti storici - da Diogene a Kierkegaard - sono stati figure eccentriche, spesso in contrasto con l’establishment.
La tua formula coglie un punto sottile: se l’autodefinizione non provoca riso o scandalo, forse è perché il pensiero espresso è percepito come autentico, coerente e degno di ascolto. In questo senso, l’opinione pubblica accademica agisce come una sorta di “tribunale informale” che, pur non avendo potere legale, esercita un’influenza simbolica.
Jürgen Habermas, ad esempio, ha riflettuto molto sul ruolo della sfera pubblica come spazio di legittimazione del discorso razionale.
E oggi, con la moltiplicazione dei canali comunicativi, anche la figura del filosofo può emergere fuori dai circuiti tradizionali, purché riesca a generare un pensiero che risuoni, interroghi e resista al tempo.
LUMEN – Grazie, mi piace il concetto di 'Tribunale informale'.


BAMBINI AL SUPERMARKET
Tutti i commercianti devono essere un po' psicologi, perchè devono incontrare i gusti dei loro clienti.
Ma i gestori dei moderni supermercati e centri commerciali, che decidono dove e come esporre le loro miriadi di merci, devono esserlo al massimo grado.
Non ci sarebbe nulla di male, in teoria; perchè se vai a fare la spesa con il cervello collegato, sei sempre tu quello che decide. Ma quanti sono che lo fanno ?
Credo che fare shopping sia, per molte persone, come ritornare bambini ed entrare nel paese dei balocchi.
Allora stacchi la spina del pensiero razionale e ti lasci cullare dai desideri istintivi del fanciullo che è in te, comprando tutto quello che ti piace.
Con grande soddisfazione dei gestori-psicologi di cui sopra, che hanno lavorato proprio per questo.
LUMEN

sabato 2 agosto 2025

I Risvegliati

Uno dei movimenti sociali più importanti degli ultimi anni è quello definito WOKE, che viene così descritto da wikipedia:
<< WOKE (in inglese 'sveglio') è un termine nato negli anni trenta del XX secolo per riferirsi alla consapevolezza delle problematiche relative agli afroamericani.
A partire dagli anni 2010, il termine ha cominciato a designare una consapevolezza più ampia relativa alle disuguaglianze sociali come la discriminazione razziale ed etnica, il sessismo, l'abilismo, e la negazione dei diritti della comunità LGBTQ. >>
Quelle che seguono sono le considerazioni critiche di Marcello Veneziani (tratte dal suo sito - LINK), sulla deriva ideologica assunta al movimento.
LUMEN


<< È più forte di loro. Prendete un partito, un giornale, un gruppo di pressione, un comitato intellettuale, un collettivo di qualunque natura orientato a sinistra, e prima o poi si costituirà in ufficio permessi e divieti, tribunale dell’inquisizione. Dimenticherà di essere una parte, un partito rispetto al tutto e si sentirà super partes, stabilendo regole, osservanza e infrazioni.

Sarà cioè inevitabilmente risucchiato da quell’ideologia che viene riassunta con l’espressione woke. In origine woke voleva dire essere svegli, poi è mutata in vigilanza – la famigerata vigilanza democratica – quindi è diventata sorveglianza. L’ideologia woke è di fatto un regime di sorveglianza che decide a chi rilasciare e a chi vietare i permessi di circolazione e a quali condizioni.

L’ideologia woke nasce come rivendicativa, in difesa di alcune minoranze maltrattate o non adeguatamente protette, e finisce come ideologia vendicativa, che si vendica con la realtà che non corrisponde al proprio codice ideologico. Ideologia del risentimento, direbbe Nietzsche, ma non il vago e mellifluo risentimento verso la vita, la salute, la bellezza, la grandezza che Nietzsche imputava al cristianesimo e ai suoi eredi, come il socialismo. Ma un’ideologia rancorosa che si esercita delegittimando, denunciando, punendo e censurando l’avversario. Mentre di solito non accade l’inverso.

"L’ideologia vendicativa" è il titolo di un libretto anti-woke scritto da una sociologa e ricercatrice del CNRS di Parigi, Nathalie Heinich. (...) L’ideologia woke è inevitabilmente un’ideologia per le minoranze destinate a restare minoranza; nessuna forza maggioritaria di un paese può mantenere quell’atteggiamento censorio, elitario, sprezzante e arrogante che è tipico di una minoranza che reputa di essere su un piano etico e cognitivo superiore rispetto agli altri. 

Finché sarà woke, la sinistra sarà minoranza astiosa in ogni paese; potrà avere potere di veto, potere intimidatorio e ricattatorio, potrà combinarsi ad altre oligarchie e detenere il potere in spregio alla sovranità popolare e alla volontà reale della gente. Ma non sarà mai l’espressione compiuta di una maggioranza.

Al catechismo woke c’è chi reagisce in modo combattivo, come annuncia Trump; c’è chi invece preferisce la tattica di acquattarsi, tacere e andare avanti senza opporsi. (...) Ma l’ideologia woke è un’emergenza per la democrazia, mette in pericolo la libertà e l’intelligenza, genera un clima di odio mentre professa di volerlo avversare. Se sentite di una lezione all’università, di una conferenza, di un convegno o di una manifestazione autorizzata, di un testo censurato, di un autore negato, sapete già in partenza che a decretare l’ostracismo, lo stigma, il divieto è sempre quel ceto commissario e inquisitorio chiamato in breve woke.

Così come ogni qualvolta si vuole imporre un busto correttivo alla realtà e alla verità dei fatti, ogni volta che si vuol cancellare un evento, una statua, un personaggio dalla storia, dalla topografia, dalle vie e dalle piazze sapete già che sono loro, i sorveglianti della Woke, la polizia culturale in servizio in Occidente. Le vittime possono essere naturalmente la destra, ridefinita sempre nazifascista o al più reazionaria, ma anche semplicemente chi non si riconosce nel canone woke, non è di sinistra, o perfino lo è ma in modo libero e critico.

Che l’ideologia woke sia una mentalità radicata a sinistra lo dimostrano mille indizi: l’ultimo è una ricerca (…) della Bocconi sulle “polarizzazioni affettive”. In una relazione mista tra una figlia di sinistra e un fidanzato di destra o viceversa, i più infastiditi e intolleranti sono i famigliari di sinistra (...), mentre la grande maggioranza delle famiglie di destra sarebbero molto più tolleranti. Insomma l’ideologia woke opera anche a uso domestico, in famiglia.

Nathalie Heinich  fa un’attenta classificazione dei tratti significativi dell’ideologia woke, che potremmo così riassumere: impone un rapporto del tutto ideologizzato col mondo; confonde la descrizione con la prescrizione, la norma correttiva a cui adeguarsi; genera un’alleanza tra l’ideologia normativa e gli interessi commerciali; ignora il contesto e non vede la differenza tra la realtà e la finzione; applica criteri di valutazione del presente anche al passato; disprezza i diritti morali degli autori, fino a stravolgere le loro opere nella censura e bonifica dei testi; infine è fanatica, e ciò compendia il moralismo, la speculazione, l’ignoranza militante e arrogante, l’abuso dei testi e degli autori, il disprezzo per l’opera d’ingegno, la negazione della realtà. Tutto questo dà vita a quello che l’autrice chiama totalitarismo woke.

Il wokismo inoltre irrigidisce l’appartenenza a comunità originarie; tanto è fluido nelle questioni sessuali e morali, quanto è rigido nelle identità di partenza, quelle etniche, razziali, “comunitarie”. Chi è bianco, maschio, europeo e cristiano è già marchiato d’infamia nella sua identità, di cui può solo vergognarsi.

Nel cercare un precedente a questa faziosità totalitaria e ideologica, la ricercatrice francese non trova di meglio che ripescare il solito fascismo; ma non ha bisogno di allontanarsi troppo nel tempo e nemmeno dal luogo in cui vive: tutto questo si sviluppò da Parigi in poi nel ’68. Anche quando attribuisce al fascismo la definizione del “tutto è politica” non si rende conto che fu proprio il ’68 a lanciare lo slogan “il personale è politico”, e tutto ciò che è privato sconfina nel pubblico. A voler invece rintracciare un archetipo storico, un precedente ideale e ideologico al catechismo woke, restando in Francia, basta rovesciare quel numero 68 e trovarne un altro: l’89, nel senso della Rivoluzione francese dei giacobini.

Giustamente la Heinich nota che stavolta l’ideologia woke è venuta fuori dall’America, anche se il seme ideologico è europeo; poi se la prende col femminismo ideologico e con la discriminazione mortificante delle quote rosa. E auspica l’uso attivo dell’ironia e dell’umorismo per sconfiggere l’arcigna ideologia woke che ne è totalmente priva.

Spiegando infine le ragioni del successo dell’ideologia woke, l’autrice sottolinea innanzitutto che è redditizio, arreca vantaggi a chi lo usa o lo serve. In secondo luogo nasce dalla paura: paura di stare dalla parte sbagliata e di subirne le conseguenze e paura di invecchiare, di restare cioè fermi al passato, tagliandosi fuori da ciò che è trendy. Sulla scia di Hannah Arendt, l’autrice nota che l’ubbidienza woke attecchisce anche perché i sistemi totalitari preferiscono la mancanza d’intelligenza e di creatività, perché dà maggiori garanzie di lealtà, cioè di conformismo.

Per la Heinich il woke capovolge virtù originarie in oppressione. E come esempi di virtù originarie cita l’ideale ugualitario della Rivoluzione francese e l’ideale comunista della rivoluzione bolscevica. Non le sfiora il sospetto che quelle virtù, proprio perché irrealizzabili e utopistiche, contenevano già in sé le premesse per la loro involuzione totalitaria, tossica e sterminatrice. Del resto, non c’è bisogno di fare congetture: basta vedere dove condusse il Terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista ovunque si sia imposto nel mondo. No, l’ideologia woke non nasce dal nulla, anche se può produrlo. >>

MARCELLO VENENZIANI