sabato 31 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 3

Prosegue il post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (terza parte di quattro - LINK).
LUMEN


(segue) << Da queste ultime contraddizioni occorre muovere i passi per dipanare il mistero moderno della scuola universale. La spiegazione più semplice è di tipo economico. Le rivoluzioni industriali hanno reso necessaria la formazione di un numero crescente di addetti alla «megamacchina» del processo produttivo: tecnici della chimica, della meccanica, dell'elettronica, dell'edilizia, del diritto, dell'amministrazione, dell'economia, del commercio, della medicina, della psicologia, delle lingue straniere ecc.

Il mastodontico sforzo didattico avviato in quegli anni non è dunque indirizzato a produrre l'elevazione intellettuale e civile che i più filantropi ascrivono alla scuola, per quanto il permanere di (sempre più labili) residui umanistici ereditati dal passato abbiano talora alimentato questa ambizione.

Ma la spiegazione non basta. L'asservimento della scuola per tutti allo sviluppo produttivo non è infatti che un capitolo, né il primo né l'ultimo, di un asservimento più vasto. Si è anzi visto che l'attuale ipertrofia scolastica non è granché funzionale al bene economico della nazione e integra un aspetto della burocratizzazione, della cattiva occupazione, del declino industriale e della crescente dipendenza dalle produzioni e dalla manodopera importate dall'estero.

Eppure si insiste a predicare «più scuola». Perché? Evidentemente agisce un movente ideologico. Come molte agiografie moderne, anche quella scolastica glorifica l'oggetto senza curarsi dei suoi attributi.

Esiste solo «la scuola» e non le scuole, e se casomai queste ultime non corrispondono all'idea platonica di un luogo in cui le masse si elevano e si emancipano, allora non si tratta di «vera scuola». L'onestà vorrebbe invece che si considerassero i fenomeni e non i pensieri sognati, per quanto nobili.

Siccome l'insegnamento esiste da millenni in forme sempre diverse, anche la scuola moderna non è la stessa di cento o di vent'anni fa e la si può dunque solo identificare col suo metodo, cioè appunto col fatto di essere obbligatoria per tutti fino a una certa età e desiderabile per tutti a seguire.

Nella sua essenza è dunque un'infrastruttura, un vaccinatore di idee. L'attuale modello scolastico si è istituzionalizzato con le ferrovie e si è consolidato con le autostrade, l'elettrificazione e gli acquedotti: è un'opera di cablaggio ideale che al pari della stampa e della televisione fa da controcanto all'innervazione materiale dello Stato centralistico contemporaneo.

È perciò ozioso discettare di contenuti e programmi, i quali non possono che riflettere di tempo in tempo l'agenda e i bisogni del padrone dell'infrastruttura, sia esso lo Stato o chi comanda per suo tramite. Pretendere che l'infusore scolastico accolga temi o visioni invise a chi lo governa sarebbe come chiedere a un imprenditore di produrre per la concorrenza!

All'inizio e specialmente nei Paesi giovani come il nostro, le scuole servivano a diffondere la conoscenza della lingua nazionale. Un ruolo che si può dire ancora attuale se si allarga l'accezione della grammatica anche ai giudizi, ai miti buoni e cattivi, a eventi e personaggi storici «imprescindibili», alle competenze «di base», ai comportamenti «virtuosi», alle battaglie «giuste».

Nelle aule si imprime fin dall'infanzia una lingua comune di riferimenti che tutti devono padroneggiare. Sono insieme il depositum della tradizione civile e la terra fertile in cui gettare i semi delle idee nuove destinate a farsi identità e coscienza: anche e soprattutto le più estreme, quelle che più difficilmente metterebbero radici nella popolazione adulta.

Lì si struttura il campo cognitivo del citoyen che prende a cuore certi temi e ne tralascia altri, sottintende ciò che non si deve discutere, adotta determinati criteri di verità e non altri, si attiva pavlovianamente all'udire certi nomi, certe vicende storiche, certe astrazioni auto-esplicative, nel bene o nel male.

Lì si traccia il disegno neurale e si innestano i radicali a cui si legherà il discorso pubblico, che altrimenti scivolerebbe in superficie perché poco comprensibile e alieno. Per leggere un articolo di giornale bisogna certo conoscere l'alfabeto, ma per esserne influenzati occorre che si abbia già in sé un bagaglio di 'topoi' condiviso con l'autore.

Solo così si possono conquistare i lettori con poche righe o anche con un solo slogan, a volte con una sola parola! Si resta perciò esterrefatti all'udire che la scuola offrirebbe un antidoto alla manipolazione, essendone al contrario il fondamento, la propedeutica, il requisito.

Un collaterale di questa operazione è la mediocrità. Giacché l'omologazione degli intelletti non è né un rischio né un difetto, ma il primum movens dell'universalismo scolastico, i contenuti e i ritmi dell'insegnamento debbono assestarsi su un livello accessibile a tutti: cioè minimo.

Il proposito astrattamente nobile di non lasciare indietro alcuno si traduce nel bisogno di tirare indietro qualcuno, cioè i pochi davvero vocati allo studio. Un prezzo accettabile se la priorità è appunto quella di comprimere tutti nello stesso stampo di cittadinanza (si è anche arrivati a vedervi una qualche forma di solidarietà e di addestramento sociale), drammatico se si vuole coltivare il massimo di ciascuno per il bene di tutti.

Per quanto ci si sforzi al contrario, dove vige una siffatta istruzione non può esserci educazione: non si possono ex ducere le predisposizioni irripetibili e insieme imporre ripetitivamente un ordine (instruere) predisposto nel cosa e nel come. Si chiarisce forse così una correlazione paradossale dell'ultimo secolo, durante il quale al crescere degli istruiti e del grado di istruzione si è accompagnato un deterioramento continuo delle produzioni culturali.

È difficile non distinguere il marchio del nozionificio erga omnes nell'impoverimento delle arti, nella musealizzazione della ricerca filosofica, nello stato penoso degli «intellettuali» prevedibili e disciplinati che rimasticano da decenni le stesse cantilene.

Quanto scritto vale per la scuola dell'obbligo e per i successivi corsi superiori, sennonché nei secondi lo stereotipo didattico deve adattarsi ai percorsi vocazionali senza soffocarli del tutto e mantenere un equilibrio non sempre facile tra efficacia professionale e requisiti di adesione ideale (...).

La dilagante istruzione accademica ha specialmente alimentato il fenomeno inedito della semicultura, ancora poco e male analizzato ma di massima centralità per il buon funzionamento della macchina propagandistica. Il semicolto è un individuo che frequenta o ha frequentato un corso di studi universitari (uno qualsiasi) e in ragione di ciò si presume titolare di una capacità superiore di comprendere la realtà (tutta) e di distinguervi il vero dal falso.

Questa curiosa credenza è con tutta probabilità figlia di un'appropriazione semantica, si indovina in essa l'eco del prestigio intellettuale di cui godevano gli eruditi delle accademie antiche, sennonché in queste ultime si esercitavano effettivamente le arti retoriche, filosofiche, teologiche ecc. utili per bene interpretare fatti e proposizioni, mentre gli atenei moderni sono scuole di specializzazione in cui si impartiscono le basi di una professione. (...)

In questo equivoco tollerato e invero incoraggiato dalla società il semicolto sguazza e troneggia tra gli indottrinati.

Egli è, tra tutti, la preda più facile da condizionare. In generale perché la sua presunzione di sapere lo mette al riparo dal dubbio collocandolo socraticamente ai vertici dell’ignoranza e della creduloneria; in senso tecnico perché, avendo egli confuso il linguaggio della conoscenza con la conoscenza stessa, gli si può vendere qualsiasi «verità» agghindandola coi ninnoli dell’accademia: numeri, calcoli, tavole, istogrammi, reminiscenze da manuale, cognomi venerabili, acronimi anglotecnici, riviste reputate ecc.

Siffatte presentazioni strizzano l’occhio al semicolto e lo chiamano in causa offrendogli la gloria di tradurre il messaggio agli illetterati. Che stia casomai traducendo un falso è un problema che non può sfiorarlo, giacché l’unica prova ontologica che gli sta a cuore è quella del proprio creduto primato culturale: certificato dall’istituzione con un pezzo di carta e una corona d’alloro, destinato a riconfermarsi nella rincorsa del verbo istituzionale, non avendo altre basi. (…) >> (continua)

IL PEDANTE

lunedì 26 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 2

Continua qui il post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (seconda parte di quattro - LINK).
LUMEN


(segue) << L'istruzione scolastica a tutti i costi e per tutti ha appiattito i criteri di valore, le prospettive, le vocazioni. Oggidì è quasi automatico subordinare la qualità umana e sociale di un individuo ai suoi successi scolastici, anche in termini predittivi: chi non studia, si pensa, «farà una brutta fine».

Mai prima d'ora si era imposto un canone così angusto e monomaniaco, un one size fits all di matrice così tanto zootecnica e così poco umanistica. Ciò comporta innanzitutto uno stigma precoce a carico di chi, per ragioni personali o ambientali, è poco vocato agli studi, avverando così la profezia della sua «brutta fine» o quantomeno condannandolo ad anni di frustrazioni e fallimenti che avrebbe potuto meglio impiegare in attività e apprendistati più consoni alle sue inclinazioni.

Se è da apprezzare lo sforzo dei pedagoghi di «valorizzare» i talenti di ognuno, non si può fingere che questo sforzo cozzi contro il dogma della scuola dell'obbligo come luogo formativo par excellence dove ultimamente lo stigma si è addirittura medicalizzato: ora la scarsa attitudine all'apprendimento integra una gamma di «disturbi specifici» (DSA), sicché chi non si conforma ai programmi è «disturbato» oltreché inadeguato, con le immaginabili conseguenze sulla percezione di sé e del proprio futuro.

Dall'altro lato, e per gli stessi motivi, la scuola si è imposta come unica concepibile prospettiva di sviluppo dei giovani. È altrettanto comune ritenere che un adolescente minimamente dotato di intelletto e di volontà debba procedere a ogni costo negli studi, ché altrimenti sarebbe «sprecato».

Questa visione appare logica ma è tragicamente disfunzionale, perché implica di converso che tutte le professioni e i ruoli che non richiedono una scolarizzazione canonica – ma ciò nondimeno perizia, esperienza, passione, vocazione, serietà, puntualità, dedizione ecc. – siano destini di ripiego da lasciare a chi non possiede i requisiti minimi per ripetere quattro nozioni: «se proprio non vuoi studiare, impara almeno un mestiere!».

Ciò implica fatalmente un abbassamento del numero e della qualità degli addetti ai settori manuali e artigianali, con la nota conseguenza di faticare vieppiù a reperire professionisti capaci e di vedere mestieri indispensabili scomparire o finire nel monopolio di improvvisati e disonesti.

Simmetricamente, si gonfiano invece le fila degli «studiati» per inerzia, per il solo fatto cioè di possedere una qualche dote mnemonica e metodica ma senza una vocazione reale. Costoro, oltre a sottrarre forze e intelligenze ai mestieri stupidamente detti «umili», trovano di rado una collocazione professionale coerente con i loro studi e finiscono per ingrassare il già bulimico terzo settore e i connessi «bullshit jobs» descritti da David Graeber.

Non si può ignorare il nesso potente tra la matta e disperata corsa agli studi superiori purchessia e la crescita metastatica degli impieghi improduttivi «di concetto» che assorbono i frutti di quella corsa per darle un senso e arginare la disoccupazione. Ecco proliferare gli apparati burocratici, le procedure, le consulenze, gli organi di supervisione e supporto, i promotori, i facilitatori, i controllori, i pianificatori, i formatori, i relatori, i certificatori, i sanzionatori, i digitalizzatori, le facoltà universitarie e le funzioni aziendali dai nomi inglesi che non esistevano fino all'anno prima.

Questa massa plumbea di «competenze», che non avrebbe il benché minimo mercato se non fosse imposta per legge, pesa come un cadavere sul residuo mondo produttivo e lo soffoca con oneri procedurali, consulenziali e formativi al solo scopo di mantenere in vita se stessa. Se è dunque vero che oggi bisogna studiare di più perché «è tutto più complesso», quell'inutile complessità è anche figlia e funzione dell'inutile proliferare degli studi.

Altre sono le apologie di ordine prettamente ideale. Secondo una tesi classica, una popolazione largamente istruita sarebbe più consapevole dei determinanti tecnici e culturali che influenzano la propria esistenza e riuscirebbe così a operare scelte migliori per sé e per la collettività. La complementarietà di democrazia e istruzione è iscritta nelle civiltà costituzionali: affinché il popolo eserciti una sovranità effettiva occorre che possegga gli strumenti necessari per acquisire e interpretare le informazioni che riguardano il governo dello Stato. 

Ciò varrebbe anche quando la sovranità gli è negata, perché le nozioni e il metodo appresi negli anni scolastici lo proteggerebbero dalle mistificazioni del potere. L'istruzione dovrebbe dunque essere imposta a tutti per il bene di tutti, indipendentemente dai suoi vantaggi materiali diretti. Per quanto splendidi a parole, anche questi argomenti scricchiolano nei fatti.

Si potrebbe obiettare che: 1) a differenza di quella elitaria del passato, l'odierna istruzione superiore di massa fornisce prevalentemente contenuti tecnici mentre quella di base, inclusi i licei, offre una propedeutica blanda e dispersiva. La scuola moderna non produce dotti né tantomeno saggi, né potrebbe mai farlo dovendosi serialmente rivolgere a moltitudini eterogenee, sicché gli istruiti dei tempi nostri imparano poco di tutto nelle scuole preparatorie e tutto di poco nelle università. I più istruiti sono tecnici di alto livello, conoscono il come ma non il cosa, ed è perciò del tutto fuorviante il paragone con la vastità, la profondità e la completezza degli antichi 'cursus studiorum' e la consapevolezza di sé e del mondo che vi si acquisiva. 

In quanto alla democrazia, 2) la diffusione dell'istruzione a tutti i livelli è stata perseguita con successo anche da Paesi non democratici come la Cina, le monarchie del Golfo, l'Unione Sovietica e le nazioni a est della cortina di ferro, senza che ciò ne abbia intaccato i regimi, mentre 3) nel mondo «libero» proprio la stagione dell'alfabetizzazione universale e della democratizzazione dell'accademia ha visto vette di propaganda, di menzogna pubblica e di impoverimento dialettico mai sperimentate prima.

Gli imparati dell'Occidente hanno creduto senza batter ciglio alle provette irachene, alle fosse di Tripoli, alle ciarle scientistiche, ai predicozzi dei ragionieri e insomma a ogni favola scodellatagli dai giornali. Né si può proprio dire che la maggiore istruzione abbia vivacizzato lo scambio culturale e moltiplicato gli apporti al sapere. «Negazionista» e «revisionista» sono solo alcuni degli epiteti con cui si tappa la bocca di chi osa applicare l’osannato «metodo critico» alle nozioni gradite ai potenti.

Mai tanto quanto nell'epoca in cui tutti vanno a scuola si elargiscono accuse di ignoranza e di analfabetismo «funzionale» (non potendo più invocare quello 'stricto sensu') e l'ingiunzione di credere fideisticamente agli esperti, cioè a chi ha studiato di più. Sennonché anche il primato culturale di questi ultimi è funzione dei giochi di forza e vale solo se è asservito all'opinione «giusta». Chi la pensa diversamente, fosse anche un premio Nobel, precipita nello stesso girone degli incompetenti e riceve sberleffi, richiami, radiazioni, sanzioni. Questa è la condizione della civiltà più scolarizzata di sempre, questi i suoi frutti di libertà, pluralità, indipendenza di giudizio.

Più in generale, 4) se davvero gli apparati di potere considerassero l'istruzione delle masse una pericolosa incubatrice di consapevolezza e di critica che limita il loro arbitrio, perché vorrebbero promuoverla fino a renderla obbligatoria? Non sarebbe più logico che la vietassero, o almeno che non la incoraggiassero? E se davvero la scuola desse agli umili gli strumenti per insidiare i privilegi di ricchi e potenti, perché questi ultimi non la boicottano ? 

'Summa quaestio', si capisce, che il lettore non mancherà di applicare anche al giornalismo, alla libertà di parola, al mercato, al processo elettorale... >> (continua)

IL PEDANTE

mercoledì 21 maggio 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 1

Il post di oggi – scritto da Il Pedante - cerca di andare alla radice del concetto sociale di scuola e di istruzione.
E, con grande acutezza, descrive in modo magistrale la sua evoluzione dagli inizi elitari, quando c'erano solo i precettori privati, sino alla moderna scuola pubblica (ed obbligatoria), con gli insegnanti stipendiati dallo Stato.
Il testo, che ho deciso di dividere in 4 parti per comodità di lettura, è tratto dal blog personale dell'autore (LINK).
LUMEN


<< L'istruzione universale e obbligatoria è un concetto recente. Non se ne ha traccia nella storia antica, nel medioevo e neanche in età moderna, con una sola eccezione: l'appello (...) con cui Martin Lutero auspicava per la prima volta l'istituzione di una scuola pubblica obbligatoria rivolta a tutti.

Il riformatore tedesco desiderava così da un lato scalfire il monopolio cattolico dell'istruzione delegandola alle autorità civili delle 'Stadte', dall'altro consentire a ciascun fedele di attingere senza mediazioni al testo biblico secondo il principio della «sola scriptura» che nella dottrina luterana delle origini doveva «solam... regnare, nec eam meo spiritu aut ullorum hominum interpretari, sed per seipsam et suo spiritu intelligi» (...).

Il concetto odierno di istruzione pubblica nasce su queste basi teologiche nella Prussia protestante, ma si sarebbe concretamente affermato ben più tardi, verso la metà dell'Ottocento, mentre ancora un secolo fa soltanto un quarto della popolazione mondiale sapeva leggere e scrivere. Se l'idea è giovane, la sua applicazione è dunque giovanissima. Tra tutte le idee moderne, è forse la più moderna.

Vista con gli occhi di oggi, questa verità disorienta. Da decenni i tassi di alfabetizzazione e di lauree figurano tra gli indici di sviluppo per eccellenza e sembrano così ovvi che nessuno se ne chiede più il perché, o perché le più prospere e raffinate civiltà del passato non li considerassero tali.

Alcuni direbbero che un tempo non si capiva l'importanza di queste conquiste, ma altri troverebbero forse implausibile che proprio nessuno tra i filosofi più eccelsi, i filantropi più illuminati o i santi più misericordiosi ne avesse almeno intuito l'importanza. E che sia perciò difficile definire «conquista» ciò che fino a qualche decennio fa nessuno voleva proprio conquistare.

Il caso è davvero unico. Mentre valori come la pace, l'abbondanza, la sicurezza, la salute e le arti sono da sempre riconosciuti e desiderati, la massima diffusione dell'istruzione scolastica è invece un obiettivo tutto contemporaneo, inedito eppure già universalmente percepito come «eterno».

La sua forza dogmatica trascina tutti, persino i più conservatori, che pur criticando la scuola di oggi perché ostaggio delle ideologie del momento, professionalizzata, assediata da burocrazia e informatica, dimentica delle radici classiche e cristiane ecc. non dubitano invece della necessità che tutti ci debbano andare. Bisogna tornare indietro, sì, ma non troppo!

Il tema offre insomma un punto di osservazione prezioso sull'eccezione della modernità e invita a sondarne le credenze inespresse. Dal punto di vista popolare l'istruzione è associata alla sicurezza economica, al potere e al prestigio sociale.

Questo nesso era percepito anche in passato, sennonché la causalità che sottende è inversa rispetto a ciò che di norma si intende: i ricchi erano istruiti in quanto ricchi, non ricchi in quanto istruiti. Sperare di ascendere alle classi superiori in virtù dell'istruzione sarebbe stato come credere di farsi monaco indossando l'abito proverbiale, o re appoggiando le natiche sui cuscini di un trono.

I tanti dotti che hanno dato lustro alla storia erano miseri o abbienti, disprezzati o riveriti, servi o padroni indipendentemente dalla loro dottrina: il successo mondano dipendeva dalla famiglia, dal coraggio, dalla scaltrezza o dal crimine, mentre gli eventuali studi compiuti erano casomai una conseguenza degli agi, non la causa.

La prospettiva contemporanea distorce questa verità storica assumendo a norma gli anni eccezionali dell'alfabetizzazione universale durante i quali, però, il miglioramento delle condizioni materiali ha interessato tutti indipendentemente dal grado di istruzione e il - relativamente minimo - vantaggio sociale degli istruiti è stato imposto ex lege con l'introduzione e l'estensione del valore legale dei titoli.

Lauree e specializzazioni sono così diventate trofei da remunerare affinché si autoavverasse la profezia dello studio che «conviene».

Da un'indagine di recente pubblicazione emerge effettivamente una correlazione tra laureati e percettori di redditi medio-alti nei comuni italiani, ma più che la significatività tutto sommato modesta di questo nesso (28,5%), colpisce il fatto che, con pochissime eccezioni, i comuni che si collocano sopra la linea di tendenza dei redditi appartengono alle regioni settentrionali mentre quelli del centro-sud ricadono puntualmente al di sotto di essa, a prescindere dal tasso di lauree. Ciò suggerisce che la ricchezza pregressa e contestuale conta più del grado di istruzione.

L'esperienza conferma che anche nell'irripetibile periodo post-bellico i più benestanti erano istruiti perché provenivano da famiglie già benestanti o si posizionavano in contesti già floridi.

Il secondo problema è che anche la moneta dell'istruzione, come tutte le monete, è tanto più preziosa quanto più è scarsa. Se non all'opulenza e all'aristocrazia, gli scolarizzati del passato potevano almeno aspirare ai mestieri più comodi del segretario, dell'aio, del cerusico, dell'ingegnere o del notaio, ma ciò avveniva appunto in virtù del fatto che pochi potevano ricoprire quelle posizioni. È dunque evidente che un tale vantaggio decade se la scuola è imposta a tutti.

Negli ultimi decenni, è vero, le società industrializzate hanno creato un'offerta senza precedenti di posizioni tecnico-scientifiche e amministrative, ma le ferree leggi dell'inflazione hanno presto ripreso il loro dominio. Invece di attenuarsi nell'abbondanza, il vantaggio scolare ha finito per spostare i suoi requisiti sempre più in alto allungando insensatamente gli studi con l'obiettivo taciuto di mantenere competitiva l'arena.

Per restare negli ambiti a me noti, oggi per insegnare la musica non è più sufficiente conoscerla e praticarla con perizia, ma bisogna anche sostenere esami di psicologia, informatica, recitazione, filologia, diritto, fisiologia (sic) ecc. (…).

Dove ieri non erano richiesti studi, oggi bisogna avere il diploma; dove bastava il diploma ci vuole la laurea; dove la laurea, la specializzazione; dove la specializzazione, il master, il dottorato, la «formazione continua» ecc. alimentando una tenia che ostacola e reprime le forze più fresche della società.

Mentre milioni di persone trascorrono (se va bene) un terzo delle loro esistenze abbuffandosi di nozioni irrilevanti, inutili e destinate a un oblio quasi istantaneo, eserciti di laureati reclamano senza successo posizioni e gratifiche all'altezza delle loro fatiche, vittime di una sciagurata retorica che rappresenta lo studio come un merito, un diritto e un dovere, mai invece come uno strumento tra i tanti, qual è.

Una credenza antica (lo si è visto, poco fondata) è così degenerata in ideologia: chi più studia n'importe quoi è più «bravo» e la società gli deve un premio. Da qui discende una cascata di effetti negativi. Il grado di istruzione si è imposto tra gli obiettivi più iconici delle lotte per l'emancipazione di classe, sennonché nel ripetere la solita inversione causale si è certificato il primato sociale degli istruiti invece di reclamare parì dignità a tutte le funzioni sociali, come sarebbe stato più intelligente e più giusto fare.

Nell'implicare che chi ha un'istruzione è migliore, si è certificato che chi ne è privo è peggiore. La storia degli ultimi decenni ha fatto almeno economicamente giustizia di questo equivoco tracciando una parabola in cui ieri i protagonisti delle classi meno scolarizzate si sono giovati dell'accresciuta sicurezza economica (quindi non dell'istruzione) per far sì che i propri figli accedessero agli studi superiori, mentre oggi quei figli, ottenuti i titoli, si trovano a godere di condizioni materiali mediamente peggiori di quelle dei loro genitori. 

Conquistato il symbol, hanno perso lo status. Arraffato il fumo, gli è sfuggito l'arrosto. >> (continua)

IL PEDANTE

giovedì 15 maggio 2025

Pensierini - LXXXVI

ECCEDENZE E DISUGUAGLIANZE
Se ho interpretato correttamente il pensiero dell'antropologo David Graeber (così come reperito sul web) la storia economico/sociale della civiltà umana potrebbe essere condensata in questi pochi passaggi:
= ciò che distingue l’animale umano dagli altri animali è l’eccedenza produttiva
= il potere si riduce, in ultima analisi, alla capacità di gestire (ed appropriarsi) delle suddette eccedenze, tramite la forza, i tributi e le manipolazioni ideologiche.
= il tentativo più radicale di porre rimedio alle disuguaglianze è stato quello marxista, che prevedeva che le eccedenze potessero essere amministrate collettivamente, ma è fallito senza speranza.
= un altro modo di raggiungere una forma sostanziale di uguaglianza sarebbe quello di eliminare, alla radice, la possibilità di accumulare eccedenze, ma è una soluzione impraticabile per delle società iper-complesse come le nostre.
La mia personale opinione è che 'tertium non datur', per cui – preso atto del fallimento marxista e dell'impossibilità di rinunciare alle eccedenze - siamo condannati a proseguire sul cammino della disuguaglianza.
E tutti coloro che non la sopportano dovranno farsene una ragione.
LUMEN


IL LAVORO RENDE LIBERI
Mi scuso per il titolo, che richiama i tristi anni del nazismo e dei lager (dove campeggiava la famigerata scritta 'Arbeit macht frei'), ma il concetto mi interessa molto, perchè lo trovo più centrato che provocatorio.
Aristotele infatti diceva: “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero”; ed il godimento del tempo libero può essere considerato il vero scopo della vita.
Mi sembra quindi un concetto fondamentale, al quale io aggiungo: i soldi in più (cioè quelli che avanzano dopo aver provveduto alle cose necessarie) non devono servire per comprare oggetti inutili, ma solo per far fare a qualcun altro (pagando) le cose che noi non sappiamo o vogliamo fare.
La vera libertà, in fondo, è questa; e (per chi non è ricco di famiglia) può venire solo dal guadagno del proprio lavoro.
LUMEN


LOGICA IMPERIALE
Secondo Uriel Fanelli “Un impero non sta in piedi per quanto e' potente, ma per quanto e' redditizio per coloro su cui impera”.
Così, per esempio (secondo Fanelli) i paesi europei hanno accettato di buon grado l'invadenza USA perche', in cambio di una certa sottomissione, avevano accesso alla “american way of life” , cioe' a pace e prosperita',
Allo stesso modo, gli imperatori romani avevano numerosissimi patti di affiliazione con re locali e tribu' varie, che davano a loro (o meglio alle loro elites) alcuni vantaggi materiali.
Ovviamente, conclude Fanelli “nel momento in cui il patto si rompe l'impero inizia a disgregarsi”. Anche se poi, aggiungo io, i vertici dell'impero se ne rendono conto quando è troppo tardi.
LUMEN


ALFABETO UNICO
Nel mondo esistono tantissime lingue diverse, con tanti alfabeti e ideogrammi diversi, ed è utopistico pensare di poter mai arrivare ad una lingua unica, anche per rispetto delle rispettive culture che hanno una storia secolare (se non millenaria).
Però dovrebbe essere possibile avere, quanto meno, un alfabeto unico, per capirsi meglio, come succede, con ottimi risultati, nella matematica, dove i numeri ed i simboli sono uguali per tutti e, se non sbaglio, anche in molte branche della scienza (soprattutto chimica e fisica).
Ed avere magari un unico verso di scrittura (da sinistra a destra, oppure da destra a sinistra) che sia uguale per tutti.
Ma temo che anche questo resterà un sogno irrealizzabile.
LUMEN


DECISIONISMO POLITICO
Secondo alcuni commentatori, il secondo mandato di Trump alla Casa Bianca (quello attuale) avrebbe dato una svolta alla struttura di potere delle elites americane, ed occidentali in senso lato.
Il suo travolgente decisionismo politico, infatti, starebbe ad indicare che, dopo tanti decenni, le elites della politica istituzionale stanno riprendendo il sopravvento sulle elites economico-industriali.
L'ipotesi è senza dubbio intrigante; io però continuo a non crederci, perchè, salvo i casi delle dittature ereditarie o fortemente ideologiche, io metto le elites economiche SEMPRE al di sopra della politica.
I motivi sono diversi, ma il principale è che i politici vanno e vengono (in democrazia anche in tempi brevi), mentre i grandi capitalisti, data la loro struttura famigliare, restano.
E, nell'esercizio del potere, i tempi lunghi sono una garanzia di forza e di conservazione come poche altre.
LUMEN

venerdì 9 maggio 2025

Hic sunt Leones

Le prime impressioni sul nuovo Papa Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost , da parte di un cattolico tradizionalista come Massimo Viglione.
Il testo è tratto dal blog 'Duc in Altum' (LINK).
LUMEN



<< La presentazione [del nuovo Papa] dalla loggia petrina è avvenuta in maniera accettabile e abbastanza nella tradizione, in pieno contrasto con quella sciatta e aggressiva di Bergoglio.
A differenza sua, ha: indossato la mozzetta; recitato l’Ave Maria e ha fatto riferimento alla Madonna di Pompei (ieri era infatti l’8 maggio), rompendo chiaramente con gli intollerabili e ripetuti oltraggi che Bergoglio ha rivolto alla Madre di Dio (“la ragazza della porta accanto”, “Maria una di noi”, ecc.); concluso con una benedizione solenne Urbi et Orbi foriera dell’Indulgenza plenaria alle solite condizioni. Tutti aspetti della tradizione sana.
Inoltre, non ha parlato a braccio, ma leggendo un testo scritto, suggerendo così una scelta accurata delle parole.

La scelta del nome: tradizione e filo-immigrazionismo

Uno degli aspetti iniziali degni di nota è la scelta del nome, sicuramente tradizionale. Potrebbe richiamare Leone XIII o san Leone Magno. Tuttavia, il riferimento più probabile, vista la enorme distanza cronologica con il grande pontefice del V secolo, è quello di Leone XIII, noto come il papa della Rerum novarum, l’enciclica che ha fatto entrare, in maniera specifica, la questione sociale nella dottrina ufficiale della Chiesa. Ciò lascia supporre un’attenzione prioritaria, come si dice oggi, agli “ultimi”, che però, tradotto nella pratica oggi, starebbe a concretizzarsi, inevitabilmente, con l’appoggio all’immigrazionismo, come del resto Prevost ha sempre fatto nel suo passato di vescovo e cardinale.
​Occorre dire che Leone XIII condannò durissimamente il Risorgimento italiano e la massoneria: ma questi non possono certo essere i riferimenti che il nuovo pontefice intenda avere.
Quindi, una scelta che appare ambivalente: tradizionale in sé, globalista nella pratica quotidiana.

La questione della pace e dei ponti

Importante notare che la prima parola è stata “pace” (“La pace sia con voi”), che poi ha ripetuto almeno dieci volte.
Occorre anticipare, a riguardo, il fatto che ha immediatamente specificato che “La pace sia con voi” è il saluto di Gesù agli Apostoli dopo la Resurrezione, facendo capire, in tal maniera, che la pace non è quella del mondo, ma quella di Dio. E questo è buono.
Inoltre, il fatto di aver citato tante volte la parola lascia quasi intendere che non era indirizzata solo a livello internazionale e politico, ma anche interno alla Chiesa. Ovvero, una certa volontà di pacificazione interna, necessarissima, dopo l’odiosa e tirannica conduzione bergogliana, fatta di terrore interno, di scomuniche, di divisioni, di malumori repressi per dodici anni. Vedremo se così sarà.
Poi ha nominato varie volte i “ponti”. Questa è innegabilmente un’espressione bergogliana, che smentisce quanto appena detto perché si concretizza al contrario con la “pace del mondo”, ovvero con l’ecumenismo religioso, con il relativismo dottrinale, il pacifismo acritico, l’accettazione del mondo attuale e quindi dell’ideologismo globalista, e, ancora una volta, l’immigrazionismo.
E tutto questo certo non è buono affatto. È Rivoluzione in atto.
Con il concetto di “ponti” si potrebbe anche intendere la volontà che la Chiesa faccia da ponte tra le grandi potenze del mondo, per arrivare a una pace “disarmata e disarmante”, come ha detto.
Questo in sé non sarebbe male, ma occorre vedere in quale maniera intende perseguire questo fine.

Bergoglismo allo stato puro

Ha apertamente elogiato Bergoglio, ben due volte nel suo discorso.
Del resto, deve a lui tutta la sua carriera, compresa l’elezione, visto che è stato messo a capo della Congregazione dei vescovi, il che lo ha reso uno dei pochi conosciuti fra i cardinali (che Bergoglio non ha mai permessero che si incontrassero in precedenza).
E, infatti, in base alle notizie che abbiamo potuto ricavare finora, specie provenienti dal continente americano, Prevost è assolutamente per: la sinodalità (lo ha anche detto nel discorso), ovvero per il processo di autodemolizione strutturale dell’unità della Chiesa, l’ecologismo, il vaccinismo. 
In un intervento pubblico (trovabile su internet), invita apertamente tutti i cattolici a bucarsi, compiendo “l’atto d’amore” bergogliano. E questa è una responsabilità gravissima che pesa sulla sua coscienza.
Inoltre, è stato più volte accusato di aver coperto gli abusi sessuali di ecclesiastici, in pieno stile Bergoglio.
È inutile girarci intorno: su questi elementi, ci troviamo dinanzi a un Bergoglio 2, nonostante le differenze sopra indicate.

Agostiniano statunitense

È un agostiniano, il che non depone sfavorevolmente, specie in rapporto al suo predecessore, perché presuppone una profondità teologica e spirituale, oltre che una certa “sapienza” pastorale e umana. 
Gli agostiniani, per quanto integrati nella Chiesa conciliare, hanno sempre avuto un atteggiamento riservato e prudente. Questo di principio: poi, nei fatti, staremo a vedere se sarà così.
È statunitense. Qui si apre, a nostra opinione, una duplice possibilità di prospettiva. Essendo senz’altro ostile a Trump, potrebbe essere stato scelto proprio come contraltare al trumpismo arrogante e incontenibile. 
D’altro canto, essendo pur sempre un suo connazionale, rimane comunque un “ponte” (per l’appunto) aperto con l’uomo che, non ostante tutto quanto sta accadendo negli Usa, resta pur sempre il più decisivo nel mondo attuale. 
Le parole pronunciate dal presidente statunitense subito dopo l’elezione sembrano andare in questa direzione. (...)

Prime timide ma purtroppo realistiche conclusioni

La considerazione più ovvia è che Leone XIV è un figlio del Concilio Vaticano II, avendo per di più alle spalle immediatamente Bergoglio. Pertanto, è inutile sognare un papa tradizionale; si ha a che fare con un modernista.
È un passo indietro rispetto a Bergoglio. Ma questo è l’usuale procedimento Rivoluzione: due passi avanti e uno indietro, marciando però sempre innanzi verso la dissoluzione. 
Questo passo indietro non cambia la direzione. La direzione è quella già chiara: sinodalità, ecologismo, immigrazionismo, vaccinismo, dialogo.
Fermo restando che poteva andare molto ma molto peggio (...), ci sembra di poter dire che sarà probabilmente un riformista pacificatore, una sorta di democristiano dei nostri tempi: cercherà la pace, porrà fine all’odiosa gestione bergogliana, ma proseguirà la strada tutta in discesa dell’attuazione estrema del Concilio Vaticano II (o III, nel senso di come lo ha sviluppato Bergoglio: il “concilio quotidiano”).
Forse, sarà una trappola mortale per il mondo dei tradizionalisti e dei conservatori, sempre pronti, in grandissima parte, a cadere nella idolatria papolatrica in cambio di un piatto di lenticchie. >>

MASSIMO VIGLIONE

sabato 3 maggio 2025

I Diari del Secolo

La storia è piena di documenti falsi, anche importanti, che spesso hanno cambiato il corso degli eventi, perchè la loro falsità è stata riconosciuta solo in seguito.
Tra i falsi storici di impatto maggiore possiamo citare 'La donazione di Costantino', che ha avvantaggiato indebitamente la Chiesa di Roma, oppure 'I protocolli dei Savi di Sion', che ha rafforzato l'odio popolare contro gli Ebrei, ma ve ne sono altri.
Tra i falsi minori, che (per fortuna) non hanno avuto nessun impatto socio-politico, ci sono anche i falsi Diari di Hitler, alla cui vicenda è dedicato questo post.
Il testo, scritto da Stefano Dalla Casa, è tratto dal sito Wired (LINK).
LUMEN


<< L'autore dei [falsi] Diari si chiamava Konrad Kujau, ma non aveva mai cercato di propinare i suoi falsi a un giornale prima dell'arrivo di Gerd Heidemann, reporter della rivista tedesca Stern. Come spiegato da 'Museum oh Hoaxes', Heidemann era collezionista di memorabilia del III Reich, al punto che negli anni '70 si era comprato anche Carin II, barca di Hermann Göring. (...)

Negli anni '80 i debiti costrinsero Heidemann a disfarsi dell'imbarcazione, e per farlo si rivolse alle sue conoscenze. In questo modo venne a sapere da un ex SS, Jakob Tiefenthaeler, che esisteva un facoltoso collezionista in possesso di un oggetto straordinario: un diario del 1935 appartenuto ad Adolf Hitler.

Il nome del collezionista era Fritz Stiefel e gli raccontò che era stato recuperato da i resti di un aereo precipitato nel 1945 vicino a Dresda. L'aereo faceva parte dell'Operazione Serraglio, che doveva evacuare dal bunker di Hitler personale e documenti che non dovevano cadere nelle mani del nemico. Il giornalista fiutò lo scoop, e cercò subito di mettersi in contatto con chi gli aveva venduto il diario, che secondo Steifel possedeva altri 26 diari.

A Stern, la rivista di Heidemann, gli editor inizialmente non erano interessati alla storia che lo aveva tanto entusiasmato, gli dissero esplicitamente di lasciar perdere le sue "pazze storie di nazisti". Ma il giornalista riuscì a guadagnarsi l'appoggio di Thomas Walde, responsabile della sezione storia.

Assieme a lui scavalcò i giornalisti e incontrò direttamente Manfred Fischer della Bertelsmann, proprietaria di 'Gruner+Jahr', editore di Stern. Il manager fu subito convinto del progetto e nel 1981 consegnò 200 mila marchi in contanti per trattare con lo sconosciuto proprietario dei diari, che fino a quel momento aveva rifiutato di entrare in contatto con Heidemann.

Per farlo uscire allo scoperto, a questo punto Heidemann e Walde presero l'iniziativa e tramite l'ex SS fecero sapere al proprietario che erano disposti a comprare per 2 milioni di marchi. Finalmente arrivò il numero di telefono di un misterioso signor Fischer di Stoccarda e cominciarono le trattative.

Il falsario Konrad Kujau a quel punto doveva prendere tempo: aveva creato solo un diario, a metà degli anni '70, e serviva un po' di tempo per produrre quanto reclamato dal giornale. Raccontò che i diari dovevano essere trafugati un po' per volta da suo fratello generale nella Germania dell'Est, che ovviamente rischiava la morte. In questo modo il furbo Kujau ebbe anche modo di alzare la posta. I diari ritrovati non erano più 27, ma più di 60. E il loro costo saliva. Nel 1983 l'impresa era compiuta.

Una volta acquisiti i diari, anche gli scettici editor di Stern ne subirono il fascino. A quel punto erano già stati spesi più di 9 milioni di marchi (equivalenti a circa 7 milioni di euro attuali), i diari dovevano essere autentici. Erano anche stati eseguiti alcuni test basati sulla calligrafia che lo confermavano.

Il problema è che gli esperti avevano confrontato la scrittura dei falsi diari con altri documenti dello stesso falsario, considerati a priori autentici. Inoltre Stern non aveva fatto analizzare diari nella sua interezza, ma solo dei campioni.

La rivista si sentiva comunque pronta a lanciare la bomba, ma non prima di essersi assicurata degli accordi per la loro pubblicazione da parte di altre testate. Si fecero avanti più importanti riviste internazionali, tra cui Newsweek e Sunday Times, rivista della famiglia Times che 15 anni prima per poco non aveva scialacquato una fortuna in diari falsi di Mussolini.

Le riviste vollero sentire il giudizio dei loro esperti. Sia Hugh Trevor-Roper del Sunday Times, storico esperto di nazismo noto anche col titolo Lord Dacre, che lo storico Gerhard Weinberg furono inizialmente persuasi dell'autenticità. Stern, però, aveva mentito loro su un particolare fondamentale per la loro formazione, cioè aveva assicurato di conoscere l'identità della fonte del materiale, e aveva inoltre garantito che erano stati eseguiti approfonditi test forensi.

Sunday Times, all'epoca di proprietà di Rupert Murdoch, alla fine raggiunse un accordo mentre Newsweek decise di coprire la storia basandosi sulle altre pubblicazioni. Il 22 aprile 1983 Stern anticipò l'uscita di un numero speciale, mentre sul Times usciva un pezzo dove il famoso Lord Dacre si dichiarava convinto dell'autenticità del ritrovamento.

Mentre la stampa internazionale si scatenava sulla notizia e Stern e Sunday Times continuavano a preparare il terreno per la pubblicazione dei diari, Trevor-Roper aveva interrogato Heidemann e capì che Stern aveva mentito sull'identificazione certa della fonte.

Veniva a mancare uno dei pilastri su cui si era basato per convincersi dell'autenticità dei diari. Lo storico non nascose i suoi dubbi, e alla conferenza stampa del 25 aprile 1983, in coincidenza con l'inizio della pubblicazione sulle riviste, li condivise col mondo intero.

Come mai allora il Sunday Times, faro del giornalismo investigativo che Lord Dacre dirigeva insieme al Times, solo il giorno prima aveva di nuovo parlato dei diari senza questi dubbi? Perché quando l'editore Rupert Murdoch fu informato della nuova convinzione dello storico dall'editor, che gli chiedeva cosa doveva fare, Murdoch rispose: "Fanculo Dacre. Pubblica"

Dopo la conferenza non era però più possibile scappare dalla realtà. Bisognava far analizzare i diari, questa volta seriamente. Tre diari furono prelevati dalla cassaforte in Svizzera, dove erano custoditi, e distribuiti agli esperti degli Archivi federali tedeschi. Fu subito chiaro che si trattava di falsi, sia perché i materiali erano troppo moderni, sia per via di altri particolari, come evidenti plagi da fonti già pubblicate.

All'inizio Stern, sotto il fuoco incrociato delle testate di tutto il mondo, tentò disperatamente di negare l'evidenza. (...) Ma alla fine la realtà venne accettata per quella che era: tutti i diari erano falsi, plateali. >>

STEFANO DALLA CASA