Prosegue il post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (terza parte di quattro - LINK).
LUMEN
(segue) << Da queste ultime contraddizioni occorre muovere i passi per dipanare il mistero moderno della scuola universale. La spiegazione più semplice è di tipo economico. Le rivoluzioni industriali hanno reso necessaria la formazione di un numero crescente di addetti alla «megamacchina» del processo produttivo: tecnici della chimica, della meccanica, dell'elettronica, dell'edilizia, del diritto, dell'amministrazione, dell'economia, del commercio, della medicina, della psicologia, delle lingue straniere ecc.
Il mastodontico sforzo didattico avviato in quegli anni non è dunque indirizzato a produrre l'elevazione intellettuale e civile che i più filantropi ascrivono alla scuola, per quanto il permanere di (sempre più labili) residui umanistici ereditati dal passato abbiano talora alimentato questa ambizione.
Ma la spiegazione non basta. L'asservimento della scuola per tutti allo sviluppo produttivo non è infatti che un capitolo, né il primo né l'ultimo, di un asservimento più vasto. Si è anzi visto che l'attuale ipertrofia scolastica non è granché funzionale al bene economico della nazione e integra un aspetto della burocratizzazione, della cattiva occupazione, del declino industriale e della crescente dipendenza dalle produzioni e dalla manodopera importate dall'estero.
Eppure si insiste a predicare «più scuola». Perché? Evidentemente agisce un movente ideologico. Come molte agiografie moderne, anche quella scolastica glorifica l'oggetto senza curarsi dei suoi attributi.
Esiste solo «la scuola» e non le scuole, e se casomai queste ultime non corrispondono all'idea platonica di un luogo in cui le masse si elevano e si emancipano, allora non si tratta di «vera scuola». L'onestà vorrebbe invece che si considerassero i fenomeni e non i pensieri sognati, per quanto nobili.
Siccome l'insegnamento esiste da millenni in forme sempre diverse, anche la scuola moderna non è la stessa di cento o di vent'anni fa e la si può dunque solo identificare col suo metodo, cioè appunto col fatto di essere obbligatoria per tutti fino a una certa età e desiderabile per tutti a seguire.
Nella sua essenza è dunque un'infrastruttura, un vaccinatore di idee. L'attuale modello scolastico si è istituzionalizzato con le ferrovie e si è consolidato con le autostrade, l'elettrificazione e gli acquedotti: è un'opera di cablaggio ideale che al pari della stampa e della televisione fa da controcanto all'innervazione materiale dello Stato centralistico contemporaneo.
È perciò ozioso discettare di contenuti e programmi, i quali non possono che riflettere di tempo in tempo l'agenda e i bisogni del padrone dell'infrastruttura, sia esso lo Stato o chi comanda per suo tramite. Pretendere che l'infusore scolastico accolga temi o visioni invise a chi lo governa sarebbe come chiedere a un imprenditore di produrre per la concorrenza!
All'inizio e specialmente nei Paesi giovani come il nostro, le scuole servivano a diffondere la conoscenza della lingua nazionale. Un ruolo che si può dire ancora attuale se si allarga l'accezione della grammatica anche ai giudizi, ai miti buoni e cattivi, a eventi e personaggi storici «imprescindibili», alle competenze «di base», ai comportamenti «virtuosi», alle battaglie «giuste».
Nelle aule si imprime fin dall'infanzia una lingua comune di riferimenti che tutti devono padroneggiare. Sono insieme il depositum della tradizione civile e la terra fertile in cui gettare i semi delle idee nuove destinate a farsi identità e coscienza: anche e soprattutto le più estreme, quelle che più difficilmente metterebbero radici nella popolazione adulta.
Lì si struttura il campo cognitivo del citoyen che prende a cuore certi temi e ne tralascia altri, sottintende ciò che non si deve discutere, adotta determinati criteri di verità e non altri, si attiva pavlovianamente all'udire certi nomi, certe vicende storiche, certe astrazioni auto-esplicative, nel bene o nel male.
Lì si traccia il disegno neurale e si innestano i radicali a cui si legherà il discorso pubblico, che altrimenti scivolerebbe in superficie perché poco comprensibile e alieno. Per leggere un articolo di giornale bisogna certo conoscere l'alfabeto, ma per esserne influenzati occorre che si abbia già in sé un bagaglio di 'topoi' condiviso con l'autore.
Solo così si possono conquistare i lettori con poche righe o anche con un solo slogan, a volte con una sola parola! Si resta perciò esterrefatti all'udire che la scuola offrirebbe un antidoto alla manipolazione, essendone al contrario il fondamento, la propedeutica, il requisito.
Un collaterale di questa operazione è la mediocrità. Giacché l'omologazione degli intelletti non è né un rischio né un difetto, ma il primum movens dell'universalismo scolastico, i contenuti e i ritmi dell'insegnamento debbono assestarsi su un livello accessibile a tutti: cioè minimo.
Il proposito astrattamente nobile di non lasciare indietro alcuno si traduce nel bisogno di tirare indietro qualcuno, cioè i pochi davvero vocati allo studio. Un prezzo accettabile se la priorità è appunto quella di comprimere tutti nello stesso stampo di cittadinanza (si è anche arrivati a vedervi una qualche forma di solidarietà e di addestramento sociale), drammatico se si vuole coltivare il massimo di ciascuno per il bene di tutti.
Per quanto ci si sforzi al contrario, dove vige una siffatta istruzione non può esserci educazione: non si possono ex ducere le predisposizioni irripetibili e insieme imporre ripetitivamente un ordine (instruere) predisposto nel cosa e nel come. Si chiarisce forse così una correlazione paradossale dell'ultimo secolo, durante il quale al crescere degli istruiti e del grado di istruzione si è accompagnato un deterioramento continuo delle produzioni culturali.
È difficile non distinguere il marchio del nozionificio erga omnes nell'impoverimento delle arti, nella musealizzazione della ricerca filosofica, nello stato penoso degli «intellettuali» prevedibili e disciplinati che rimasticano da decenni le stesse cantilene.
Quanto scritto vale per la scuola dell'obbligo e per i successivi corsi superiori, sennonché nei secondi lo stereotipo didattico deve adattarsi ai percorsi vocazionali senza soffocarli del tutto e mantenere un equilibrio non sempre facile tra efficacia professionale e requisiti di adesione ideale (...).
La dilagante istruzione accademica ha specialmente alimentato il fenomeno inedito della semicultura, ancora poco e male analizzato ma di massima centralità per il buon funzionamento della macchina propagandistica. Il semicolto è un individuo che frequenta o ha frequentato un corso di studi universitari (uno qualsiasi) e in ragione di ciò si presume titolare di una capacità superiore di comprendere la realtà (tutta) e di distinguervi il vero dal falso.
Questa curiosa credenza è con tutta probabilità figlia di un'appropriazione semantica, si indovina in essa l'eco del prestigio intellettuale di cui godevano gli eruditi delle accademie antiche, sennonché in queste ultime si esercitavano effettivamente le arti retoriche, filosofiche, teologiche ecc. utili per bene interpretare fatti e proposizioni, mentre gli atenei moderni sono scuole di specializzazione in cui si impartiscono le basi di una professione. (...)
In questo equivoco tollerato e invero incoraggiato dalla società il semicolto sguazza e troneggia tra gli indottrinati.
Egli è, tra tutti, la preda più facile da condizionare. In generale perché la sua presunzione di sapere lo mette al riparo dal dubbio collocandolo socraticamente ai vertici dell’ignoranza e della creduloneria; in senso tecnico perché, avendo egli confuso il linguaggio della conoscenza con la conoscenza stessa, gli si può vendere qualsiasi «verità» agghindandola coi ninnoli dell’accademia: numeri, calcoli, tavole, istogrammi, reminiscenze da manuale, cognomi venerabili, acronimi anglotecnici, riviste reputate ecc.
Siffatte presentazioni strizzano l’occhio al semicolto e lo chiamano in causa offrendogli la gloria di tradurre il messaggio agli illetterati. Che stia casomai traducendo un falso è un problema che non può sfiorarlo, giacché l’unica prova ontologica che gli sta a cuore è quella del proprio creduto primato culturale: certificato dall’istituzione con un pezzo di carta e una corona d’alloro, destinato a riconfermarsi nella rincorsa del verbo istituzionale, non avendo altre basi. (…) >> (continua)
IL PEDANTE