mercoledì 4 giugno 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 4

Si conclude qui il lungo post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (quarta e ultima parte - LINK).
LUMEN


(segue) << È difficile immaginare oggi un mondo senza la scuola per tutti. Per quanto di recentissima introduzione, essa ha già plasmato in profondità l’immaginario, l’identità e i rapporti produttivi e sociali.

L’istruzione seriale riflette e prepara la serialità dell’industria, dei regolamenti, dei valori e dei gusti in scala nazionale e globale. Se è dunque poco serio esercitarsi in scenari (contro)riformistici, si possono però almeno nominare i problemi di questo esperimento sociale e tentarne un bilancio. Non per contestarne gli scopi desiderati, ma i risultati.

È indubbio che l’eccezione umana della civiltà poggi sulle conoscenze acquisite e che queste debbano trasmettersi per potersi conservare e sviluppare oltre l’orizzonte mortale. Ed è perciò vitale che il processo di trasmissione dei saperi sia efficace, diffuso e mirato a realizzare le vocazioni di ciascuno nell’interesse proprio e della collettività.

La questione è se l’attuale sistema scolastico soddisfi al massimo questi requisiti o se non sia piuttosto un compromesso viziato da meno confessabili istanze. In un dibattito possibile ci chiederemmo, in quanto AL MODO, se davvero gettare indiscriminatamente tutti per almeno un decennio nello stesso carro bestiame formativo sia il modo migliore di sviluppare le forze e le vocazioni di cui la società ha bisogno.

Fino a meno di due secoli fa l’istruzione collettiva era un’eccezione, non la norma. La si praticava ad esempio nei monasteri a beneficio dei fanciulli avviati alla carriera religiosa o di quelli intellettualmente dotati ma privi di mezzi, negli studia e nelle università.

La relazione formativa di eccellenza era piuttosto quella tra maestro (didàskalos) e discepolo (mathetés) che permetteva da un lato di adattare i ritmi e la direzione dell’insegnamento all’allievo, dall’altro di trasmettere anche la personalità del docente, esempio di un ethos del sapere che è parte viva del retaggio culturale.

Quasi tutti i grandi nomi che occupano i programmi scolastici, da Dante a Leopardi, da Aristotele a Pascal, si formarono in questo modo senza mai mettere piede nei corrispettivi delle nostre scuole.

Le professioni non strettamente intellettuali si insegnavano invece sul campo con gli apprendistati: espedienti di sfruttamento lavorativo per l’ottusa visione monoscolastica attuale, percorsi formativi anche culturalmente ricchi (e pagati) per i nostri antenati. Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci e il Borromini, per citarne tre tra i moltissimi, coltivarono il loro genio partendo dalle botteghe senza mai fare un solo giorno di scuola (il terzo a nove anni era già in cantiere), mentre a noi non basterebbero mille anni sui banchi per eguagliare un’unghia di ciò che hanno realizzato.

Il Filarete diventò ingegnere fondendo il bronzo nel laboratorio del Ghiberti; il Brunelleschi lavorando alle dipendenze di un orafo; Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Armand-Louis Couperin e molti altri composero musica divina studiando coi rispettivi padri; gli Amati, Antonio Stradivari e Guarnieri del Gesù impararono in falegnameria ciò che i migliori scienziati di oggi faticano a decifrare.

Questi e altri esempi, dai più clamorosi ai più ordinari, testimoniano l’esistenza di sistemi non scolastici di trasmissione e di accrescimento di saperi anche complessi e raffinati, in certi casi eccelsi. Insomma, a inclinazioni diverse corrispondevano in passato percorsi diversi, uno dei quali era appunto la scuola come la conosciamo oggi: utile per certe carriere ma non per altre, adatta a certe persone ma non ad altre.

L’avere rinunciato a integrare queste lezioni nella pedagogia moderna, con i risultati e i problemi descritti, invita a domandarsi, in quanto ALLO SCOPO, quanto l’odierna standardizzazione delle strategie formative risponda anche a un bisogno politico di formare, riformare e consolidare la polis con-formando i suoi membri.

Gli obblighi scolastici e l’ordinamento oggi in vigore nascono in seno alla Rivoluzione francese col dichiarato scopo di far sì che i giovani «traités tous également, nourris également, vêtus également, enseignés également» formassero quasi eugeneticamente «une race renouvelée… séparée du contact impur des préjugés de notre espèce vieillie».

L’istruzione obbligatoria primaria doveva precisamente imprimere lo stampo dello Stato («un moule républicain»): solo infatti «dans l'institution [scolaire] publique... la totalité de l'existence de l'enfant nous appartient; la matière... ne sort jamais du moule; aucun objet extérieur ne vient déformer la modification que vous lui donnez» (L. M. Le Peletier (...)).

Per quanto mai più espressa così brutalmente, l’impostazione giacobina è sopravvi ssuta nei fatti perché forse inscindibile dalla forma-scuola in cui ha preso corpo. Oggi, è vero, vige la democrazia (come nella Francia del 1793...) e cambiano forse i contenuti non codificati della «morale républicaine», ma non il rischio di essere «dénoncé par la surveillance, et puni selon la gravité du délit» per il docente che se ne allontana (...). Sicché chi sogna una scuola «diversa» chiede nel migliore dei casi una cosa impraticabile, nel peggiore di imporre con gli stessi mezzi la propria dottrina.

Ma la fortuna di questo sistema non si spiegherebbe se non considerassimo anche, in quanto AL SENSO, la mitografia popolare che si è costruita attorno alla scuola per tutti e in particolare la convinzione che essa sia la via regia dell’emancipazione dei deboli.

Senza ripetere qui le fallacie concettuali e fattuali di una simile credenza, il suo peccato originale si riassume nell’avere accettato l’idea terribilmente classista che l’istruzione sia un privilegio e dunque nella conclusione, impossibile per logica e definizione, che con la sua universalità il privilegio si sarebbe esteso a chiunque.

Risultato: nel reclamare l’orpello di ricchi e potenti invece di metterne in discussione il simbolo e fondare la dignità e la gratificazione delle persone su cose più serie, le masse si sono lasciate sagomare e stipare fin dall’infanzia nelle mangiatoie ideali del Robespierre di turno e, per buona misura, hanno anche preteso di farcisi rinchiudere a doppia mandata.

Nell’inseguire l’idolo di una cultura abborracciata si sono fatte soggetti e complici di una massificazione culturale che vomita conformismo e luoghi comuni. Nel confondere le nozioni ready-made con la fatica del conoscere si sono lasciate intortare ogni giorno dalle cattedre dei notiziari. E nell’insistere che tutti dovessero riscattarsi con gli studi hanno gettato alle ortiche patrimoni plurisecolari di abilità maturati nelle famiglie e nei territori.

La promessa del «salto di classe» con cui la scuola ha sedotto le generazioni si fonda precisamente sull'etica liberale dell’individuo-monade che non deve essere immeritatamente «premiato» o «punito» dal suo retaggio, quando in realtà sarebbe del tutto funzionale che i saperi si conservassero, si comunicassero e si accrescessero innanzitutto nella viva quotidianità della casa paterna e dell'ambiente, quando è possibile.

In quanto poi all’emancipazione, c’è davvero da interrogarsi sull’indipendenza dei milioni che hanno studiato mezza vita per compilare fogli di Excel, applicare procedure e partecipare a riunioni, che non sanno più produrre alcunché e campano (sempre peggio) appesi ai baracconi delle burocrazie pubbliche e private, alla mercé di chi può staccarne la spina. >>

IL PEDANTE

2 commenti:

  1. Ho letto dunque tutto il romanzo del Pedante. Mi sembra tutto vero o verosimile ciò che dice - e quindi? Mi piacerebbe sentire qualche proposta. Come uscire dall'impasse? Non sarà semplice, forse impossibile. Lo Stato ha bisogno di funzionari fedelissimi e di un popolo di pecore, obbedienti e conformiste. Anch'io sono molto probabilmente una di queste pecore, con qualche velleità di voler lo stesso ... primeggiare (secondo la teoria di Lumen).

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    1. Caro Sergio,
      uscire dall'impasse mi sembra molto difficile, per vari motivi, non necessariamente legati alle esigenze di 'controllo culturale' delle elites.

      Anche perchè ormai, a mio modesto avviso, l'insegnamento ai ragazzi non è più lo scopo principale della scuola pubblica, ma uno di quelli secondari.
      Tra gli scopi principali ci sono:
      - i posti di lavoro connessi alla scuola (insegnanti, amministratori, personale di supporto);
      - le esigenze delle famiglie che chiedono un posto dove parcheggiare i ragazzi durante il giorno ed, alla fine del percorso, il tanto agognato 'pezzo di carta';
      - le esigenze sociali dei vari governi, che usano la scuola per cavalcare i miti buonisti del momento (che tutti conosciamo).
      Se, dopo tutto questo, i ragazzi imparano anche qualcosa di utile e, soprattutto, imparano ad amare la conoscenza, questo è solo un di più.
      Un 'di più' che, in genere, è legato al lavoro quotidiano e personale dei singoli docenti più appassionati (e di talento).

      Queste, ovviamente, sono le elucubrazioni di un NON addetto ai lavori.
      Spero pertanto che gli altri lettori del blog vogliano intervenire per darci la loro opinione.

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