sabato 21 giugno 2025

Uomini e Donne – (5)

Le uccisioni di donne da parte di partner respinti (chiamate oggi femminicidi) sono aumentate e compaiono ormai nella nostra cronaca nera con tragica frequenza .
Ho deciso pertanto di dedicare un post a questo argomento, con due interessanti considerazioni di Marcello Veneziani (LINK) e di Uriel Fanelli (LINK), tratte dai loro siti personali. A seguire una breve riflessione del sottoscritto.
LUMEN


FEMMINICIDIO E NARCISISMO

 << [Considero una] deformazione della realtà l’uso becero dei cosiddetti femminicidi per armare il femminismo contro i maschi assassini potenziali e incitare alla lotta per l’autorealizzazione.
Dopo ogni femminicidio c’è questa chiamata alle armi per combattere il maschio violento e mobilitarsi in una specie di lotta di genere, succedaneo della lotta di classe. Il presupposto falso e fuorviante di questo esercito della salvezza è che si fronteggi con un esercito di maschi potenziali femminicidi, che sarebbe lì di fronte a loro e vorrebbe opprimere e anche sopprimere la donna insubordinata.
E invece non c’è nessun esercito maschile contro cui combattere; il novantanove per cento dei maschi non usa violenza verso le donne, semmai è intimidito, in fuga o si arrocca sulla difensiva.
I femminicidi sono aberrazioni di singoli che hanno perso la testa; non sono vittime di uno scontro sociale di genere.
Non c’è nessun esercito nemico da battere ma ci sono solo individui solitari che uccidono per incapacità di vivere, dipendenza assoluta dalla loro partner e fragilità distruttiva e autodistruttiva.
Sono uomini-narciso, che vivono specchiandosi nell’altro e quando lo specchio si rompe (porta male) le schegge diventano coltelli per uccidere chi ha infranto la loro immagine proiettata nella vita di lei.
Alla fine siamo tra due deserti di solitudine: quella di chi ritiene di dover alzare i ponti col resto del mondo perché ama troppo se stessa e quella di chi escluso dalla prima si vendica e uccide l’oggetto proibito del suo ego che chiama amore.
Narciso contro Narciso, solitudine contro solitudine mentre le tifoserie inveiscono e incitano alla lotta. Ma il vero nemico è l’egolatria di massa. Viva Io, a morte l’Io altrui. Così muore una società, non solo un individuo. >>

MARCELLO VENEZIANI



FEMMINICIDIO E CONSENSO

<< Una studentessa [è stata] sgozzata da un ossessivo che la perseguitava, dopo averne respinto le attenzioni. Il copione, purtroppo noto, del femminicidio.
E, come prevedibile, irrompono le solite pasionarie a pontificare sulla necessità di “insegnare ai maschi a gestire un rifiuto”, come se la radice del male risiedesse unicamente in quel “no” pronunciato dalla vittima. (…)
A un uomo capace di sgozzarti, del tuo consenso non importa assolutamente nulla. Non l'ha ascoltato ieri, non lo ascolterebbe oggi, non lo considererà mai. Non lo vede nemmeno. (...)
Quante donne vengono uccise dopo anni di sottomissione, dopo aver acconsentito a ogni umiliazione, a ogni violenza, a ogni degradazione?
Donne che non hanno mai opposto un rifiuto, ma che – al culmine di un delirio paranoide (“lei mi tradisce con un alieno”) – vengono ugualmente strangolate, accoltellate, annientate.
Cosa dimostra tutto ciò? Che continuare a cercare la causa scatenante nel rifiuto femminile è un tragico abbaglio. I casi più aberranti di violenza domestica sfociata in omicidio raramente esplodono per un “no”.
Esplodono per un cortocircuito ossessivo nella psiche dell'aggressore – un dettaglio che, guarda caso, nessuna campagna sul “consenso” potrà mai risolvere. (…)
Non provate a negare l'evidenza statistica. Il “no” della vittima è irrilevante nell'equazione mortale.
Quando un ossessionato sceglie la sua preda, il dado è già tratto: quel corpo è solo un conto alla rovescia ambulante. Il consenso o il rifiuto possono forse modulare i tempi (accelerandoli o rallentandoli), ma non altereranno mai l'esito finale: una tomba.
Perché la verità è questa: non è questione di “sì” o “no”. È questione di un cervello malato che ha deciso di uccidere. Continuare a insistere sul feticcio del consenso non solo è inutile – è perfino grottesco. >>

URIEL FANELLI



FEMMINICIDIO E PATRIARCATO
L'aumento preoccupante dei femminicidi per futili motivi viene spesso considerato una conseguenza del vecchio patriarcato, che, secondo questa tesi, pur essendo ormai in declino, non rinuncerebbe ai suoi colpi di coda.
Secondo me, invece, le cose stanno in maniera opposta: il patriarcato, almeno in occidente, è già finito e l'aumento dei femminicidi per futili motivi è una conseguenza della sua fine.
Il motivo, come quasi sempre nel rapporto tra i sessi, è di ordine psicologico.
Nel patriarcato l'uomo si sentiva superiore alla donna, che considerava un 'bene' di sua proprietà: pertanto la poteva maltrattare liberamente, ma non la uccideva (se non per motivi del tutto eccezionali), perchè ne avrebbe subito un danno materiale.
Nel caso del femminicidio moderno, invece, l'uomo si sente inferiore alla donna, sulla quale non ha più nessun controllo sociale; per cui, quando il rapporto va in crisi, non riesce a vedere altro modo per riaffermare se stesso che l'uccisione della donna.
Non so se il problema dei femminicidi moderni sia risolvibile (forse non lo è); ma se si continua ad indicare la causa sbagliata, non si potrà arrivare da nessuna parte.
LUMEN

domenica 15 giugno 2025

Armiamoci e Partite

Per fare la guerra ci vogliono i giovani; ma se i giovani sono contrari alla guerra, come si fa ?
Il post di oggi, scritto da Filippo Dellepiane e tratto dal sito di Sollevazione (LINK), cerca di fare il punto proprio su questo argomento: cioè sullo 'spirito guerresco' presente oggi, in occidente, tra i giovani.
E le conclusioni sono, a seconda dei punti di vista, deprimenti oppure incoraggianti.
LUMEN


<< La manifestazione dello scorso 15 marzo a Piazza del Popolo, quella degli europeisti, si è contraddistinta per una mancanza generale dei giovani. (...) È il fallimento probabilmente più grande del sistema politico di questo paese e non solo.

Nel maggio radioso del 1915, le piazze italiane degli interventisti erano soprattutto state riempite da giovani provenienti dalla piccola borghesia, ispirati da un urticante sentimento nazionalistico appositamente pompato dalla propaganda guerrafondaia di allora. Oggi la piazza degli europeisti no pax è l’esatto contrario di allora e rappresenta benissimo perché il nostro sistema sociale, economico e politico è nelle condizioni in cui si trova.

A tacitare qualsiasi dubbio, anzitutto, potrebbe già correrci in aiuto il sondaggio di Pagnoncelli sulla guerra in Ucraina: solo il 36% degli Italiani sostiene l’Ucraina e solo il 28% è a favore del piano di riarmo. (…) Nella primavera-estate del 2022, i sondaggi avevano già rilevato (in tempi non sospetti) la contrarietà di grande parte della popolazione italiana all’invio di rifornimenti militare a Zelensky. Per pura magia, i sondaggi si erano poi fermati e non erano stati più pubblicati o si erano, comunque, molto rarefatti. Misteri della fede.

Ma, dicevo, la questione della mancanza dei giovani ha scosso più di una coscienza “critica”, soprattutto nei settori della sinistra filo-ucraina. Seriamente, mi chiedo io? (…) Ma perché mai un giovane dovrebbe sentirsi parte di un qualcosa? Perché dovrebbe difendere con le unghie e coi denti questo sistema che nulla gli garantisce? Lo può, tutt’al più, sopportare, ma mai supportare entusiasticamente.

Con la caduta del muro, la fine delle grandi narrazioni, solo una se ne è imposta: l’idea del profitto e della realizzazione personale (a scapito degli altri). Il successo del paradigma tatcheriano del TINA (there is no alternative), della liquidità di genere e, nel frattempo, l’atrofizzazione delle capacità critiche di larga parte delle nuove generazioni hanno fatto il resto.

Siamo giunti, così, all’acme dell’individualismo liberale, della totale atomizzazione monistica. È questa la tragedia del neoliberismo: esso dissolve ogni idea di Stato e di comunità, il sacrificio è solo contemplato da un punto di vista economico ed è sempre riconducibile al benessere personale, dell’individuo.

Nessun sacrificio, perciò, per grandi cause (né per quelle rivoluzionarie, né per quelle del regime!), nessuno vuole fare più figli, nessuno è disposto, seguendo ciò che dice [Antonio] Scurati, a fare il guerriero. Vale sempre e soltanto la logica economica; d’altronde non è un caso che la Nato volesse piegare la Russia, anzitutto, con le sanzioni.

Ed ora, dopo un martellamento mediatico durato anni, a suon di “80 anni di pace in Europa grazie all’Ue e la Nato” vorreste tirare su una generazione guerrafondaia e combattiva? Una generazione che è incapace, perché ne è stata privata nei mezzi e nella tempra, di rivendicare i suoi diritti?

Non basterà, statene certi, il refrain occidentlistico da due soldi di Vecchioni, il quale ci invita a pensare alle tante eccellenze europee nel campo del pensiero. Peccato si dimentichi che la tragedia mondiale per ben due volte nello scorso secolo è partita proprio da qui, dall’Europa, e che la cultura araba o cinese, giusto per citarne due, sono altrettanto ricche e antiche. (...)

Pensate ora di poter rispolverare i vecchi temi della patria, del nazionalismo (di marca europea), dopo averli delegittimati per anni, declassandoli a immaginazioni reazionarie, fuori dal tempo?

Dopo aver inneggiato alla libertà dei confini, ad un mondo di fiori e senza la guerra (sempre e solo rigorosamente nel giardino europeo, lontano dagli occhi, lontano dal cuore), ora vorreste convincere una generazione di giovani, cresciuta in un mondo di vecchi e che si percepisce vecchio, a fare la guerra? Dopo averla sospesa, vorreste reintrodurre la leva militare?

Vorreste che, dopo esservi disinteressati totalmente di ciò che i giovani pensano, non curandovi se vi dessero o meno la loro approvazione, vi applaudissero e corressero alle armi per mostrare il loro valore (semicit.)? Piangete sul latte versato, quando siete stati voi stessi a volere tutto questo e a foraggiarlo. Chi è causa del suo mal compianga se stesso, insomma.

C’è un prezzo da pagare ora. I giovani europei ed americani vedono ormai la guerra come qualcosa solo da libri di storia, di medievale. Oltretutto, con gli eserciti professionali, si è imposta anche l’idea che fare la guerra sia un lavoro e non certo un dovere del cittadino. (…)

I tedeschi lo stanno imparando molto bene, per esempio. In un recente articolo del Financial Times si segnala come un quarto dei 18.810 uomini e donne arruolati nel 2023 hanno lasciato le forze armate entro sei mesi.

Si parla, poi, di un libro pubblicato questa settimana, Why I Would Never Fight for My Country, in cui un ventisettenne sostiene che la gente comune non dovrebbe essere mandata in battaglia per conto degli stati nazionali e dei loro governanti, nemmeno per respingere un’invasione. L’occupazione da parte di una potenza straniera potrebbe portare a una vita “di merda”, “ma preferirei essere occupato che morto”.

Sorprende? No, se si guarda al nostro paese si vedrà, per esempio, che solo il 36% dei giovani tra i 18 e i 34 anni è favorevole alla leva obbligatoria e che lo stato maggiore inizia a pensare ad un sistema per integrare dentro l’esercito proprio quei nuovi italiani che provengono dall’incivile, si fa per dire, mondo extra europeo pronti a combattere al posto nostro le guerre. (...)

Di fronte a tutto questo, la domanda da porsi è la seguente. Il piano di riarmo previsto (sotto il punto di vista di carri armati, aerei, navi ecc) è enorme. Si accompagnerà ad esso anche un piano di riarmo “mentale” e della “coscienza” dei cittadini europei? E soprattutto, funzionerà?

L’inattività e la passività dei cittadini (soprattutto giovani), in quel caso, passerebbe dall’essere un vantaggio ad un grandissimo svantaggio. Non avere giovani generazioni battagliere e ideologizzate rischia di essere un elemento decisivo, anche da un punto di vista demografico. (...)

In ogni caso, ora, risalire la china per lorsignori [delle elites] non sarà affatto semplice. >>

FILIPPO DELLEPIANE

lunedì 9 giugno 2025

Pensierini – LXXXVII

LEADER POLIGLOTTI
Quando due leader politici si incontrano a livello ufficiale, sono costretti, in genere, ad utilizzare degli interpreti, perchè parlano lingue diverse e ciascuno non conosce quella dell'altro.
Accade però, talvolta, che uno dei due conosca quella dell'altro (in genere l'inglese) senza che la cosa sia reciproca.
Qualcuno dice che, in questo caso, il leader poliglotta NON doverebbe usare la lingua dell'altro, perchè la sua decisione potrebbe essere interpretata come una inferiorità psicologica.
Io penso invece che le cose stiano esattamente al contrario: il leader in questione (se è grado di padroneggiare davvero la lingua altrui) si trova ad essere non inferiore, ma superiore all'altro, per il semplice motivo che lui conosce (bene) due lingue e l'altro solo una.
Inoltre, consente ai due leader di potersi parlare 'vis a vis', anche sulle questioni più importanti e delicate, senza la mediazione degli interpreti: un fatto di grande importanza che migliora il dialogo e non può non dare grande prestigio a chi lo rende possibile.
LUMEN


COMITATO D'AFFARI
Che la struttura istituzionale della UE non sia democratica è cosa ormai sotto gli occhi di tutti.
Vengono prese infatti decisioni che, secondo i sondaggi, sono spesso contrarie ai desideri ed alla volontà di una gran parte della popolazione.
Ma come definire il ruolo politico ed economico dei vertici UE ? Molti li chiamano 'comitati d'affari' ed il temine mi sembra azzeccato.
Ecco, per esempio, cosa dice Jacopo Simonetta a proposito delle recenti decisioni di politica industriale:
<< La riconversione ecologica non è mai stata neppure pensata. Quello che si pensava era di distribuire incentivi all’industria con il pretesto del clima. Ora si distribuiranno incentivi all’industria con il pretesto della difesa. >>
Ed i governanti nazionali, se vogliono conservare la poltrona, non possono fare altro che seguire la corrente.
LUMEN


PSICOLOGIA DELLA SETTA
Molte fasi storiche sono state accompagnate dall'attività di 'sette' di vario genere, spesso segrete o comunque occulte.
Secondo i dizionari, una Setta è << una associazione di persone che seguono fanaticamente una particolare dottrina filosofica, religiosa o politica >>
La sua natura profonda, però, non è né ideologica, né religiosa, ma solo psicologica.
Lo scopo di una setta, infatti, al di là del dichiarato intento socio-politico, è duplice: da un lato consentire ai suoi capi di esercitare un potere quasi assoluto; e dall'altro consentire ai suoi adepti di sentirsi superiori a tutti gli altri.
Ma i protagonisti, presi da ben altri pensieri, non se ne rendono neppure conto.
LUMEN


I SOGNI DELLA POLITICA
La politica, per sua natura, fa spesso leva sui sogni e sulle illusioni delle persone comuni e pertanto i suoi esponenti non si fanno scrupolo, per raggiungere il potere, di promettere l'impossibile.
Da un lato c'è il cinismo di chi ne approfitta, ma dall'altro c'è anche la credulità dei cittadini, che dovrebbero, forse, essere un po' più cauti e realistici.
Come ha detto Mattia Feltri, con una bellissima definizione: << La politica non è illudersi di cancellare quello che non ci piace, ma affrontare quello che c'è. >>
Ma come si fa ad accontentarsi della (grigia) realtà, quando è possibile sognare ?
LUMEN


ESSERI VIVENTI
Tutti noi pensiamo di saper distinguere, a livello istintivo, un essere inanimato da un essere vivente, ma le cose sono più complicate di quanto sembrano.
E' stata pertanto elaborata una definzione, a livello scientifico, secondo la quale è un essere vivente ogni entità che possiede queste 4 caratteristiche:
omeostasi (la stabilità interna delle proprie strutture chimico-fisiche), metabolismo (l'insieme delle trasformazioni chimiche necessarie per l'equilibrio), riproduzione (la generazione di altri individui della stessa specie) ed evoluzione (il mutamento progressivo dei caratteri ereditari).
A me però piacciono le definizioni semplici e concise e questa non lo è. Come fare ?
Ricordo di aver letto che gli esseri viventi sono le uniche strutture fisiche che riescono, al loro interno e per un breve periodo (quello della loro vita), a violare il secondo principio della termodinamica, che prevede l'aumento continuo dell'entropia nei sistemi chiusi.
Quindi si potrebbero definire semplicemente in questo modo: sono 'esseri viventi' tutte le strutture che riescono, localmente e temporaneamente, a sospendere l'aumento dell'entropia.
LUMEN

mercoledì 4 giugno 2025

A cosa serve (davvero) la Scuola - 4

Si conclude qui il lungo post del Pedante sul ruolo sociale della scuola e dell'istruzione (quarta e ultima parte - LINK).
LUMEN


(segue) << È difficile immaginare oggi un mondo senza la scuola per tutti. Per quanto di recentissima introduzione, essa ha già plasmato in profondità l’immaginario, l’identità e i rapporti produttivi e sociali.

L’istruzione seriale riflette e prepara la serialità dell’industria, dei regolamenti, dei valori e dei gusti in scala nazionale e globale. Se è dunque poco serio esercitarsi in scenari (contro)riformistici, si possono però almeno nominare i problemi di questo esperimento sociale e tentarne un bilancio. Non per contestarne gli scopi desiderati, ma i risultati.

È indubbio che l’eccezione umana della civiltà poggi sulle conoscenze acquisite e che queste debbano trasmettersi per potersi conservare e sviluppare oltre l’orizzonte mortale. Ed è perciò vitale che il processo di trasmissione dei saperi sia efficace, diffuso e mirato a realizzare le vocazioni di ciascuno nell’interesse proprio e della collettività.

La questione è se l’attuale sistema scolastico soddisfi al massimo questi requisiti o se non sia piuttosto un compromesso viziato da meno confessabili istanze. In un dibattito possibile ci chiederemmo, in quanto AL MODO, se davvero gettare indiscriminatamente tutti per almeno un decennio nello stesso carro bestiame formativo sia il modo migliore di sviluppare le forze e le vocazioni di cui la società ha bisogno.

Fino a meno di due secoli fa l’istruzione collettiva era un’eccezione, non la norma. La si praticava ad esempio nei monasteri a beneficio dei fanciulli avviati alla carriera religiosa o di quelli intellettualmente dotati ma privi di mezzi, negli studia e nelle università.

La relazione formativa di eccellenza era piuttosto quella tra maestro (didàskalos) e discepolo (mathetés) che permetteva da un lato di adattare i ritmi e la direzione dell’insegnamento all’allievo, dall’altro di trasmettere anche la personalità del docente, esempio di un ethos del sapere che è parte viva del retaggio culturale.

Quasi tutti i grandi nomi che occupano i programmi scolastici, da Dante a Leopardi, da Aristotele a Pascal, si formarono in questo modo senza mai mettere piede nei corrispettivi delle nostre scuole.

Le professioni non strettamente intellettuali si insegnavano invece sul campo con gli apprendistati: espedienti di sfruttamento lavorativo per l’ottusa visione monoscolastica attuale, percorsi formativi anche culturalmente ricchi (e pagati) per i nostri antenati. Michelangelo Buonarroti, Leonardo da Vinci e il Borromini, per citarne tre tra i moltissimi, coltivarono il loro genio partendo dalle botteghe senza mai fare un solo giorno di scuola (il terzo a nove anni era già in cantiere), mentre a noi non basterebbero mille anni sui banchi per eguagliare un’unghia di ciò che hanno realizzato.

Il Filarete diventò ingegnere fondendo il bronzo nel laboratorio del Ghiberti; il Brunelleschi lavorando alle dipendenze di un orafo; Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Armand-Louis Couperin e molti altri composero musica divina studiando coi rispettivi padri; gli Amati, Antonio Stradivari e Guarnieri del Gesù impararono in falegnameria ciò che i migliori scienziati di oggi faticano a decifrare.

Questi e altri esempi, dai più clamorosi ai più ordinari, testimoniano l’esistenza di sistemi non scolastici di trasmissione e di accrescimento di saperi anche complessi e raffinati, in certi casi eccelsi. Insomma, a inclinazioni diverse corrispondevano in passato percorsi diversi, uno dei quali era appunto la scuola come la conosciamo oggi: utile per certe carriere ma non per altre, adatta a certe persone ma non ad altre.

L’avere rinunciato a integrare queste lezioni nella pedagogia moderna, con i risultati e i problemi descritti, invita a domandarsi, in quanto ALLO SCOPO, quanto l’odierna standardizzazione delle strategie formative risponda anche a un bisogno politico di formare, riformare e consolidare la polis con-formando i suoi membri.

Gli obblighi scolastici e l’ordinamento oggi in vigore nascono in seno alla Rivoluzione francese col dichiarato scopo di far sì che i giovani «traités tous également, nourris également, vêtus également, enseignés également» formassero quasi eugeneticamente «une race renouvelée… séparée du contact impur des préjugés de notre espèce vieillie».

L’istruzione obbligatoria primaria doveva precisamente imprimere lo stampo dello Stato («un moule républicain»): solo infatti «dans l'institution [scolaire] publique... la totalité de l'existence de l'enfant nous appartient; la matière... ne sort jamais du moule; aucun objet extérieur ne vient déformer la modification que vous lui donnez» (L. M. Le Peletier (...)).

Per quanto mai più espressa così brutalmente, l’impostazione giacobina è sopravvi ssuta nei fatti perché forse inscindibile dalla forma-scuola in cui ha preso corpo. Oggi, è vero, vige la democrazia (come nella Francia del 1793...) e cambiano forse i contenuti non codificati della «morale républicaine», ma non il rischio di essere «dénoncé par la surveillance, et puni selon la gravité du délit» per il docente che se ne allontana (...). Sicché chi sogna una scuola «diversa» chiede nel migliore dei casi una cosa impraticabile, nel peggiore di imporre con gli stessi mezzi la propria dottrina.

Ma la fortuna di questo sistema non si spiegherebbe se non considerassimo anche, in quanto AL SENSO, la mitografia popolare che si è costruita attorno alla scuola per tutti e in particolare la convinzione che essa sia la via regia dell’emancipazione dei deboli.

Senza ripetere qui le fallacie concettuali e fattuali di una simile credenza, il suo peccato originale si riassume nell’avere accettato l’idea terribilmente classista che l’istruzione sia un privilegio e dunque nella conclusione, impossibile per logica e definizione, che con la sua universalità il privilegio si sarebbe esteso a chiunque.

Risultato: nel reclamare l’orpello di ricchi e potenti invece di metterne in discussione il simbolo e fondare la dignità e la gratificazione delle persone su cose più serie, le masse si sono lasciate sagomare e stipare fin dall’infanzia nelle mangiatoie ideali del Robespierre di turno e, per buona misura, hanno anche preteso di farcisi rinchiudere a doppia mandata.

Nell’inseguire l’idolo di una cultura abborracciata si sono fatte soggetti e complici di una massificazione culturale che vomita conformismo e luoghi comuni. Nel confondere le nozioni ready-made con la fatica del conoscere si sono lasciate intortare ogni giorno dalle cattedre dei notiziari. E nell’insistere che tutti dovessero riscattarsi con gli studi hanno gettato alle ortiche patrimoni plurisecolari di abilità maturati nelle famiglie e nei territori.

La promessa del «salto di classe» con cui la scuola ha sedotto le generazioni si fonda precisamente sull'etica liberale dell’individuo-monade che non deve essere immeritatamente «premiato» o «punito» dal suo retaggio, quando in realtà sarebbe del tutto funzionale che i saperi si conservassero, si comunicassero e si accrescessero innanzitutto nella viva quotidianità della casa paterna e dell'ambiente, quando è possibile.

In quanto poi all’emancipazione, c’è davvero da interrogarsi sull’indipendenza dei milioni che hanno studiato mezza vita per compilare fogli di Excel, applicare procedure e partecipare a riunioni, che non sanno più produrre alcunché e campano (sempre peggio) appesi ai baracconi delle burocrazie pubbliche e private, alla mercé di chi può staccarne la spina. >>

IL PEDANTE