venerdì 8 marzo 2019

Troppa empatia - 1

Si può affermare che le società umane diventano sempre più civili, man mano che si diffondono i principi dell’empatia, cioè di quell’approccio psicologico che ci spinge ad aiutare il prossimo anche in assenza di un imperativo genetico.
Ma di troppa empatia una società può anche morire, e ciò avviene quando l’empatia si trasforma in ‘buonismo’, un meccanismo mentale che – pur con le migliori intenzioni - impedisce una visione complessiva dei problemi e rende quindi più difficile elaborare soluzioni lungimiranti e realmente efficaci.
Agli eccessi dell’empatia è dedicata questo lungo articolo di Michele Silenzi (tratto da Il Foglio) che recensisce un libro di Paul Bloom. 
LUMEN

(prima parte)

<< "Il più grande deficit che abbiamo nella società e nel mondo in questo momento, è un deficit di empatia. Abbiamo un grande bisogno di persone che siano in grado di stare nei panni di qualcun altro e vedere il mondo attraverso i loro occhi”. Così parlò Barack Obama.

Dovunque ci si giri, qualsiasi cosa si legga sui giornali, nei libri o si ascolti ai telegiornali, qualsiasi rapporto umano tra due o più persone, in ogni cosa risuona questa parola: empatia. Sembra non essercene mai a sufficienza. Come Cerbero, anche l’empatia ogni volta che la si sfama, che la si soddisfa, sembra avere “più fame che pria”. Viviamo nell’èra dell’empatia, di continuo ci viene predicato di vedere il nostro volto in quello dell’altro, di identificarci con tutto il mondo e con tutte le persone del mondo, eppure non ne abbiamo mai abbastanza.

Un celebre psicologo di Yale, Paul Bloom, in un libro uscito di recente “Against Empathy: The case for rational compassion”, si è imbarcato nell’impresa di dimostrare come l’empatia sia una pessima guida morale e di come andrebbe arginata attraverso la ragione. Più cervello, meno cuore. E anche il cuore ne beneficerà. Bloom intende empatia nel suo concetto più ampio, ovvero la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di sentire quello che l’altro sente. E il punto essenziale, che l’autore mette in chiaro sin da subito, è che al massimo noi siamo in grado di riflettere i sentimenti degli altri, ma non di sentirli come nostri, “il soffrire empatico è diverso dal soffrire reale” generando conseguenze che, tra questi due aspetti, non sono neppure paragonabili.

Il libro riconosce all’empatia un aspetto positivo nella fruizione dell’arte e, talvolta, nei rapporti intimi. Il problema si pone, invece, quando l’empatia viene usata per capire e prendere decisioni attorno a casi più complessi, che sono poi i casi politici, sociali, economici. Bloom paragona l’empatia alle bibite gassate e dolciastre, allettanti e deliziose ma dannose. L’empatia genera spesso piacere grazie al coinvolgimento che ci fa sentire con gli altri, genera benessere perché ci fa sentire buoni e perché stimola la nostra interiorità, ma è tutt’altro che una valida guida morale. Ci porta spesso a emettere giudizi sciocchi e a fare scelte politiche irrazionali e ingiuste.

Uno degli argomenti solitamente più forti a sostegno dell’empatia è che ci renderebbe più gentili con le persone con cui empatizziamo. Bloom dice che a sostenere questa linea ci sono non solo l’esperienza quotidiana e il buon senso ma anche molte ricerche. Quindi, continua l’autore, “se il mondo fosse un posto semplice in cui gli unici dilemmi con cui ciascuno deve avere a che fare coinvolgessero soltanto una singola persona in immediata difficoltà, e nel caso in cui aiutare quella persona avesse effetti positivi, allora l’argomentazione in favore dell’empatia sarebbe solida. Ma il mondo non è un posto semplice. Spesso, molto spesso, l’azione motivata dall’empatia non è moralmente giusta”.

Bloom, infatti, paragona l’empatia a un riflettore da palcoscenico che riesce a illuminare con forza solo una piccola porzione della scena, facendoci credere che ciò che vediamo sia tutto ciò che c’è e lasciando il resto nell’ombra. Allo stesso modo l’empatia ci fa concentrare su ciò che più ci colpisce emotivamente, accecandoci e lasciandoci insensibili alle conseguenze di lungo termine delle nostre azioni, per quanto possano essere ben intenzionate nel breve. Per lo stesso motivo, l’empatia è partigiana, spingendoci nella direzione del campanilismo. Non ha il senso delle proporzioni, favorendo il caso specifico con cui appunto entriamo in empatia a discapito dei molti, “è insensibile alle conseguenze che si applicano statisticamente piuttosto che a quelle che riguardano specifici individui".

Per questi motivi, l’empatia risulta una guida morale e comportamentale non solo inutile, ma addirittura dannosa quando si tratta di fare scelte di ampio respiro che riguardino il mondo complesso in cui viviamo, in cui le scelte hanno conseguenze non intenzionali sempre più interrelate, ramificate e imprevedibili. La sfera della politica sociale, internazionale ed economica non dovrebbe quindi in nessun caso essere intaccata da questo tipo di sentimento.

Gli esempi che Bloom riporta a sostegno della sua tesi sono essenziali e difficili da mettere in discussione. Basta immaginare, facendo un caso che sembra sempre attuale, che un vaccino difettoso abbia causato a Rebecca Smith, una bambina di otto anni, di ammalarsi gravemente. Guardandola soffrire, osservando il dolore dei genitori, saremmo inondati di empatia e vorremo fare qualcosa per aiutarla. Ma supponiamo che, fermando quel programma di vaccini a causa di uno solo difettoso, una dozzina di bambini di cui non sappiamo e probabilmente non sapremo mai nulla morissero. Qui la nostra empatia resterebbe in silenzio, come potremmo empatizzare con un’astrazione statistica? E’ come se gli altri bambini non fossero nulla e Rebecca Smith il mondo intero, perché l’empatia detta legge.

Un altro esempio fatto da Bloom è quello della città di Coventry durante la Seconda guerra mondiale. Gli inglesi avevano scoperto come decodificare il codice Enigma dei nazisti e avevano saputo del devastante attacco che stavano per lanciare sulla città. Se si fossero preparati per l’attacco, i tedeschi avrebbero capito che il codice era stato decodificato. Così, il governo di Churchill prese la durissima decisione di lasciare morire persone innocenti per conservare un vantaggio militare che gli desse maggiori chance di vincere la guerra e salvare un maggior numero di vite.

L’empatia è un fattore determinante nel favorire il processo d’identificazione con gli altri. Se ci fossimo identificati con la bambina del vaccino difettoso o con un abitante di Coventry, non saremmo stati in grado di prendere la giusta decisione, quella che nel lungo termine avrebbe portato più cura, benessere, pace e salvezza al maggior numero e, considerando questi quattro concetti come positivi, possiamo definire questo tipo di approccio e visione come oggettivamente morale. Il processo d’identificazione sembra essere diventato un fondamento della nostra società ma in nessun modo esso costituisce un più solido e oggettivo fondamento morale per le nostre azioni. Quello che dovrebbe guidarci quando agiamo dovrebbe essere un empirismo informato e non l’emotività empatica la cui giustificazione non è spesso altra che la paradossalmente egoistica soddisfazione di un bisogno personale.

Bloom, a questo proposito, fa un altro esempio. Durante una trasmissione in cui era ospite discuteva di una ricerca che aveva letto sugli effetti negativi dell’elemosina ai mendicanti nel favorire il generale miglioramento della condizione socioeconomica dei più poveri. La pastora protestante che era ospite insieme a lui disse che a lei non interessava contrastarlo sui fatti ma soltanto constatare che a lei piaceva fare l’elemosina, la faceva sentire bene dare direttamente cibo o soldi a un bambino e vedere la sua soddisfazione, molto più che mandare soldi a un’organizzazione attraverso una carta di credito. Ripensando alle parole della pastora, Bloom scrive: “Se vuoi il piacere del contatto umano, fai pure e dai qualcosa al bambino, forse sentendo una vibrazione quando le vostre mani si toccano, un calore che rimane con te mentre te ne ritorni in hotel. Ma se vuoi fare davvero qualcosa per migliorare la vita delle persone, fai qualcosa di diverso”. >>

MICHELE SILENZI

(continua)

4 commenti:

  1. Completamente d'accordo, direi che quello di Silenzi è semplice buon senso.
    Il prof. Melis distingue sempre tra morale e diritto. Il codice non ti impone di fare il bene, ma devi rispettare le regole dell'umana convivenza che ci siamo date. Il principio fondamentale è neminem laedere. Credo che tutti siano capaci di mettersi nei panni di un'altra persona in sua presenza. Oggi decine di migliaia di persone, che dico - milioni non avranno da mangiare a sufficienza. È quello che ci dicono le agenzie, le associazioni, i religiosi. Ma è un'astrazione, queste persone non le vediamo - e direi per fortuna. Anche se oggi grazie alle comunicazioni siamo al corrente di quanto dolore ci sia ancora al mondo tuttavia ci mettiamo a tavola e apprezziamo le vivande (a meno di farsi venire un'ulcera). Dice bene Silenzi: “il soffrire empatico è diverso dal soffrire reale”. Basti pensare a un vero mal di denti o a un callo dolorosissimo. Puoi provare compassione per chi ne soffre, ma soffrirne in prima persona è ben altra cosa. Penso che quasi tutti provino sentimenti e quindi anche compassione per certuni. Ma adesso questo discorso sull'empatia ha qualcosa di dolciastro e irritante. A forza di empatia non potremmo più essere noi stessi, dovremmo sempre immedimarci con chi soffre o è meno fortunato. Il cristianesimo, ma anche l'educazione ci hanno
    resi più civili, tolleranti, compassionevoli, persino buoni (d'accordo, non sempre, ogni tanto la nostra natura egoistica si manifesta e in modi brutali).

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    1. Caro Sergio, è probabile che anche nel caso dell'empatia la tendenza umana a perdersi nei grandi numeri sia quella che rovina tutto.

      Perchè se io vivo in un ambito ristretto, come nei gruppi ancestrali degli ominidi, limitati al centinaio di persone (il classico numero di Dunbar), ecco che l'empatia funziona alla grande ed il condividere le sofferenze del mio compagno risulta da un lato utile e dall'altro sostenibile.

      Ma con i numeri attuali della popolazione umana, come potrò mai essere empatico in modo utile e sostenibile ?
      Dovrei fare necessariamente nelle scelte, aiutando (casualmente) Tizio anzichè Caio, e con ciò finirei per cadere, senza volerlo, nella più antipatica delle discriminazioni.

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  2. Uno dei principali esempi di (cattiva) empatia mi sembra quella che riguarda ciò che Agobit in un recente post ha chiamato 'L'ideologia natalista' e che "affascia" numerosi cattolici e islamici, nazional-sovranisti di destra e terzo-mondialisti di sinistra, turbo-capitalisti e femministe misandriche: come se una culla piena sia IN QUANTO TALE sempre & comunque preferibile a una vuota del tutto indipendentemente da ogni ragionevole possibilità di garantire un'esistenza dignitosa al neonato in questione (per tacere del degrado ambientale e climatico)... Saluti

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    1. Sì, direi che quello che hai fatto tu è proprio un ottimo esempio (e le conseguenze si vedono).

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