sabato 11 agosto 2018

Il paradosso della tecnologia

Uno dei paradossi dell’uomo moderno è quello di essere figlio inconsapevole di una tecnologia avanzatissima e pervasiva, che però di fatto non conosce.
Al punto da non comprenderla, e neppure apprezzarla come merita.
Quelle che seguono sono alcune considerazioni sull’argomento del sempre bravo e brillante Sergio Ricossa (tratte dalla prefazione di uno dei suoi libri).
Lumen


<< Siamo figli di una civiltà industriale che non conosciamo: viviamo in mezzo a macchine di cui ignoriamo il modo di funzionare, e lavoriamo in una economia che obbedisce a regole sulle quali sappiamo poco o nulla.

Ogni sera decine di milioni di persone guardano un apparecchio, chiamato televisore, che è un perfetto oggetto misterioso: realizza il prodigio di farci vedere quel che sta accadendo magari all'altro capo del mondo, ma non quello di farci chiedere come sia stata possibile l'invenzione della televisione, chi l'abbia concepita, e perché il lusso di possedere una tale scatola magica se lo possano permettere quasi tutti, e non solo pochi privilegiati.

Zworykin, l'uomo che forse più di ogni altro contribuì all'invenzione, è un nome che quasi nessuno ha sentito nominare: a quest'uomo non si innalzano monumenti e non si intitolano vie; i libri di storia generalmente tacciono di lui.

Di conseguenza la nostra civiltà industriale non è nostra affatto, non sentiamo che ci appartenga; la giudichiamo male, ma siamo incapaci di confrontarla sensatamente con le altre diverse; il suo destino, che è vulnerabile, ci lascia indifferenti. Ci comportiamo come se fosse piovuta dal cielo, senza alcuno sforzo nostro o dei nostri avi, quasi dovesse soddisfare un nostro diritto naturale; e pensiamo spesso che, senza alcuno sforzo nostro, abbia l'obbligo di darci sempre di più, sempre di meglio.

Un qualunque intoppo, per esempio un ostacolo ai rifornimenti di petrolio, ci coglie di sorpresa. Un qualunque difetto ci indigna. Perché le paghe non dovrebbero aumentare almeno del 10% all'anno, ogni anno? Perché gli orari di lavoro non dovrebbero diminuire, per lasciar posto a più vacanze retribuite? Perché, insomma, siamo insoddisfatti?

Naturalmente, siamo insoddisfatti, e sempre lo saremo, perché siamo uomini, perché abbiamo dentro di noi un pungolo che nessun altro animale possiede, ed è questo che determina la nostra supremazia fra tutti gli esseri viventi.

Ma c'è modo e modo di reagire, e noi oggi sembriamo voler reagire nel modo peggiore, che è la frustrazione. Sperduti nel labirinto della civiltà industriale, non vogliamo stare fermi e non sappiamo in quale direzione procedere. Ci manca una mappa adeguata del nostro passato, la quale indichi come siamo arrivati qui, a questo punto, ma pretendiamo una impossibile mappa del nostro futuro, e che sia di un solo colore: rosa.

[E’ utile pertanto] guardare indietro nel tempo, non per cercare il segreto della felicità, o per consolarci se troveremo, come troveremo, che i mali di una volta erano sovente peggiori degli attuali, ma per comprendere meglio il presente.

Non sappiamo se i nostri avi erano più o meno felici di noi, ma vivevano molto diversamente da noi. Per secoli, anzi per millenni, la gente comune, la gran massa dei lavoratori, subì le ferree costrizioni di una economia primitiva, preindustriale, che rispetto all'economia industriale appare immobile, stagnante.

Oggi, invece, tutto sembra girare vorticosamente, e ciò basta per darci una ragione del senso di vertigine che proviamo.

Il cambiamento cominciò in Gran Bretagna tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, poi si propagò a gran parte dell'Europa occidentale e dell'America del nord. In Italia bisognò attendere la fine del secolo scorso, e forse addirittura la fine della seconda Guerra Mondiale, perché gli effetti dell'industrializzazione diventassero possenti come altrove.

Tra le due guerre, non lontano da Milano, Torino e Genova, i vertici del nostro "triangolo industriale", non poche famiglie contadine vivevano ancora in condizioni paragonabili a quelle medievali: non avevano l'elettricità, attingevano l'acqua dal pozzo, si scaldavano e cuocevano il cibo con la legna raccolta nel bosco, pativano la fame o la sete se il raccolto del grano o la vendemmia andava male, riservavano le scarpe e la giacca per i giorni di festa, non si allontanavano mai dal villaggio, dove si nasceva, si cresceva, ci si sposava, si invecchiava, si moriva, avevano nel cavallo e nel bue i loro "motori" coi quali risparmiarsi qualche fatica, e ascoltavano le storie della città come leggende di terre lontane.

Due o tre generazioni sono bastate perché modi di vivere millenari scomparissero quasi ovunque, e di essi si perdesse perfino il ricordo. La civiltà industriale ci è piombata addosso con effetti traumatizzanti; siamo sotto shock, abbiamo dimenticato chi eravamo, da dove venivamo, quale sangue ci scorre nelle vene. (…)

E nell’indagare sulle origini della civiltà industriale, sul declino della civiltà agricola, sull'estensione della miseria nell'una e nell'altra, [si potrà riflettere] sulla natura della fatica nell'una e nell'altra, e su quel che si è guadagnato e perso passando dall'una all'altra. >>

SERGIO RICOSSA

4 commenti:

  1. Queste sagge considerazioni di R. possono valere (ovv.te 'mutatis mutandis') anche oggi, epoca della rapida e turbolenta transizione dalla Società industriale a quella post-industriale & dei servizi: transizione che comprensibilmente genera incertezze & preoccupazioni nelle quali trovano terreno fertile i movimenti clerico-nazional-populisti oggi potentemente alla ribalta in mezzo mondo con relativo carico di promesse miracolistiche, decisamente a buon mercato e sfortunatamente (auto)illusorie...

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  2. Caro Claude, i movimenti populisti, con i loro richiami ad una passata (e forse illusoria) età dell'oro, hanno le loro colpe.
    Ma i movimenti della sinistra globalista, che con il loro buonismo ingenuo ed autolesionista hanno contribuito a far nascere e prosperare molti degli attuali problemi, hanno colpe non inferiori. Anzi.

    Gli esempi non mancano e sono sotto i nostri occhi, così come le conseguenze negative per il popolo comune.
    Ma questo - al di là delle belle parole di facciata - non sembra interessare più di tanto.
    E le elites, che possono lmitarsi a manovrare a proprio piacimento i movimenti di volta in volta alla ribalta, se la ridono.

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  3. Una considerazione interessante sull'argomento tratta dal blog di Lorenzo Celsi:

    << In passato la cosa che condizionava le esistenze era il bisogno materiale.
    La gente ne era condizionata, ma ne era anche consapevole e quindi scuoteva le catene nei modi, tempi e luoghi che poteva.
    Adesso le esistenze sono condizionate dal lavaggio del cervello, dal controllo delle masse applicato dalla nascita. (...)
    Secondo me è un fatto senza precedenti storici che è stato reso possibile dalle tecnologie.
    Paradossalmente mai l'Uomo è stato meglio e mai è stato peggio. >>

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  4. Caro Lorenzo, grazie per aver visitato il mio blog.

    Tu dici (tra l'altro) che "la tecnologia non ha niente di misterioso", ma questo vale solo per chi la conosce a fondo, cioè per pochissimi.
    Per la gente comune ha sicuramente qualcosa di magico, cioè funziona sulla base di nessi causali che non conosce (e spesso neppure concepisce), e questo la porta da un lato ad esserne schiavo, dall'altro a sopravvalutarla.
    Ma questo fa ben comodo alle elites attuali, per le quali la regola aurea è sempre la stessa: pensate a divertirvi e non disturbate il manovratore.

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