sabato 4 agosto 2018

Il genio di Darwin – 7

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Settima parte. Lumen)


<< Abbiamo lasciato un po' in sospeso il discorso dell'adattamento e del suo ruolo concettuale nell'ambito delle spiegazioni evolutive. Siamo giunti al momento di riprendere le fila del discorso, anche tenendo conto di quanto abbiamo detto.

Il discorso dell'adattamento (adaptation) è talmente chiaro di per sé, che non dovrebbe presentare dei problemi. Tutti gli esseri viventi sono e sono stati adatti alla vita nel loro ambiente, altrimenti non ci sarebbero stati. Si ritiene però generalmente, e niente lo può smentire, che gli organismi che sono venuti dopo in una determinata linea evolutiva siano più adatti dei loro antenati a quel tipo di vita.

Ciò soddisfa la nostra intuizione e ci fornisce una chiave per capire la direzione del processo evolutivo nel suo complesso, chiave ben presente nella mente di Darwin e per nulla da lui disdegnata. È proprio da queste premesse che nasce la frase: «La selezione naturale seleziona gli individui più adatti».

Fin qui tutto bene. Il problema nasce quando si tenta di dare una formulazione scientifica a queste impressioni e a queste affermazioni. Ricapitoliamo.

Va detto innanzitutto che la constatazione dell'adattamento di una struttura o di un comportamento a un certo ambiente può essere effettuata solo a posteriori. Noi riscontriamo un adattamento osservando che quel particolare organismo che vive in un dato ambiente ha escogitato quel determinato trucco.

Non possiamo conoscere nei dettagli come era quell'organismo prima di adattarsi a quell'ambiente e soprattutto non sappiamo se avrebbe potuto adattarsi anche meglio sviluppando altre caratteristiche strutturali o comportamentali. Quindi l'adattamento è una realtà riconoscibile solo a posteriori, sulla base di un'interpretazione.

In secondo luogo, allo stesso ambiente ci si può adattare in mille modi diversi. Noi osserviamo quindi alcune forme di adattamento, non l' adattamento. Alle condizioni di una certa zona desertica si sono adattate certe piante, certi rettili, certi insetti, certi uccelli e perfino certi piccoli mammiferi, senza che si possa dire chi si sia adattato meglio o quale sia il trucco più riuscito e soprattutto se si sarebbe potuto escogitare qualcosa di ancora migliore.

L'adattamento quindi non è assoluto ma relativo a certe condizioni: date certe condizioni ambientali e biologiche di partenza — essere un rettile, un insetto o una pianta con certe caratteristiche — si riscontra o meno un buon adattamento.

In terzo luogo, il grado di adattamento non si può misurare e neppure comparare: si tratta in sostanza di un parametro isolato e qualitativo. Non si può affermare che una struttura o un comportamento sono meglio adattati di altri, sia che questi ultimi siano presenti nella stessa specie sia in organismi di altre specie.

Al massimo si può affermare che un organismo che sta invadendo un nuovo ambiente è per il momento molto male adattato a certe caratteristiche di quell'ambiente. È molto probabile per esempio che un dromedario o un'ara avrebbero qualche difficoltà a vivere in Antartide. È più facile in sostanza riscontrare o sottolineare un non-adattamento che il contrario.

Ci dobbiamo quindi accontentare di una definizione intuitiva e approssimata di adattamento. In questa luce è decisamente inappropriata, come abbiamo visto, quella formulazione ingenua dell'evoluzionismo darwiniano secondo la quale la selezione naturale favorirebbe gli individui più adatti. Anche se alla fine il significato è quello, questa formulazione non soddisfa alcun criterio di scientificità e non ha nessun valore predittivo.

Si tratta di un'affermazione di grande effetto ma di natura intrinsecamente circolare. Come faccio infatti a sapere chi sono i più adatti se non osservando quegli individui che sono stati selezionati? Come faccio a distinguere gli adatti dai più adatti? Come faccio infine a comparare il grado di adattamento delle due sottospecie che così di frequente la selezione naturale finisce per sostituire a una data specie?

Questa formulazione avrebbe un significato non ambiguo solo se disponessimo di un criterio indipendente, e magari quantitativo, per valutare il grado di adattamento a determinate condizioni ambientali di una struttura o di una funzione, ma questo criterio, almeno per il momento, non esiste.

La formulazione corretta, anche se certamente meno soddisfacente dal punto di vista psicologico, è quella secondo cui la selezione naturale favorisce preferenzialmente alcuni individui di una data specie rispetto ad altri. Negli individui che la selezione ha favorito possiamo riconoscere alcuni tratti di un buon adattamento a quell'ambiente, ma anche altri che difficilmente potrebbero essere definiti tali. La selezione infatti opera sugli individui nel loro complesso, non sui singoli tratti biologici.

La formulazione più corretta potrebbe quindi essere: la selezione naturale assegna una capacità riproduttiva differenziale ai vari tipi di individui presenti in ogni istante all'interno di una data popolazione. Secondo la visione corrente, tutto il resto deriva da questa azione selettiva differenziale.

A parte questa formulazione comune, più cauta e fondamentalmente inoppugnabile, occorre dire che non tutti sono d'accordo riguardo a una svalutazione del concetto di adattamento biologico. Alcuni naturalisti, soprattutto di lingua e tradizione anglosassone, attribuiscono tutt'oggi una notevole importanza al concetto di adattamento e vengono di solito definiti adattamentisti o iper-adattamentisti.

A rigore, insomma, non esistono neppure i geni per fare le gambe, le mani o quelli per fare le antenne, contrariamente a quanto abbiamo detto in precedenza. Il singolo gene ignora, per così dire, ciò che è destinato a fare. È lì per sintetizzare il suo prodotto e basta. Se questo verrà utilizzato per produrre una struttura biologica oppure un'altra, non lo riguarda affatto.

Innanzitutto perché i prodotti di un gene possono essere utilizzati per la costruzione di un certo numero di strutture biologiche diverse nello stesso organismo. E, in secondo luogo, perché lo stesso gene può entrare nella costruzione di strutture biologiche diverse in specie differenti. Quello che cambia da una specie all'altra è la regia, non gli attori, che sono invece notevolmente conservati.

Di recente ha sollevato un certo scalpore la notizia che le spugne, che sono fra gli organismi più primitivi e che vivono in colonie, possiedono alcune proteine molto simili a quelle utilizzate nel sistema nervoso degli animali superiori per far funzionare le sinapsi, le minuscole connessioni dei nervi tra di loro. Nelle spugne, però, le proteine in questione sembrano compiere una funzione assai differente: regolare o meno l'adesione di una cellula all'altra nello sviluppo di una colonia.

A parte il fatto che, dal punto di vista astratto, le due funzioni non sono poi così differenti – in un caso come nell'altro si tratta di riconoscere e discriminare, una funzione fondamentale per la vita nel suo complesso –, che cosa c'è di strano in questa interessante scoperta?

La chiave per comprendere il fenomeno è tutto sommato molto semplice: i geni in questione non producono né strutture di riconoscimento fra cellule di spugna né complessi sinaptici di animali superiori; si limitano semplicemente a produrre il loro prodotto, che può essere utilizzato per questo oppure per quel fine. Il fatto è che la vita, in tutte le sue manifestazioni, dalla replicazione dei virus all'intelligenza e al pensiero, è di natura intrinsecamente e inesorabilmente molecolare.

Perché pensare che la replicazione cellulare e la digestione siano fenomeni molecolari, mentre la memoria e la creatività no? Gli attori sono sempre gli stessi. Inconsapevoli nel senso più metaforico del termine. Le molecole si aggregano, si parlano, si separano, che si tratti di spugne o di Mammiferi, di aggregazione cellulare o della risoluzione di un problema. La differenza non risiede nella natura intrinseca di questi fenomeni, ma nel nostro modo di considerarli. >>

EDOARDO BONCINELLI

(continua)

4 commenti:

  1. L'importante concetto di "capacità riproduttiva differenziale", spiegato da par suo da Boncinelli, sembra implicare il fatto che nella 'lotteria evolutiva' finisce x prevalere chi produce il maggior numero possibile di figli anche del tutto indipendentemente dalle risorse disponibili, ma ciò (lo vediamo chiaramente rig.do all'attuale esplosione demografica della specie umana) sembra remare in direzione contraria/opposta al corretto impiego di quella 'consapevolezza fenotipica' tra l'altro messa opoportunamente al centro del presente Blog.
    Come si esce da questo 'cul de sac'?

    RispondiElimina
  2. Bella domanda !
    Se ne esce aumentando il numero dei 'fenotipi consapevoli' in rapporto ai 'non consapevoli'.
    Obbiettivo teoricamente concepibile (in quanto tutti i dati scientifici che ci servono li abbiamo già), ma praticamente impossibile non solo da raggiungere, ma persino da avvicinare.

    Ho il sospetto che la tanto decantata superiorità dell'homo sapiens sulle altre specie animali, che indubbiamente esiste, funzioni solo per alcune situazioni.
    E che quando si tratta di fertilità differenziale non ci scostiamo poi molto dai simpatici conigli. :-)

    RispondiElimina
  3. Per dirla tutta, secondo i moderni studi di etologia comparata le specie viventi più "evolute" (molti Uccelli e soprattutto la maggior parte dei Mammiferi, Homo S. compreso) tendono ad abbandonare la strategia riproduttiva più primitiva R (=molta prole e scarse cure parentali) a favore di quella K (=poca prole e ampie cure parentali), proprio in quanto complessivamente più vantaggiosa.
    Purtroppo le Ideologie politiche autoritarie, collettiviste e identitario-nazionaliste e la maggior parte delle Confessioni religiose, spalleggiate almeno sotto questo aspetto dagli economisti turbo-capitalisti di mezzo mondo, NON sembrano averlo ancora capito (oppure lo hanno capito molto bene ma continuano a predicare elevati tassi di natalità per meri "interessi di bottega")...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Direi più la seconda che la prima (gli interessi di bottega sono terribili !).
      Le elites, salvo rare eccezioni, sono gente colta ed informata, e le cose le sanno.

      Elimina