mercoledì 7 febbraio 2018

Il genio di Darwin – 1

Inizia, con questo post, la pubblicazione di ampi stralci del libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” (edito da Rizzoli), dedicato alla fondamentale “Teoria dell’evoluzione” di Charles Darwin. 
Boncinelli non si limita a spiegare, con la consueta chiarezza, il contenuto scientifico della teoria, ma ce ne racconta anche la storia, dall’elaborazione iniziale (e geniale) di Darwin, sino ai nostri giorni. 

Data la lunghezza, il testo verrà suddiviso in numerosi “capitoli”, che verranno pubblicati con frequenza variabile. Buona lettura. LUMEN
 


<< Di tutte le forme viventi – animali, piante, funghi, protisti e batteri – che si sono succedute nel tempo sulla superficie del nostro pianeta, quattro miliardi di anni fa non ne esisteva nessuna. Le prime testimonianze di vita sulla Terra risalgono infatti solo a circa tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Tutti gli eventi biologici verificatisi a partire da quel momento sono l'oggetto di studio della teoria dell'evoluzione.
 
Con il termine evoluzione intendiamo quel vastissimo complesso di eventi, grandi e piccoli, che hanno interessato la vita sulla Terra dal suo inizio fino alla condizione attuale, plasmandone all'infinito i contorni. L'effetto principale di questi eventi è stato quello di popolare il nostro pianeta di innumerevoli forme viventi, presenti un po' dappertutto e appartenenti a milioni di specie diverse. Senza alcuna eccezione, queste forme sono costituite di cellule, una sola per i batteri e per i protisti, tante o tantissime per tutti gli altri organismi. Il nostro corpo per esempio è costituito da decine di migliaia di miliardi di cellule appartenenti a più di cento tipi diversi.
 
L'evoluzione si identifica quindi con la storia delle forme viventi, presenti e passate. Questa storia vede continui cambiamenti e trasformazioni, con la comparsa di forme sempre nuove accompagnata spesso dall'estinzione di quelle precedenti. Tanto le forme nuove quanto quelle vecchie sono per definizione tutte adatte a vivere nell'ambiente nel quale si trovano, ma mostrano caratteristiche biologiche che noi uomini interpretiamo secondo una nostra scala di valori che ci induce a preferire e a valutare come migliori quelle che più si avvicinano o sembrano avvicinarsi alle nostre.
 
Nell'immaginario collettivo l'idea di evoluzione è spesso associata a quella di «miglioramento», progressivo se non complessivo, delle diverse forme viventi. La verità è ben diversa: in alcune linee evolutive si può vedere un certo «miglioramento» — nel senso sopra precisato —, in altre un «peggioramento», mentre nella maggioranza di esse è impossibile scorgere segni dell'una o dell'altra tendenza. Va detto inoltre che l'evoluzione ha un passo così lento che osservando per qualche anno o per qualche secolo la natura delle forme esistenti non si nota alcun cambiamento significativo.
 
Ciò la differenzia nettamente dall'altra forma di evoluzione presa in considerazione dalla scienza: quella riguardante il cosmo, ovvero l'universo fisico. I primi eventi significativi di quest'ultima forma di evoluzione sono stati incredibilmente rapidi — frazioni infinitesime di secondo, secondi o minuti —, anche se poi il tutto ha rallentato e l'intero processo dura da più di tredici miliardi di anni.
 
La lentezza dei fenomeni evolutivi, unita alla scala veramente esorbitante dei tempi implicati, ha fatto sì che l'uomo non se ne sia reso conto se non in epoche ridicolmente recenti e abbia tuttora difficoltà ad accettarli e a concepirli. Ma è anche la condizione che ci permette di studiarli, di farne oggetto di analisi e di individuarne i principi, così come di parlare in generale della natura alla stregua di un'entità ben precisa e definita.
 
Perché si manifesti qualche cambiamento evolutivo di rilievo occorre attendere il succedersi di molte generazioni. È essenzialmente per questo motivo che l'evoluzione ci appare lenta rispetto alla durata di una vita. Anche se il tempo che intercorre tra una generazione e l'altra è assai variabile nelle varie specie — questione di minuti o di decenni — è pressoché inevitabile per noi attribuire particolare importanza alla durata della nostra esistenza e tendere a rapportare a questa tutte le valutazioni temporali.
 
L'evoluzione si identifica con la storia della vita, anzi con le innumerevoli storie particolari che riguardano una determinata specie o una precisa comunità biologica. Ciò non significa che non si sia tentati di estrarre da tutto questo qualche principio ispiratore, qualche legge o qualche meccanismo specifico. Ciò è più che legittimo perché a questo ci portano la nostra natura e la nostra storia. L'uomo vuole capire, per gestire e prevenire.
 
Tale operazione ci è riuscita particolarmente bene per la materia inanimata, al punto che la fisica e la chimica hanno raggiunto risultati eccezionali e hanno fornito, almeno fino a una certa epoca, un quadro complessivo chiaro e informativo della realtà che ci circonda. Il mondo fisico — dalle galassie alle placche tettoniche — ha le sue leggi generali se non universali, i suoi principi particolari e locali e le sue regole applicative.
 
Lo studio della vita si presenta invece fin dall'inizio un po' diverso. Qui non ci sono leggi universali e neppure principi particolari, mentre abbondano descrizioni e narrazioni, quasi sempre illustrate: la vita è una collezione di entità uniche, sostanzialmente irripetibili, e di processi molto particolari collocati in un flusso temporale più o meno accelerato.
 
Tutto questo si esprime di solito affermando che la biologia è una scienza storica: molte cose sono andate in una certa maniera, ma potevano anche andare in un'altra e solo l'osservazione e la comprensione di ciò che è effettivamente avvenuto ci può fornire informazioni pertinenti e valide. È vero però che, data la lentezza dei cambiamenti evolutivi e la relativa conservazione di alcune strutture biologiche fondamentali, non è impossibile descrivere organi, organismi e specie come sono e come funzionano al momento. Ed è ciò che studia la biologia.
 
Si è soliti parlare di biologia tout court per indicare lo studio delle forme di vita esistenti e delle loro proprietà, mentre si parla di biologia evoluzionistica per indicare l'analisi delle loro trasformazioni nel tempo. Ciò è perfettamente lecito a patto che si tenga presente che tutta la biologia ha un'intrinseca dimensione evoluzionistica, della quale è talvolta comodo osservare specifici spaccati temporali, come se si trattasse di fotografie istantanee in grado di «arrestare» il tempo.
 
Lo studio delle forme viventi, prodotte dalla storia e perennemente immerse nella stessa, si è rivelato particolare e idiosincratico, anche se la cosmologia più recente ci dice che pure il mondo fisico possiede una storia e una sua evoluzione. Le differenze risiedono nell'entità delle diverse scale temporali e nel fatto fondamentale che gli esseri viventi conservano una memoria esplicita degli eventi del passato, dai quali sono stati tra l'altro direttamente forgiati. Dovrebbe essere noto a tutti che gli esseri viventi conservano tale memoria nel loro patrimonio genetico, altrimenti detto genoma, che gli esseri inanimati non posseggono.
 
Tutta la biologia ha tratto profitto dall'idea di un'evoluzione biologica e dal suo studio. Quella evoluzionistica è anzi l'unica idea unificante della biologia, capace di dare un senso a tutte le osservazioni e ipotesi che si possono fare in questo campo. Sul piano della conoscenza pura, quindi, e dell'interpretazione dei fatti biologici, l'idea di evoluzione si rivela ogni giorno di più, come ha fatto in passato, di straordinaria importanza.
 
Ma è soprattutto per la comprensione dell'evoluzione dell'ambiente naturale del nostro pianeta che ci preme oggi capire cosa è effettivamente successo nei secoli addietro, per valutare appieno cosa sta succedendo e cosa verosimilmente succederà. L'insieme degli organismi della Terra, la biosfera, si articola in una collezione di tantissimi ecosistemi locali dove animali, piante e microorganismi interagiscono e competono per adattarsi al meglio alle condizioni circostanti ed entro certi limiti per modificarle. 

Questo studio, l'ecologia, si avvale dell'idea di evoluzione biologica e nello stesso tempo contribuisce a illuminarne molti aspetti, dai più astratti ai più concreti. Non si concepisce oggi uno studio evoluzionistico senza un'analisi dei risvolti di natura ecologica e allo stesso tempo non si può impostare un'indagine di tipo ecologico se non nel quadro di un approccio evoluzionistico. Meccanismi evolutivi e fenomeni ecologici sono strettamente interdipendenti e rappresentano il nucleo concettuale della biologia sul campo, mentre evoluzionismo e genetica guidano la biologia in laboratorio. 

L'ecologia è la nuova scienza degli equilibri naturali che si è affiancata negli ultimi decenni alla genetica per guidarci alla comprensione dei cambiamenti che sono occorsi e che stanno occorrendo nel mondo vivente e nel suo rapporto con l'ambiente marino e terrestre. L'esame delle cosiddette reti alimentari o trofiche, le dinamiche di popolazione, le relazioni fra le diverse specie e fra la biomassa e i grandi cicli dell'acqua e degli elementi principali – primo fra tutti il carbonio – dominano da una parte gli studi teorici e dall'altra le considerazioni pratiche necessarie per sviluppare quelle politiche per l'ambiente che abbiano una base scientifica. 

Dominante su tutto questo è la consapevolezza che quella umana è comunque una specie vivente che ha le sue esigenze, i suoi bilanci e che potrebbe anche soffrirne fino ad arrivare a estinguersi. >>

EDOARDO BONCINELLI
 

(continua)

15 commenti:

  1. Molto utile grazie Lumen. Forse l'ultima forma di evoluzione sarà quella dei robot androidi come la fantascienza ha intravisto

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    1. Caro Agobit, bentornato.
      La teoria dell'evoluzione mi affascina in modo particolare, perchè unisce ad una formulazione molto semplice, una grande capacità esplicativa.

      Quanto ad una evoluzione futura che coinvolga anche i robot, che sono in fondo delle macchine, sarei invece molto perplesso.
      L'evoluzione per funzionare ha bisogno della fecondità differenziale e questo, per delle macchine, dovrebbe essere (il condizionale ovviamente è d'obbligo) intrinsecamente impossibile.

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    2. La fecondita' differenziale la forniscono gli uomini: sopravvivono di piu' quelli che sanno accudire le migliori macchine, senza le quali non possono sopravvivere.
      Ma in questa fase ci siamo gia'.

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    3. In altre parole, come specie, gia da' millenni dipendiamo in modo irreversibile dalle nostre macchine o piu' in generale dai nostri ammennicoli tecnologici coevolutisi con noi (a partire dai vestiti, poi armi, medicine, piante e animali selezionati artificialmente, fertilizzanti, energia elettrica, reti di computer che ormai se si bloccano finisce la civilta' in una settimana, e in poco piu' muoiono miliardi di uomini).

      L'ultimo atto potrebbe prevedere in aggiunta solo l'ulteriore gradino che alcune di queste macchine possano non avere piu' bisogno di noi, andare avanti da sole e magari distruggerci.

      Ma per questo basta un qualche microrganismo di laboratorio che sfugga al controllo, non occorrono chissa' che robot.

      Oppure, ancora piu' semplice, un microrganismo che si evolva da solo in mezzo a tanta abbondanza.

      La realta' spesso supera la fantasia in modo impensato solo perche' troppo banale, siamo ormai abituati a fare tutto cosi' difficile...

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  2. "Forse l'ultima forma di evoluzione sarà quella dei robot androidi (...)"

    In effetti, l'evoluzione tecnologica può essere considerata la versione "aggiornata" e accelerata di quella socio-culturale, a propria volta versione aggiornata e accelerata di quella biologica, a propria volta versione aggiornata e accelerata di quella fisico-cosmologica (le ultime due messe a confronto con la consueta abilità da Boncinelli nel passo riportato)... Nessuno di questi 'step' sostituisce interamente quello/i precedenti, tutti quanti convivono su scale temporali differenti ma ovviamente si finisce per notare soprattutto quelli più recenti/vicini...

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    1. Fermo restando che, a mio avviso, l'evoluzione e l'evoluzionismo devono essere considerati due concetti distinti.

      La prima infatti, secondo me, si applica sostanzialmente ai non viventi, ed è eterodiretta (in genere da noi umani), mentre la seconda si applica agli esseri viventi e si fonda, come diceva il grande Jacques Monod, sulla teleonomia interna.

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    2. "ed è eterodiretta"

      E il determinismo dove lo mettiamo?

      Determinismo a parte, anche negandolo, pensare che gli umani eterodirigano qualcosa senza esserne al loro volta eterodiretti e' molto discutibile. Qualsiasi azione purtroppo ha una montagna di effetti collaterali imprevisti ed imprevedibili che pero' interagiscono pesantemente con l'eterodirettore stesso.
      Lo abbiamo davanti agli occhi in ogni momento della nostra attuale vita quotidiana.

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    3. Quella tra (teoria dell')evoluzione ed evoluzionismo è una delle "querelles" epistemologiche più intriganti e problematiche: non a caso nel breve commento ho preferito evitare il secondo termine, tuttora pregno di possibili fraintendimenti in merito all'applicabilità della (ben solida) teoria darwiniana alla dimensione socio-politica: applicabilità per la quale (ad es.) H. Spencer è stato dogmaticamente demonizzato dalle Sinistre e altrettanto dogmaticamente esaltato dalle Destre liberal-conservatrici...

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    4. La grande differenza e' che le azioni umane sono intenzionali, non casuali. Sono il prodotto di secondo livello di una previa simulazione nelle nostre menti. Pero', dal punto di vista intenzionale, queste azioni intenzionali, a causa della inevitabile limitatezza della simulazione, hanno una quantita' di effetti, anche retroattivi, imprevisti quando non imprevedibili, che sul lungo termine le rendono poco diverse da quelle casuali. Gli effetti retroattivi sono i peggiori, perche' falsificano le regole stesse con cui e' stata fatta la simulazione.
      Forse e' proprio per questo che tendiamo istintivamente a non preoccuparci del lungo termine: perche' e' inutile.
      La tendenza dell'intenzionalita', invece, e' di spingere la prevedibilita' degli effetti delle proprie azioni e intenzioni sempre piu' in la', a volte pero' "tagliando le curve", cioe' negandone la imprevedibilita' a lungo termine, per non parlare della ricorsivita'.
      E' un fenomeno sempre piu' evidente man mano che avanza la concezione meccanicistico-deterministica del mondo, per cui ogni effetto deve avere una causa semplice identificabile, e ogni causa un effetto semplice e prevedibile.
      Il risultato e' un aumento di potenza a breve termine, che pero' si dispiega in un aumento degli effetti collaterali indesiderati a lungo termine, fra cui quelli di cui ci preoccupiamo in questi nostri blog (in cui impera il determinismo-meccanicismo ingenuo, a loro volta, per cui le ricette proposte per risolvere i problemi alla fine sono indentiche a quelle che li hanno generati).

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    5. @ Claudio

      << possibili fraintendimenti in merito all'applicabilità della (ben solida) teoria darwiniana alla dimensione socio-politica >>

      Sì, hai ragione.
      Purtroppo certi principi darwiniani sono stati utilizzati anche al di fuori del loro specifico campo d'azione, che è prettamente biologico, e l'evoluzionismo ha finito per acquisire, senza sua colpa, una nomea parzialmente negativa.
      Peccato.

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    6. Ma siete sicuri? I principi darwiniani mi pare che funzionino benissimo anche nel mondo della cultura e percio' della politica e delle istituzioni.
      Sopravvive il piu' adatto, tautologicamente.
      Gli stati moderni in cui siamo organizzati adesso, in fin dei conti esistono solo perche' hanno eliminato cio' che c'era prima di essi.
      Tutti i nostri artefatti, oggetti e istituzioni comprese, sono filtrati da quelle leggi naturali.
      Non solo, ma pure il presunto abuso di quei principi (presunto nel senso che siamo noi adesso a presumere che sia sbagliato), che risiede nell'equiparare il piu' adatto, il sopravvissuto, a moralmente "superiore" nella scala evolutiva, sta tanto nel mondo della biologia che in quello delle idee, ed e' a sua volta oggetto di selezione, a seconda che funzioni o no.
      Se funzionasse, non sara' di per se' superiore, ma funziona.
      Le idee darwiniane sono davvero idee pericolose, specie nelle menti deboli. Ma comunque anche senza tali idee, gli uomini e le loro idee si comportano come se le conoscessero: non occorre che gli esseri viventi conoscano le teorie darwiniane per comportarsi secondo le loro regole.

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  3. E' l'eterno dilemma se l'uomo con la sua intelligenza (e produzione) è parte della natura o ne esce con una sorta di trascendenza che va dal materiale all'immateriale come l'intelligenza. Il disastro planetario che avviene sotto i nostri occhi è una sorta di esplicazione di questa sintesi-opposizione in senso purtroppo conflittuale. La grande rivoluzione della IA e dei robot potrebbe essere una svolta alla situazione attuale o il sigillo della fine

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    1. In questo discorso c'e' solo una piccola incongruenza che ai miei occhi lo rende del tutto inconsistente: il disastro planetario e' tale solo ed esclusivamente per i nostri soggettivi occhi.
      Riusciamo ad arrrogarci il diritto di dominare tutto anche solo nel momento in cui lo intepretiamo. Non c'e' limite all'arroganza dell'uomo-

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    2. @ Agobit

      << E' l'eterno dilemma se l'uomo con la sua intelligenza (e produzione) è parte della natura o ne esce con una sorta di trascendenza >>

      Un dilemma non solo eterno, ma forse irrisolvibile.
      Da un lato è evidente che l'uomo, in quanto animale, non può che essere un semplice elemento del mondo biologico, il quale, a sua volta, non è che una componente dell’universo fisico nel suo complesso (non dimentichiamo che nessun essere vivente può comunque violare le leggi della fisica).

      Dall'altra, sentiamo di possedere una immaterialità che ci rende se non superiori, quanto meno unici.
      Che si parli (ingenuamente) di anima, o più semplicemente di intelligenza, ci sentiamo (siamo ?) diversi.
      E purtroppo l'ambiente ne sta facendo - tristemente - le spese.

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    3. "Dall'altra, sentiamo di possedere una immaterialità che ci rende se non superiori, quanto meno unici."

      Ma questo e' tipico degli insicuri della propria posizione, non dei "superiori".
      Nessun animale si e' mai posto il problema di essere inferiore a qualcos'altro, per poi magari concludere che no, che dev'essere superiore se non altro per il fatto di essersi posto il problema. A dire il vero, trovo la cosa piuttosto comica, e non so in che punto della scala della superiorita' cio' possa pormi.

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