lunedì 27 ottobre 2025

Governanti e Governati – 1

Nonostante i suoi indubbi pregi, anche la Democrazia non può evitare i condizionamenti dell'elitismo, con la netta divisione tra coloro che governano ed i semplici cittadini, i quali, pur votando, non hanno mai il vero controllo dello Stato. 
Ce ne parla Lorenzo Mesini in questo lungo, ma interessante, articolo tratto da 'Pandora Rivista' (LINK)  (prima parte di due).
LUMEN


<< Punto di partenza per i teorici delle élite è il semplice fatto che in ogni formazione sociale sono sempre riscontrabili due classi di persone: governanti e governati, dominatori e dominati. I primi costituiscono una minoranza più o meno ristretta, che tende a concentrare nelle proprie mani una grande quantità di potere e di risorse (sia materiali che simboliche). I secondi, invece, rappresentano la maggioranza soggetta al dominio dei governanti, prevalentemente priva di potere e risorse.

Obiettivo principale della teoria delle élite, a partire da Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, è stato quello di elaborare una giustificazione teorica a questa indiscutibile uniformità che, con forme diverse, attraversa la storia e le società umane. La distinzione tra governanti e governati non è tuttavia una scoperta della scienza politica tra Otto e Novecento, ma è sempre stata oggetto delle varie tradizioni che attraversano la storia del pensiero politico. (…)

Il pensiero politico moderno affronta il tema delle élite operando uno scarto radicale nei confronti delle concezioni antiche e medievali della politica. Se l’ordine politico antico e cristiano era concepito come un ordine naturale (oggettivo e gerarchico) posto a stabile fondamento della politica, l’età moderna pensa invece l’ordine come prodotto umano e artificiale, fondato sull’attività razionale degli individui, soggetto al conflitto e al mutamento.

L’idea di fondo da cui muove il pensiero politico moderno (e la sua futura concezione della democrazia) è il rifiuto di ogni gerarchia naturale tra gli uomini. I grandi esponenti del razionalismo politico moderno da Hobbes a Kant, passando per Spinoza, Locke e Rousseau, sviluppano la propria idea di ordine politico a partire dal concetto di uguaglianza, rifiutando l’idea di ogni gerarchia naturale tra gli uomini.

L’assenza di un ordine naturale tra gli individui costituisce il problema da cui muove il pensiero politico moderno: la naturale uguaglianza tra gli uomini è infatti foriera di conflitti virtualmente infiniti (il bellum omnium contra omnes dello stato di natura). La necessità dell’ordine politico nasce quindi dall’esigenza di difendere l’uguaglianza che sussiste naturalmente tra gli uomini, uguaglianza che deve essere tutelata dai suoi stessi effetti collaterali.

Attraverso il dispositivo razionale del contratto tutti gli individui concorrono a edificare lo Stato, ordine politico unitario in cui vige la legge universalmente valida al suo interno. Gli autori del potere (gli individui) tuttavia, non lo esercitano in maniera diretta, ma attraverso istituzioni rappresentative (il sovrano rappresentativo o un’assemblea parlamentare) che sono superiori a coloro che rappresentano. Gli autori del potere non coincidono quindi in maniera diretta con i suoi attori (le istituzioni rappresentative).

Questo elemento di disuguaglianza all’interno del corpo politico moderno non deriva da alcuna superiorità di carattere ontologico o naturale ma è di carattere prettamente funzionale, volta a garantire l’unità dello Stato. In linea di principio nessuna distinzione sociale deve giustificare alcuna distinzione politica, dato che la politica è il prodotto della razionalità comune di cittadini uguali. A esercitare il potere non sono i ‘migliori’, ma coloro che rappresentano l’unità del corpo politico e che governano mediante leggi universalmente valide al suo interno.

Ovviamente nel corso dell’età moderna la nascita e lo sviluppo effettivo dello Stato non è avvenuto senza il contributo decisivo di diverse élite (politiche, amministrative, economiche, religiose) spesso in lotta e in competizione reciproca.

Il pensiero politico moderno e la sua idea di democrazia (sia nella sua versione liberale che socialista) traggono la propria forza da: a) l’idea che nessuna differenza pre-politica (naturale o sociale) possa giustificare in linea di principio la superiorità politica di nessun cittadino, b) la necessaria distinzione tra rappresentanti e rappresentati. (...)

L’importanza della distinzione fra rappresentanti e rappresentati risiede nel suo carattere funzionale a garantire la convivenza pacifica tra i cittadini e l’unità dello Stato. Per il pensiero politico moderno risulta infatti illegittima ogni forma di ordine politico in cui i cittadini soggetti al potere non ne siano al contempo gli stessi autori.

Legittimo è quel potere che nasce e si concepisce come autogoverno di cittadini uguali, obbedienti a leggi universali. A questa convinzione, il pensiero politico moderno non può rinunciare, quanto meno a livello teorico. Ogni forma di ordine che voglia trarre la propria legittimità dalla pretesa di rappresentare solo una ‘parte’ del corpo sociale non può che essere considerata dispotica o tirannica.

Nei confronti del razionalismo politico moderno e delle sue principali declinazioni politiche (liberalismo, democrazia e socialismo) i teorici classici delle élite (Mosca, Pareto, Michels) si pongono in maniera fortemente critica e polemica. Muovendo dalla constatazione che in ogni contesto sociale ad esercitare il potere sono sempre gruppi ristretti, i teorici delle élite mostrano come la storia e il reale funzionamento delle istituzioni e della politica smentiscano di fatto la teoria liberale parlamentare, il principio di uguaglianza democratica e le dottrine socialiste.

Gaetano Mosca (1858-1941), con l’elaborazione della teoria della classe politica, è il primo a sostenere in maniera sistematica che ad essere protagonisti della storia e della politica sono sempre state le élite. La distinzione tra governanti e governati costituisce una struttura della politica. La dinamica storica consiste per Mosca essenzialmente nelle lotte combattute tra le diverse classi politiche per assicurarsi maggior potere.

Nella Teorica dei governi e governo parlamentare (1883) si sottolinea come ogni governo consista in una minoranza organizzata (la classe politica) che si impone su una maggioranza divisa e disorganizzata. Mosca distingue inoltre la classe politica in senso stretto (ossia l’insieme di quelle persone che svolgono funzioni propriamente politiche) dalla più ampia classe dirigente che raccoglie coloro che ricoprono ruoli dominanti nei diversi ambiti della società.

Il fatto che ogni corpo politico sia governato da ristrette minoranze organizzate costituisce il punto di partenza per una critica radicale alle tradizionali classificazioni delle forme di governo. Le principali classificazioni tradizionali, quella di matrice aristotelica (monarchia, aristocrazia, democrazia) e quella elaborata di Montesquieu (monarchia, repubblica, dispotismo), vengono a cadere sotto le critiche di Mosca. Le classiche forme di governo non sono semplicemente il risultato di classificazioni false o mistificatorie ma rappresentano la maschera legale dietro la quale si cela il fatto che un piccolo gruppo di persone esercita effettivamente il potere.

Mosca è consapevole del fatto non sia possibile esercitare il potere politico solo mediante metodi coercitivi ma siano necessarie forme di consenso da parte dei governati. Con la teoria della formula politica Mosca intende individuare quelli che a suo avviso sono i principi astratti che consentono ai governanti di giustificare il proprio potere, in accordo con le convinzioni più diffuse nella società. Le ‘formule politiche’ non costituiscono semplici mistificazioni, ma rispondono all’esigenza umana di giustificare la propria obbedienza richiamandosi a norme generali.

Mosca riconduce la molteplicità di formule politiche a due principi: uno soprannaturale e uno (apparentemente) razionale. Democrazia è per Mosca solo una delle formule politiche razionali con cui determinate élite giustificano il proprio potere. Il principio della sovranità popolare è contraddetto nei fatti dalla natura oligarchica di ogni governo.

Al di sopra delle molteplici formule politiche, per Mosca c’è sempre il potere di un’élite. Anche quando i ceti popolari credono di esercitare il potere sono sempre minoranze organizzate ad essere in gioco (partiti popolari o socialisti). Queste, lungi dall’essere promotrici di emancipazione, sono le effettive detentrici del potere. >>

LORENZO MESINI

(continua)

martedì 21 ottobre 2025

I Percorsi della Violenza

Il post di oggi è dedicato a Randall Collins, un sociologo americano specializzato nell'analisi della violenza umana. Tra le sue opere più importanti tradotte in italiano, possiamo citare “Violenza – una analisi sociologica”.
Secondo Collins il conflitto è socialmente inevitabile a causa della distribuzione ineguale del potere, e distingue tre ambiti principali di questa disparita: il mondo del lavoro (in cui la società si divide in classi); i ceti sociali (in cui le persone si dividono per età, sesso, appartenenza etnica, livello culturale) e l'arena politica (in cui i partiti e i movimenti si contendono il potere istituzionale).
Per fortuna, sostiene Collins, gli uomini non sono naturalmente violenti, pronti ad aggredirsi al minimo pretesto. Questa idea è un “mito” alimentato dal cinema, dalla televisione e dai romanzi.
In realtà l’uomo subisce una grande tensione emotiva tutte le volte che è in procinto di aggredire o di essere aggredito e quindi, affinché la violenza si verifichi in modo effettivo e (potenzialmente) letale, devono verificarsi alcuni particolari presupposti.
Il testo che segue è stato tratto dal web, con l'aiuto di Copilot.
LUMEN


<< La violenza è spesso percepita come un’espressione primitiva dell’essere umano, una pulsione che emerge in condizioni di stress, rabbia o conflitto. Tuttavia, il sociologo americano Randall Collins ci invita a ribaltare questa visione. Nella sua analisi microsociologica, la violenza non è affatto spontanea: è rara, difficile da attuare e, nella maggior parte dei casi, inefficace.

Collins sostiene che gli esseri umani non sono naturalmente portati alla violenza, ma che essa si manifesta solo quando si creano condizioni specifiche che permettono di superare una forte barriera emotiva.

Questa barriera, che potremmo definire come una sorta di “tensione da confronto”, è ciò che impedisce alla maggior parte delle persone di agire violentemente, anche quando provocate. La paura, l’ansia, l’incertezza e il senso di colpa sono emozioni che bloccano l’aggressione diretta.

Per questo motivo, la violenza fisica è spesso goffa, esitante, e si risolve in gesti maldestri o in minacce verbali. Solo in alcune situazioni — quando l’ambiente, il contesto sociale o la dinamica interpersonale lo permettono — la violenza diventa “competente”, cioè efficace e portata a termine.

Uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Collins è la sua attenzione agli schemi situazionali che facilitano la violenza. Tra questi, spicca il cosiddetto “effetto cecchino”, una dinamica in cui l’aggressore si concentra esclusivamente sull’aspetto tecnico dell’azione: la mira, la postura, il respiro, la gestione dell’arma.

In questo stato, la vittima non è più percepita come un essere umano, ma come un bersaglio astratto. L’atto violento si trasforma in un esercizio di precisione, una performance tecnica che distacca l’aggressore dalle conseguenze morali del suo gesto. È una forma estrema di deumanizzazione, favorita da contesti militari, paramilitari o tecnologici.

La guerra moderna offre numerosi esempi di questo schema. L’uso di droni, missili teleguidati e bombardamenti a distanza permette di colpire senza vedere direttamente la vittima. La distanza fisica diventa distanza emotiva: non c’è contatto visivo, non c’è interazione, non c’è riconoscimento dell’altro.

Collins sottolinea che durante la Seconda Guerra Mondiale, solo una minoranza dei soldati americani sparava con l’intento reale di uccidere. La vicinanza al nemico rendeva l’atto troppo carico di tensione. La violenza, per essere attuata, ha bisogno di essere “raffreddata”.

Ma non è solo la distanza a facilitare l’aggressione. Collins identifica altri schemi che riducono la barriera emotiva. Uno di questi è l’attacco ai più deboli: quando l’aggressore percepisce un vantaggio netto, il rischio di resistenza o ritorsione si abbassa, e la violenza diventa più probabile. È il caso del bullismo, della violenza domestica, delle aggressioni a persone isolate. In questi contesti, l’asimmetria di potere crea le condizioni favorevoli all’azione violenta.

Un altro schema è la ritualizzazione della violenza. In alcune situazioni — come le risse tra tifosi, i duelli tra adolescenti o le sfide tra bande — l’aggressione segue un copione, un codice non scritto che legittima l’atto. La presenza del pubblico, l’attesa dello scontro, la pressione sociale contribuiscono a creare un clima in cui la violenza è non solo accettata, ma attesa. Collins parla di “duelli ritualizzati”, dove l’interazione violenta è quasi teatrale, e dove l’obiettivo non è tanto ferire, quanto affermare il proprio status.

Anche l’inganno gioca un ruolo cruciale. L’aggressione a sorpresa, l’imboscata, il tradimento permettono di evitare il confronto diretto. L’aggressore colpisce quando la vittima è impreparata, riducendo la tensione emotiva e aumentando l’efficacia dell’azione. È una strategia che si ritrova tanto nei conflitti armati quanto nelle dinamiche interpersonali.

Infine, Collins analizza il ruolo della desensibilizzazione. Attraverso l’addestramento militare, la propaganda, i videogiochi violenti o il linguaggio tecnico, l’individuo viene “allenato” a ignorare l’impatto emotivo della violenza. Frasi come “neutralizzare il bersaglio” o “eliminare la minaccia” sostituiscono il riconoscimento della sofferenza altrui. La violenza diventa routine, procedura, operazione.

In sintesi, Randall Collins ci offre una visione radicalmente nuova della violenza: non come impulso, ma come interazione sociale complessa, condizionata da fattori ambientali, psicologici e culturali.

La sua analisi ci costringe a ripensare il modo in cui interpretiamo il conflitto, l’aggressività e persino la guerra. In un mondo in cui la violenza è sempre più mediata da tecnologie, rituali e narrazioni, comprendere questi meccanismi diventa essenziale per decostruirli e, forse, per disinnescarli. >>

Dal WEB

giovedì 16 ottobre 2025

Il Femminismo Moderno

I limiti concettuali del femminismo moderno, così come si è evoluto nel tempo, analizzati dalla penna corrosiva di Uriel Fanelli (dal suo Blog - LINK).
LUMEN


<< Quando si parla del problema del “femminismo” di solito si commette l’errore di confondere almeno tre periodi del femminismo stesso. E come capita per ogni cosa, se andiamo a fondo scopriamo che anche all’interno di queste tre ondate troviamo differenze molto forti: sono differenze nel tipo di militanza, nel modo in cui la militanza si manifesta, e nelle istanze politiche che raccolgono il consenso verso questo argomento.

Quindi, voglio chiarire che il discorso si applica all’ultima ondata di femminismo, per come sta avvenendo in “occidente”, con le massime punte negli USA, i cui avvenimenti politici si riflettono inevitabilmente sul resto del mondo “occidentale”. (…)

Il mondo del femminismo moderno commette il catastrofico errore logico di confondere le condizioni sufficienti con quelle necessarie, quando parla del “Patriarcato” , ovvero del “privilegio maschile”.

Le femministe non fanno altro che notare un fatto: la stragrande maggioranza dei ricchi e potenti e’ di sesso maschile. Fin qui tutto bene. Da qui deducono che siccome i privilegiati sono maschi, allora tutti i maschi sono privilegiati.

Questa cosa non ha senso: se esaminiamo il numero di morti sul lavoro, scopriamo che il 97% dei morti sul lavoro sono maschi. Se esaminiamo i morti nelle scorse due guerre mondiali, scopriamo che se contiamo solo i soldati il 98% dei morti erano maschi, e solo includendo i civili scendiamo ad un misero 86%. Ora, questa affermazione dovrebbe contenere qualche sospetto in se’.

L’errore evidente e’ questo: il fatto che tutti i privilegiati siano maschi non implica che tutti i maschi siano privilegiati. (…) Si tratta di un errore catastrofico, perche’ le femministe di ultima ondata continuano a dire che “un genere opprime l’altro” partendo dall’assunto che tutti i maschi sono privilegiati.

Ma se sapessero usare la logica e distinguessero condizioni necessarie da condizioni sufficienti, la conclusione sarebbe diversa: “Esiste una elite di maschi la quale opprime, senza distinzioni, sia quasi tutte le donne che la stragrande maggioranza degli uomini”.

Questo e’ piu’ coerente con la nostra esperienza, per esempio quando contiamo i morti sul lavoro, o i morti in guerra. E’ difficile pensare che una classe di privilegiati vada volontariamente a morire: se tutti i maschi fossero privilegiati, a fare i lavori pericolosi ci andrebbero le donne.

Questa prima catastrofe logica e’ la ragione per la quale il femminismo non riesce ad ottenere quello che vuole. Alla classe dominante non basta fare altro che aizzare i rimanenti maschi contro le donne, e il potere delle femministe e’ facilmente bilanciato.

Questo errore, il confondere le condizioni sufficienti con quelle necessarie, e’ estremamente comune nella loro dialettica: quando dicono che tutti gli stupratori sono maschi in genere le femministe chiudono il discorso dicendo che “dunque ogni maschio e’ uno strupratore”, e cosi’ via. (…)

Un altro catastrofico errore che fanno le femministe odierne e’ quello di affidarsi all’intersezionismo come teoria che spiega le discriminazioni. L’intersezionismo dice che se siete, che so, lesbiche sarete vittima di pregiudizi perche’ siete lesbiche, mentre se siete neri sarete vittime di pregiudizi per il colore della pelle, quindi se siete lesbiche e nere allora possiamo calcolare il pregiudizio come combinazione lineare dei due.

Il problema di questa teoria e’ che, come tutta la sociologia anglosassone, non somiglia per nulla alla realta’. Se abbiamo una teoria , essa non deve spiegare solo quello che succede negli USA (a meno che non sia un modello della societa’ americana), ma deve spiegare quello che succede ovunque e in qualsiasi epoca. (…)

Se esistono piu’ condizioni per venire discriminati, si viene discriminati per la piu’ evidente. Esiste sicuramente una scelta da parte di chi perseguita su quale condizione usare, ma la somma descritta dagli intersezionisti e’ del tutto priva di riscontri nella realta’. Non abbiamo visto , sinora, xenofobi infuriati con gli immigrati perche’ omosessuali: la ragione e’ il colore della pelle. (…)

La conseguenza di questo errore e’ quella di costringere le persone a cospargersi di etichette. Ma tutto questo in realta’ non funziona per una ragione: il problema non sta nei motivi per i quali si viene discriminati. Il problema e’ che si viene discriminati. (...)

Se si intende partire dall’idea che tutti siano uguali sul piano dei diritti, allora tutte queste etichette sono inutili perche’ ci dicono soltanto quante possibili discriminazioni possono avvenire, ma non ci aiutano ad eliminarle: al massimo ci aiutano solo a contarle.

Se invece partiamo dall’idea che l’uguaglianza dei diritti sia l‘obiettivo ai fini pratici, allora tutte queste etichette non fanno altro che complicare la prassi, in quanto combattere la “discriminazione” come concetto non ha piu’ senso: occorrera’ combattere milioni e milioni di possibili discriminazioni. Un lavoro infinito. (…)

L’ultimo errore e’ quello di non affrontare bene il problema del potere. Il problema dell’ultimo movimento femminista e’ che si limita ad osservare la percentuale di donne che siedono in posizioni di potere per giudicare quanto “giusta” sia una societa’.

Questo approccio e’ catastrofico per diversi motivi. Il primo e’ che le posizioni di potere e di privilegio sono poche. Questo significa che e’ possibile pensare ad un sistema nel quale il 5% delle donne occupa TUTTI i posti di potere, e il 95% sono oppresse dal primo 5%. Esattamente come ora un 5% di maschi privilegiati opprime, oltre alle donne, anche il 95% di maschi rimanenti.

Il secondo motivo per cui e’ catastrofico e’ che dimentica un fattore: la felicita’, o se preferite il benessere. Se io vado a giudicare in quale paese le donne stiano meglio contando in quali paesi esse vivano in posizioni di potere, ovviamente otterro’ come risultato i soliti paesi scandinavi. Ma se andiamo a misurare in quale paese le donne si dicono felici, per esempio, il risultato cambia di molto, e troviami ai primi posti dei paesi che sono “sorprendenti”.

Il nodo del “potere” e’ il motivo per il quale nel paese piu’ “femminista” del mondo solo l’ 8% delle donne si dice femminista: poiche’ si tratta di donne che non ambiscono a posizioni di potere, non appoggiano delle istanze politiche che chiedono piu’ potere , come posti di responsabilita’ o altro.

C’e’ infine il punto segregazionista che e’ ancora peggiore. Il segregazionismo e’ quel fenomeno per il quale se io dico che un club non accetta donne perche’ facciamo “cose da uomini” vengo accusato di maschilismo, ma e’ possibile creare un club di donne che non ammette uomini perche’ “sono cose da donne”. (...)

La cosa che queste persone non capiscono e’ che, nel momento in cui hai creato un club ove non possono entrare gli uomini, hai anche creato un club di soli uomini: [ovvero] quello di coloro che non possono entrare nel tuo club per definizione.

Tutte queste catastrofi logiche non fanno altro che convincere le persone che questo “patriarcato” di cui parlano avra’ molto difetti, ma almeno e’ razionale. (…) E se oggi, nel paese di maggiore successo [gli USA - NdL], solo l’8% delle donne si dice femminista, esiste un problema di consenso, cioe’ un problema politico. >>

URIEL FANELLI

sabato 11 ottobre 2025

Pensierini - XCI

SOCIOLOGIA
La sociologia, pur essendo tecnicamente una scienza, ed avendo una storia ormai secolare, è ancora poco strutturata, con tanti diversi autori in ordine sparso. In particolare:
= La sociologia non ha un paradigma unico come la fisica o la biologia. Esistono paradigmi concorrenti: funzionalismo, conflittualismo, interazionismo simbolico, teoria critica, ecc., ma ognuno vale per sé.
= Ogni autore tende a privilegiare un livello diverso di analisi: macro (società), meso (gruppi), micro (individui), senza integrarli tra loro.
Questo è un limite molto serio, per una scienza, ma io credo che, a ben vedere, un 'testo base' di riferimento lo si potrebbe anche trovare.
La sociologia, infatti, studia il funzionamento della società, ma studia anche, necessariamente, il comportamento degli uomini che la compongono.
Ora alla base del comportamento umano ci sono, innanzi tutto, le spinte e i condizionamenti genetici, descritti splendidamente Richard Dawkins nel suo fondamentale IL GENE EGOISTA. Quindi, perché non partire da lì anche per la sociologia ?
In effetti qualcuno ci ha già provato a unire biologia e sociologia: è stato Edward O. Wilson, con la sua Sociobiologia, nella quale ha cercato di spiegare il comportamento sociale in chiave evolutiva. Ma è stato criticato, tra le altre cose, per il rischio di giustificare le disuguaglianze come “naturali” e quindi non ha avuto il successo che meritava.
Ecco quindi trovato il muro invalicabile che blocca la sociologia come scienza: è troppo facilmente criticabile per motivi politici e ideologici che non hanno nulla a che fare con la ricerca della verità.
La Sociologia parla di noi stessi, dei nostri difetti, dei nostri limiti, e siccome ci spaventiamo di quello che vediamo, cerchiamo di guardare altrove. Un vero peccato.
LUMEN


GENETICA E CULTURA
Tutti sono più o meno concordi nel sostenere che il comportamento umano sia un misto di genetica e di cultura, magari con l'aggiunta di un po' di casualità.
Le discussioni incominciano, però, quando si tratta di stabilire la percentuale reciproca dei due elementi, perchè alcuni affermano la prevalenza della cultura, mentre altri sostengono la prevalenza della genetica.
Io, si parva licet, sono un seguace della seconda categoria, cioè del primato della genetica, e la mia posizione può essere ben rappresentato dal famoso detto secondo il quale "tutte le strade portano a Roma", in cui, parafrasando, le strade sono la cultura, mentre Roma è la genetica.
Le strade sono tante, perchè tante e diverse sono le culture umane, ma tutte vanno a Roma, perchè l'obiettivo finale, cioè la spinta genetica, è uguale per tutti.
LUMEN


CANDID CAMERA
Ho notato che nei film più recenti la camera di ripresa si muove moltissimo. Anche nelle scene 'statiche', dove gli attori sono sostanzialmente fermi, la camera non è ferma e fissa (perché montata su un supporto), ma leggermente in movimento come se fosse portata a mano o a spalla.
La cosa, purtroppo, è voluta ed uno dei motivi principali, oltre ad una discutibilissima scelta stilistica, sarebbe quella del realismo percettivo: il movimento leggermente instabile della camera, cioè, simulerebbe la percezione umana, rendendo la scena più “vera” e coinvolgente.
Ora, questo non è assolutamente vero, perchè il nostro sistema sensoriale (occhi, nervi e cervello) è capace di stabilizzare con molta efficienza anche le scene in movimento.
Il cervello, infatti, riesce a compensare i micro-movimenti della testa e degli occhi grazie a meccanismi come la stabilizzazione vestibolare e la percezione selettiva; e questo ci permette di avere una visione fluida anche mentre camminiamo o ci muoviamo.
Quindi, dire che la camera a mano “riproduce la visione umana” è più una giustificazione stilistica che una verità biologica.
In realtà, quello che molti percepiscono di fronte alle riprese in movimento (quorum ego) è semplicemente un fastidio cognitivo, cioè un elemento di disturbo che può distrarre o addirittura provocare nausea.
Per fortuna, a quanto ho letto, molti registi contemporanei stanno rivalutando l’uso della camera statica per motivi artistici e narrativi. Speriamo bene.
LUMEN


IL MONDO DI MONTALBANO
Perchè il commissario Montalbano, il personaggio creato da Andrea Camilleri, ha avuto così tanto  successo, non solo a livello televisivo, ma anche letterario ?
Perchè il suo mondo è una sorta di commedia dell’arte all’italiana, con i personaggi fissi e ripetitivi che fungono da maschere eterne e che il lettore riconosce subito.
L'agente Catarella è un personaggio assurdo (è impossibile che un pubblico ufficiale, anche se di modesto livello, sia sgrammaticato in quella maniera), ma piace perchè fa sentire lo spettatore superiore, e questo meccanismo funziona sempre.
La fidanzata lontana è un personaggio altamente improbabile, ma serve per le litigate.
Il vice Augello, eterno dongiovanni, serve per le scenette piccanti con le donne giovani e piacenti.
Le quali donne in Montalbano sono solo di due categorie: o ninfomani assatanate (da letto) o domestiche scrupolose (per cucinare e pulire la casa). Evidentemente Camilleri aveva una opinione molto limitata dell’altro sesso, perchè mancano totalmente le sfumature.
Alla fine però devo ammettere che la lettura risulta piacevole, perchè i dialoghi sono eccezionali, il ritmo eccellente e i colpi di scena non mancano (anche se le trame gialle sono modeste).
LUMEN

lunedì 6 ottobre 2025

Bandiere per Gaza

A parziale completamento del post precedente, pubblico le considerazioni, molto profonde, di Jacopo Ascenzio sulla solidarietà occidentale al popolo palestinese.
Il testo è tratto dalla pagina Facebook “Termometro Geopolitico”.
LUMEN


<< Le recenti mobilitazioni di piazza, innescate dall'intercettazione della Global South Flottiglia da parte di Israele e più in generale dalla tragedia di Gaza, hanno acceso un vivace dibattito sul ruolo delle giovani generazioni e delle società occidentali nella difesa dei valori universali.

In Italia come in altre capitali europee, migliaia di persone — soprattutto giovani, ma non solo — sono scese in strada per invocare il rispetto del diritto internazionale, la pace e un'empatia solidale verso le vittime civili.

Le interpretazioni dominanti oscillano tra due estremi: da un lato, un'esaltazione idealistica che ritrae queste proteste come un'onda irrefrenabile di vicinanza autentica, con popolazioni pronte a tutto per i gazawi, mosse da un legame empatico profondo e incondizionato; dall'altro, una riduzione cinica che le banalizza come mera strumentalizzazione politica, orchestrata da agende occulte o interessi partitici.

Tuttavia, entrambe queste visioni appaiono parziali e fuorvianti, poiché oscurano la radice più profonda del fenomeno: una crisi interna alle società occidentali, dove la mobilitazione per Gaza funge da specchio di un vuoto valoriale e politico endemico.

A ben esaminare, infatti, l'adesione massiccia attorno alla questione palestinese non può essere ascritta unicamente a un'empatia spontanea verso le vittime di Gaza, non perché tale sentimento manchi, ma perché la distanza culturale, geografica e storica che separa i popoli occidentali dai palestinesi è talmente vasta da rendere improbabile che esso costituisca il propulsore esclusivo di piazze tanto affollate.

L'indignazione morale, per quanto genuina, si rivela insufficiente a galvanizzare folle in assenza di un legame di prossimità tangibile, capace di intrecciare il destino altrui al proprio.

Qui si affaccia un discrimine essenziale: nella storia dell'Occidente, le lotte autenticamente incisive non sono mai scaturite da un'astratta solidarietà verso popoli remoti, bensì da urgenze immediate e dalla determinazione a rivoluzionare la propria esistenza.

I grandi movimenti del Novecento — dalle rivendicazioni operaie alle insurrezioni studentesche — traevano linfa dall'esperienza quotidiana, incarnando battaglie per la giustizia che, pur universali nei principi, erano innanzitutto per sé stessi, per la propria comunità, per una metamorfosi concreta della società circostante.

Le odierne manifestazioni, al contrario, si accendono attorno a cause distanti, elevando la solidarietà a principio etereo e disincarnato: non è fortuito che le strade si colmino per Gaza, ma restino silenti di fronte a questioni interne più immediate, come se l'energia politica, priva di sbocchi concreti nella sfera nazionale o locale, defluisse verso un "altrove" emblematico.

Tale dinamica svela che l'epicentro delle mobilitazioni non risiede tanto nella tragedia palestinese quanto in un malessere strutturale delle società occidentali, afflitte da decenni da una condizione piatta e impoverita di valori concreti, mentre quelli astratti proliferano in un'abbondanza sterile.

L'Occidente ha smarrito la capacità di lottare per sé stesso e per la propria società, incapace di concepire alternative al presente, di immaginare un orizzonte diverso dal paradigma dominante.

Assente è il vero scontro sistemico interno, sostituito da controversie superficiali e astratte che sfiorano appena le fondamenta del potere e dell'ingiustizia; questa carenza genera una proiezione inevitabile, dove lo scontro e la lotta vengono esternalizzati, riversati su conflitti remoti che fungono da surrogato per un impegno negato nel proprio contesto.

Con il tramonto delle grandi narrazioni ideologiche, la politica si è contraffatta in mera amministrazione tecnica, in una burocrazia dell'esistente che ha prosciugato i canali di partecipazione autentica, lasciando le persone orfane di un bisogno profondo di ideali, valori e visioni trasformatrici, un bisogno che, non trovando appiglio nella realtà nazionale, si sublima in cause lontane.

Gaza, in questo senso, emerge come un catalizzatore simbolico, un pretesto per ravvivare, seppur fugacemente, il senso di appartenenza a una causa più ampia. Non intendo con ciò auspicare un ritorno dello scontro interno all'Occidente, bensì offrire un'interpretazione della realtà attuale, ricostruendo le cause di questo fenomeno per comprenderne la natura profonda.

Tuttavia, proprio in virtù di questa genesi deficitaria — radicata in un vuoto interno e nutrita da stimoli esterni —, tali mobilitazioni sono destinate a non produrre mutamenti politici profondi. Possono, certo, modellare il discorso pubblico, intensificare le pressioni sull'opinione dominante e inquietare i vertici del potere; ma difficilmente sfoceranno in un programma di rinnovamento sociale o strutturale, mancando di ancoraggio nell'esperienza quotidiana e nella volontà di alterare la propria condizione.

Peggio ancora, poiché non si potrà mai combattere per altri — lontani e sostanzialmente ignoti — con la stessa tenacia con cui si difende il proprio destino, questa lotta occidentale per Gaza è condannata a un progressivo affievolimento: anestetizzata dal trascorrere del tempo e da "toppe" temporanee come concessioni diplomatiche o narrazioni mediatiche attenuanti, svanirà senza lasciare traccia duratura, lasciando intatto il vuoto che l'ha generata.

In ultima analisi, l'Occidente ha abdicato alla facoltà di battersi per il proprio rinnovamento: svanita è l'idea di una società alternativa, di un'emancipazione collettiva, di una rivoluzione radicale; l'orizzonte di un mondo altro appare sigillato.

Eppure, l'essere umano serba un'esigenza irriducibile di valori, ideali e aspirazioni elevate, ed è proprio questa fame repressa a gonfiare le piazze, non Gaza in sé.

La catastrofe palestinese si trasfigura così in una valvola di sfogo per un'assenza cronica: quella, nelle società occidentali, di lotte autentiche per la propria condizione, sostituite da proiezioni effimere che mascherano, senza sanare, il deserto interiore. >>

JACOPO ASCENZIO

mercoledì 1 ottobre 2025

Appunti di Geo-Politica - (6)

GOTT MIT UNS
Questa faccenda che “Dio è dalla nostra parte” è vecchia come il mondo, ed è resa un po’ ridicola dal fatto che lo dicono in molti, ognuno con un Dio diverso, da diverse angolazioni, con obiettivi molto differenti, per cui i casi sono due: o Dio ha svariati conflitti d’interessi, oppure c’è troppa gente che lo tira per la giacchetta allo scopo di legittimare le proprie porcate.
La cerimonia di Phoenix in onore del defunto Charlie Kirk [assassinato durante un comizio] ci ha mostrato una sfumatura colossal della faccenda. (...)
La sensazione, vagamente straniante, era quella di trovarsi di fronte a un’adunata di estremisti religiosi un po’ invasati, senza turbanti o donne velate, ma con la guerra santa, quella sì. (...)
Si tratta di politica, ovvio, di una destra all’arrembaggio, di una manovra mediatica per eliminare ogni voce dissidente, di un’offensiva reazionaria a cui Dio dovrebbe fornire adeguata copertura.
Ma si tratta anche (...) di una voragine antropologica, come se la deriva dei continenti non fosse per niente in pausa, anzi, eccoli allontanarsi sempre di più.
Viene da chiedersi cosa diavolo abbiamo in comune – noi europei, magari addirittura laici – con un estremista creazionista texano armato fino ai denti, disposto a giurare che Dio lavora a tempo pieno per gli Stati Uniti.
Non molto, direi, non più che con un ayatollah iraniano o con un estremista indù.
ALESSANDRO ROBECCHI (dal suo sito)


STATO VIRTUALE
Ogni Stato deve avere un territorio e quello palestinese non ce l’ha.
Ce l’aveva nel 1947, quando l’Onu spartì l’area dal fiume al mare (28 mila kmq, pari a Piemonte e Val d’Aosta) in due Stati: il 56% a Israele (più ampio perché il 40% era il deserto del Negev), il 44 alla Palestina, Gerusalemme sotto l’Onu.
Ma nacque solo lo Stato ebraico: la leadership palestinese e i regimi arabi preferirono la guerra per distruggere Israele anziché edificare la Palestina.
Nel 1948 Cisgiordania e Gaza furono occupate da Giordania ed Egitto, mentre Israele prese tutta la Galilea e Gerusalemme Ovest.
Nel 1967 Israele vinse la guerra dei Sei Giorni e occupò Cisgiordania, Gerusalemme Est, Sinai e Gaza.
Nel 1973 Israele respinse l’ennesimo assalto arabo e nel ’78 fece pace con l’Egitto, che riebbe il Sinai, ma non rivolle Gaza. La Striscia restò occupata fino al 2005, quando Sharon ritirò truppe e coloni.
La Cisgiordania dal 1995 è divisa in tre zone: la A (il 18%) è amministrata dall’ANP, la B (il 22%) da Israele e ANP, la C (il 60%) da Israele.
La soluzione doveva essere temporanea, con un progressivo passaggio di consegne all’ANP. A cui nel 2008 Olmert [primo ministro di Israele] offrì più territori di quelli occupati nel ’67 e Gerusalemme Est capitale (6.260 kmq), ma Abu Mazen non firmò.
Poi arrivò Netanyahu. Che fermò il percorso di Oslo e poi lo annientò.
Ora la Striscia è rasa al suolo e il 42% della Cisgiordania è occupato da colonie ebraiche vecchie e nuove (+180% dal 2020). Avete mai visto uno Stato senza terra?
MARCO TRAVAGLIO (da Il Fatto Quotidiano)


UCRAINA DIVISA
L’Ucraina non è uno Stato etnicamente unitario, oggi non lo è più nemmeno geograficamente data la situazione cogente.
Il concetto sembra stia cominciando a passare anche in qualche scritto di analisti prestigiosi, che finalmente si sono decisi a scrivere quello che era già noto da decenni a chi si occupava della questione ucraina. (…)
Si parla di “Ucraine” quindi, al plurale, ammettendo che ne esiste più di una e non solo perché un pezzo dell’ex Ucraina è oggi occupata dai russi ma perché storicamente è così.
A chi privo di pregiudizi affrontava il problema etnico e linguistico dell’Ucraina in anni non sospetti, era evidente il profondo scollamento fra la parte est e la parte ovest del Paese.
Molti prevedevano che prima o poi i due tronconi si sarebbero separati. Certo si sperava che lo si facesse per via diplomatica e politica e non con una azione militare ma tant’è.
LUCIO CARACCIOLO  (da Limes/Apocalottimismo)


DENARO GLOBALE
Il denaro moderno viene creato come debito, immesso in circolazione quando le banche erogano prestiti. E il debito non è solo un contratto finanziario.
È una scommessa su un surplus futuro. Ogni dollaro preso in prestito oggi presuppone che domani si produrranno più beni, più energia, più capacità di rimborso, con interessi.
Ma se non fosse possibile? Abbiamo accumulato debiti finanziari su un mondo reale che non cresce altrettanto rapidamente. (…)
A livello globale [mondiale], il debito dichiarato ammonta a 345 trilioni di dollari, ma, se si considerano le passività fuori bilancio, il sistema bancario ombra e la leva finanziaria, la cifra probabilmente si avvicina ai 600 trilioni di dollari. Nel frattempo, il valore della valuta fisica statunitense è di soli 2.3 trilioni di dollari. (...)
Da una prospettiva biofisica, questi non sono solo numeri. Sono promesse di fornire beni e servizi reali in futuro: energia, manodopera, materiali.
Se questi input non si concretizzano, le promesse non saranno mantenute. Il sistema allora si adatterà attraverso l’inflazione, il default, la ristrutturazione o il collasso.
Lyn Alden ci ricorda che il debito si basa sulla fiducia, non solo tra individui, ma anche tra sistemi giuridici, istituzioni e contesti geopolitici. Tale struttura è ora visibilmente compromessa.
ART BERMAN (da Apocalottimismo)