lunedì 6 ottobre 2025

Bandiere per Gaza

A parziale completamento del post precedente, pubblico le considerazioni, molto profonde, di Jacopo Ascenzio sulla solidarietà occidentale al popolo palestinese.
Il testo è tratto dalla pagina Facebook “Termometro Geopolitico”.
LUMEN


<< Le recenti mobilitazioni di piazza, innescate dall'intercettazione della Global South Flottiglia da parte di Israele e più in generale dalla tragedia di Gaza, hanno acceso un vivace dibattito sul ruolo delle giovani generazioni e delle società occidentali nella difesa dei valori universali.

In Italia come in altre capitali europee, migliaia di persone — soprattutto giovani, ma non solo — sono scese in strada per invocare il rispetto del diritto internazionale, la pace e un'empatia solidale verso le vittime civili.

Le interpretazioni dominanti oscillano tra due estremi: da un lato, un'esaltazione idealistica che ritrae queste proteste come un'onda irrefrenabile di vicinanza autentica, con popolazioni pronte a tutto per i gazawi, mosse da un legame empatico profondo e incondizionato; dall'altro, una riduzione cinica che le banalizza come mera strumentalizzazione politica, orchestrata da agende occulte o interessi partitici.

Tuttavia, entrambe queste visioni appaiono parziali e fuorvianti, poiché oscurano la radice più profonda del fenomeno: una crisi interna alle società occidentali, dove la mobilitazione per Gaza funge da specchio di un vuoto valoriale e politico endemico.

A ben esaminare, infatti, l'adesione massiccia attorno alla questione palestinese non può essere ascritta unicamente a un'empatia spontanea verso le vittime di Gaza, non perché tale sentimento manchi, ma perché la distanza culturale, geografica e storica che separa i popoli occidentali dai palestinesi è talmente vasta da rendere improbabile che esso costituisca il propulsore esclusivo di piazze tanto affollate.

L'indignazione morale, per quanto genuina, si rivela insufficiente a galvanizzare folle in assenza di un legame di prossimità tangibile, capace di intrecciare il destino altrui al proprio.

Qui si affaccia un discrimine essenziale: nella storia dell'Occidente, le lotte autenticamente incisive non sono mai scaturite da un'astratta solidarietà verso popoli remoti, bensì da urgenze immediate e dalla determinazione a rivoluzionare la propria esistenza.

I grandi movimenti del Novecento — dalle rivendicazioni operaie alle insurrezioni studentesche — traevano linfa dall'esperienza quotidiana, incarnando battaglie per la giustizia che, pur universali nei principi, erano innanzitutto per sé stessi, per la propria comunità, per una metamorfosi concreta della società circostante.

Le odierne manifestazioni, al contrario, si accendono attorno a cause distanti, elevando la solidarietà a principio etereo e disincarnato: non è fortuito che le strade si colmino per Gaza, ma restino silenti di fronte a questioni interne più immediate, come se l'energia politica, priva di sbocchi concreti nella sfera nazionale o locale, defluisse verso un "altrove" emblematico.

Tale dinamica svela che l'epicentro delle mobilitazioni non risiede tanto nella tragedia palestinese quanto in un malessere strutturale delle società occidentali, afflitte da decenni da una condizione piatta e impoverita di valori concreti, mentre quelli astratti proliferano in un'abbondanza sterile.

L'Occidente ha smarrito la capacità di lottare per sé stesso e per la propria società, incapace di concepire alternative al presente, di immaginare un orizzonte diverso dal paradigma dominante.

Assente è il vero scontro sistemico interno, sostituito da controversie superficiali e astratte che sfiorano appena le fondamenta del potere e dell'ingiustizia; questa carenza genera una proiezione inevitabile, dove lo scontro e la lotta vengono esternalizzati, riversati su conflitti remoti che fungono da surrogato per un impegno negato nel proprio contesto.

Con il tramonto delle grandi narrazioni ideologiche, la politica si è contraffatta in mera amministrazione tecnica, in una burocrazia dell'esistente che ha prosciugato i canali di partecipazione autentica, lasciando le persone orfane di un bisogno profondo di ideali, valori e visioni trasformatrici, un bisogno che, non trovando appiglio nella realtà nazionale, si sublima in cause lontane.

Gaza, in questo senso, emerge come un catalizzatore simbolico, un pretesto per ravvivare, seppur fugacemente, il senso di appartenenza a una causa più ampia. Non intendo con ciò auspicare un ritorno dello scontro interno all'Occidente, bensì offrire un'interpretazione della realtà attuale, ricostruendo le cause di questo fenomeno per comprenderne la natura profonda.

Tuttavia, proprio in virtù di questa genesi deficitaria — radicata in un vuoto interno e nutrita da stimoli esterni —, tali mobilitazioni sono destinate a non produrre mutamenti politici profondi. Possono, certo, modellare il discorso pubblico, intensificare le pressioni sull'opinione dominante e inquietare i vertici del potere; ma difficilmente sfoceranno in un programma di rinnovamento sociale o strutturale, mancando di ancoraggio nell'esperienza quotidiana e nella volontà di alterare la propria condizione.

Peggio ancora, poiché non si potrà mai combattere per altri — lontani e sostanzialmente ignoti — con la stessa tenacia con cui si difende il proprio destino, questa lotta occidentale per Gaza è condannata a un progressivo affievolimento: anestetizzata dal trascorrere del tempo e da "toppe" temporanee come concessioni diplomatiche o narrazioni mediatiche attenuanti, svanirà senza lasciare traccia duratura, lasciando intatto il vuoto che l'ha generata.

In ultima analisi, l'Occidente ha abdicato alla facoltà di battersi per il proprio rinnovamento: svanita è l'idea di una società alternativa, di un'emancipazione collettiva, di una rivoluzione radicale; l'orizzonte di un mondo altro appare sigillato.

Eppure, l'essere umano serba un'esigenza irriducibile di valori, ideali e aspirazioni elevate, ed è proprio questa fame repressa a gonfiare le piazze, non Gaza in sé.

La catastrofe palestinese si trasfigura così in una valvola di sfogo per un'assenza cronica: quella, nelle società occidentali, di lotte autentiche per la propria condizione, sostituite da proiezioni effimere che mascherano, senza sanare, il deserto interiore. >>

JACOPO ASCENZIO

mercoledì 1 ottobre 2025

Appunti di Geo-Politica - (6)

GOTT MIT UNS
Questa faccenda che “Dio è dalla nostra parte” è vecchia come il mondo, ed è resa un po’ ridicola dal fatto che lo dicono in molti, ognuno con un Dio diverso, da diverse angolazioni, con obiettivi molto differenti, per cui i casi sono due: o Dio ha svariati conflitti d’interessi, oppure c’è troppa gente che lo tira per la giacchetta allo scopo di legittimare le proprie porcate.
La cerimonia di Phoenix in onore del defunto Charlie Kirk [assassinato durante un comizio] ci ha mostrato una sfumatura colossal della faccenda. (...)
La sensazione, vagamente straniante, era quella di trovarsi di fronte a un’adunata di estremisti religiosi un po’ invasati, senza turbanti o donne velate, ma con la guerra santa, quella sì. (...)
Si tratta di politica, ovvio, di una destra all’arrembaggio, di una manovra mediatica per eliminare ogni voce dissidente, di un’offensiva reazionaria a cui Dio dovrebbe fornire adeguata copertura.
Ma si tratta anche (...) di una voragine antropologica, come se la deriva dei continenti non fosse per niente in pausa, anzi, eccoli allontanarsi sempre di più.
Viene da chiedersi cosa diavolo abbiamo in comune – noi europei, magari addirittura laici – con un estremista creazionista texano armato fino ai denti, disposto a giurare che Dio lavora a tempo pieno per gli Stati Uniti.
Non molto, direi, non più che con un ayatollah iraniano o con un estremista indù.
ALESSANDRO ROBECCHI (dal suo sito)


STATO VIRTUALE
Ogni Stato deve avere un territorio e quello palestinese non ce l’ha.
Ce l’aveva nel 1947, quando l’Onu spartì l’area dal fiume al mare (28 mila kmq, pari a Piemonte e Val d’Aosta) in due Stati: il 56% a Israele (più ampio perché il 40% era il deserto del Negev), il 44 alla Palestina, Gerusalemme sotto l’Onu.
Ma nacque solo lo Stato ebraico: la leadership palestinese e i regimi arabi preferirono la guerra per distruggere Israele anziché edificare la Palestina.
Nel 1948 Cisgiordania e Gaza furono occupate da Giordania ed Egitto, mentre Israele prese tutta la Galilea e Gerusalemme Ovest.
Nel 1967 Israele vinse la guerra dei Sei Giorni e occupò Cisgiordania, Gerusalemme Est, Sinai e Gaza.
Nel 1973 Israele respinse l’ennesimo assalto arabo e nel ’78 fece pace con l’Egitto, che riebbe il Sinai, ma non rivolle Gaza. La Striscia restò occupata fino al 2005, quando Sharon ritirò truppe e coloni.
La Cisgiordania dal 1995 è divisa in tre zone: la A (il 18%) è amministrata dall’ANP, la B (il 22%) da Israele e ANP, la C (il 60%) da Israele.
La soluzione doveva essere temporanea, con un progressivo passaggio di consegne all’ANP. A cui nel 2008 Olmert [primo ministro di Israele] offrì più territori di quelli occupati nel ’67 e Gerusalemme Est capitale (6.260 kmq), ma Abu Mazen non firmò.
Poi arrivò Netanyahu. Che fermò il percorso di Oslo e poi lo annientò.
Ora la Striscia è rasa al suolo e il 42% della Cisgiordania è occupato da colonie ebraiche vecchie e nuove (+180% dal 2020). Avete mai visto uno Stato senza terra?
MARCO TRAVAGLIO (da Il Fatto Quotidiano)


UCRAINA DIVISA
L’Ucraina non è uno Stato etnicamente unitario, oggi non lo è più nemmeno geograficamente data la situazione cogente.
Il concetto sembra stia cominciando a passare anche in qualche scritto di analisti prestigiosi, che finalmente si sono decisi a scrivere quello che era già noto da decenni a chi si occupava della questione ucraina. (…)
Si parla di “Ucraine” quindi, al plurale, ammettendo che ne esiste più di una e non solo perché un pezzo dell’ex Ucraina è oggi occupata dai russi ma perché storicamente è così.
A chi privo di pregiudizi affrontava il problema etnico e linguistico dell’Ucraina in anni non sospetti, era evidente il profondo scollamento fra la parte est e la parte ovest del Paese.
Molti prevedevano che prima o poi i due tronconi si sarebbero separati. Certo si sperava che lo si facesse per via diplomatica e politica e non con una azione militare ma tant’è.
LUCIO CARACCIOLO  (da Limes/Apocalottimismo)


DENARO GLOBALE
Il denaro moderno viene creato come debito, immesso in circolazione quando le banche erogano prestiti. E il debito non è solo un contratto finanziario.
È una scommessa su un surplus futuro. Ogni dollaro preso in prestito oggi presuppone che domani si produrranno più beni, più energia, più capacità di rimborso, con interessi.
Ma se non fosse possibile? Abbiamo accumulato debiti finanziari su un mondo reale che non cresce altrettanto rapidamente. (…)
A livello globale [mondiale], il debito dichiarato ammonta a 345 trilioni di dollari, ma, se si considerano le passività fuori bilancio, il sistema bancario ombra e la leva finanziaria, la cifra probabilmente si avvicina ai 600 trilioni di dollari. Nel frattempo, il valore della valuta fisica statunitense è di soli 2.3 trilioni di dollari. (...)
Da una prospettiva biofisica, questi non sono solo numeri. Sono promesse di fornire beni e servizi reali in futuro: energia, manodopera, materiali.
Se questi input non si concretizzano, le promesse non saranno mantenute. Il sistema allora si adatterà attraverso l’inflazione, il default, la ristrutturazione o il collasso.
Lyn Alden ci ricorda che il debito si basa sulla fiducia, non solo tra individui, ma anche tra sistemi giuridici, istituzioni e contesti geopolitici. Tale struttura è ora visibilmente compromessa.
ART BERMAN (da Apocalottimismo)