C’era una volta, lontano nel tempo, il regno dell’ipse dixit. Le presunte “verità” erano poche, chiare, semplici e soprattutto, indiscutibili.
Ma le cose, pian piano, cambiarono e si finì per passare al relativismo, cioè a quello che potremmo definire un “nemo dixit”, con i suoi pro ed i suoi contro.
Una storia lunga e difficile, piena di dubbi e di ripensamenti, ma che potremmo definire, tutto sommato, a lieto fine.
Ce la racconta Alessandro Gilioli in questo breve, ma chiarissimo, excursus, tratto dal suo blog.
LUMEN
Ma le cose, pian piano, cambiarono e si finì per passare al relativismo, cioè a quello che potremmo definire un “nemo dixit”, con i suoi pro ed i suoi contro.
Una storia lunga e difficile, piena di dubbi e di ripensamenti, ma che potremmo definire, tutto sommato, a lieto fine.
Ce la racconta Alessandro Gilioli in questo breve, ma chiarissimo, excursus, tratto dal suo blog.
LUMEN
<< Per un paio di millenni o quasi, nessuno in Europa aveva dubbi sulla fonte oggettiva di ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. La fonte che stabiliva giusto e ingiusto era Dio. Qualcosa di ontologico, appunto: in sé e per sé, oltre l'opinabile umano. Le leggi di cui le società si dotavano derivavano da una fonte etica e valoriale indubitabile, oggettiva, immutabile ed eterna.
Come noto - ma questa è divagazione - la legittimazione ontologica e religiosa della legge finì per attribuire un potere al papato che andava molto oltre i territori controllati dalla Chiesa. Il Papa che nel Medioevo incoronava gli imperatori o i re era il simbolo di questo passaggio di legittimazione: da Dio al Papa, dal Papa al monarca, il quale poi esercita questo potere derivante da Dio.
Nel corso della lotta per le investiture, nell'XI secolo, diversi pensatori vicini al papato arrivarono a teorizzare che, senza il placet pontificio, il re non avesse quindi alcuna legittimazione a governare, e che il popolo avesse nel caso diritto a ribellarsi.
Questo - al netto delle questioni di interesse - perché il potere e le sue leggi derivavano da Dio, il Papa ne era l'intermediario in terra e il re ne era solo il provvisorio depositario finale. Ne conseguiva, sostanzialmente, una società teocratica, come ovvio se tutti i valori e le leggi derivano da Dio.
Questa cosa, tuttavia, a un certo punto si è incrinata. Non la faccio lunga, che è cosa nota: l'Illuminismo, la Ragione, il vaglio critico della mente umana. Frutto, si sa, di una borghesia che voleva spezzare l'ordine antico del rapporto di potere esclusivo tra aristocrazia a Chiesa.
Ma al di là delle questioni di classe, fu anche una rivoluzione culturale: si iniziò a dubitare che la fonte del giusto e dell'ingiusto - e delle leggi che vi si conformavano - fosse Dio. Si iniziò a pensare che fosse, invece, l'uomo.
Quindi che il giusto e l'ingiusto fossero qualcosa di soggettivo, opinabile e non eterno. Privo di una fonte oggettiva, di un aggancio ontologico. Era nato il relativismo.
Il relativismo poneva diversi problemi. Ad esempio, Dostoevskij si chiedeva se in assenza di Dio fosse tutto lecito. Cioè se l'assenza di una fonte oggettiva non determinasse la fine dell'etica. Bel problema, se senza Dio ognuno poteva fare quel che gli pareva, perché tanto nessuna legge aveva più un aggancio ontologico.
I relativisti invece partorirono la democrazia. Cioè l'idea che in termini etici ognuno avesse i paradigmi valoriali che voleva, ma in termini pratici la legge con cui regolare la convivenza sociale doveva essere il frutto della volontà della maggioranza.
In altre parole, non è che morto Dio fosse tutto lecito. Semplicemente, morto Dio era la maggioranza delle persone a decidere cos'era lecito e che cosa no. Per regolare la convivenza civile, la società non ha più bisogno di Dio: fa da sé.
E la questione etico-valoriale viene staccata da quella pratica-legislativa: la prima è libera e soggettiva, ma all'interno delle regole poste dalla seconda la cui unica fonte è la maggioranza. Ovviamente anche questa soluzione ha i suoi punti deboli.
Ad esempio, in termini logici contiene un paradosso: si stabilisce che non esiste un valore etico oggettivo e assoluto, se non il fatto che non esiste alcun valore etico oggettivo e assoluto (quindi si fa a maggioranza). Un paradosso logico, appunto.
Ma finora non si è ancora trovata una soluzione migliore se non quella di proclamare come oggettiva e assoluta un'opinione valoriale soggettiva e di minoranza. E quest'ultima è una soluzione peggiore (come ho cercato di dimostrare qualche tempo fa sfottendo chi si oppone al suffragio universale).
Il secondo punto debole della relativizzazione di ogni norma a ciò che vuole la maggioranza (senza alcun aggancio ontologico valoriale) è che la maggioranza può fare cazzate gigantesche, dal "Crucifige!" che salvò Barabba alle elezioni che diedero la vittoria a Hitler.
Non che invece le decisioni prese da pochi potenti nella storia non abbiano provocato altrettante ingiustizie, ma insomma non è detto che le democrazie la imbrocchino sempre.
Per questo sono nate le Costituzioni. Che hanno mura più solide di leggi ordinarie, esigono più riflessioni e più passaggi per essere modificate, per alcuni punti si stabilisce perfino che non siano modificabili (es.: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale»), quindi - nuovo paradosso - se ne presume una seppur parziale eternità ontologica.
Insomma un discreto casino. Non è tutto semplice e chiaro come quando le leggi provenivano da Dio. Ma finora non si è appunto riusciti a fare di meglio - e tutto sommato la cosa funziona. Se qualcuno ha proposte alternative, dica pure. >>
ALESSANDRO GILIOLI