La crisi profonda dell’istruzione universitaria, soprattutto qui in Italia, è sotto gli occhi di tutti. Lo dimostra, al di là di ogni altra considerazione, la schiera dei giovani che, dopo un percorso di studi lungo, faticoso e spesso costoso, si ritrovano col più classico dei pezzi di carta, ma senza un lavoro adeguato, o, addirittura, senza un lavoro purchessia.
Quelle che seguono sono alcune considerazioni sull’argomento di Aldo Giannuli (tratte dal suo sito), secondo il quale la migliore alternativa alla fallimentare Università Statale, non sarebbe comunque quella privata (elitaria per definizione), ma quella pubblica non-statale. Buona lettura.
LUMEN
<< Che l’università [italiana] sia in una crisi galoppante (…) è un dato ormai largamente condiviso. (…) Segnali di crisi [però] vengono anche dagli Usa, dove non c’è dubbio che si trovino le migliori università del mondo e, in massima parte, private. Anche lì le immatricolazioni calano costantemente da qualche anno, per qualche università inizia a profilarsi il default ed i tassi di produttività scientifica tendono a calare.
Il fatto è che affluisce decisamente meno denaro del passato, perché le iscrizioni calano (e lì il costo di un corso di studi può oscillare fra i 40.000 ed i 100.000 dollari), le contribuzioni dei privati (banche, fondazioni, imprese) ormai ci sono solo per progetti finalizzati a qualche brevetto, mentre deperiscono le donazioni per la ricerca di base e le borse di studio. (…)
Il problema è che l’università di massa come la abbiamo conosciuta (tanto nella versione pubblica europea, quanto in quella privata americana con il meccanismo dei prestiti d’onore e delle borse di studio e sponsorizzazioni) aveva dei presupposti che l’ondata neo liberista ha travolto.
L’università di massa trovava la sua ragion d’essere nel progetto americano della “great society” e nella sua traduzione “welfarista” europea. L’idea era quella di una società industriale in grande e costante crescita, con un bisogno sempre maggiore di quadri di livello medio-alto ed alto ed una conseguente accentuata mobilità sociale.
E una università con un numeroso corpo di ricercatori era pensata anche in funzione del continuo bisogno di innovazioni scientifiche e tecnologiche; anche le discipline umanistiche aumentavano di volume – per quanto ad un ritmo più lento delle altre - per fornire gli avvocati, i manager, gli economisti, i sociologi necessari, ed anche le facoltà di lettere, filosofia, storia crescevano sia per soddisfare la domanda scolastica di base sia per il necessario supporto culturale alle altre.
Ma l’emergere della crisi ambientale ha inferto un colpo molto duro all’idea di una società industriale in crescita infinita. Ovviamente si sarebbe potuto ugualmente pensare ad una rimodulazione dell’università di massa in funzione dei nuovi bisogni (ad esempio la crescente domanda di servizi, di industria culturale e dell’intrattenimento, la stessa ricerca in campo ecologico, ecc.).
A dare il colpo di grazia, indirizzando le cose su un ben diverso cammino è stata l’ondata neo liberista, il cui progetto non ha al suo centro l’industria, ma la finanza e, pertanto, produce una domanda meno pressante di innovazione tecnologica: è sintomatico che le contribuzioni private sono calate per le facoltà di fisica o di chimica e talvolta persino di informatica, ma non per quelle di economia. (…)
Ma, soprattutto, c’è un aspetto particolare del neo liberismo che non è abbastanza compreso. L’epoca keynesiana del Welfare aveva (pur con moderazione) il valore dell’eguaglianza ed in particolare dell’eguaglianza delle condizioni di partenza; il neo liberismo non si limita a non avere il valore dell’eguaglianza, ma celebra la diseguaglianza come valore.
La società neo liberista è per sua natura chiusa, oligarchica, e negata alla mobilità sociale. Ne consegue che l’alta formazione non può e non deve essere alla portata di tutti, perché deve funzionare come filtro, che riproduce le gerarchie sociali. In questo quadro non servono 100 università con centomila docenti, servono 10 università con 5.000 docenti. Tanto più se a finanziare le 100 università è lo Stato che ormai si ritrae dai suoi compiti sociali. >>
<< A sinistra c’è un dogma che è assolutamente tabù, per il quale “pubblico” è sinonimo di “statale”. Senza eccezioni e senza differenze. Per cui, ad esempio, la proprietà pubblica significa senza dubbio dello Stato, dopo di che, si capisce poco la differenza fra socialismo e capitalismo di stato. (…) Uno dei campi in cui la confusione fra pubblico e statale ha fatto più danni è quello dell’istruzione, includendo in essa scuola ed università.
Noi siamo certamente favorevoli alla scuola pubblica, ma esistono diversi modi di intendere il carattere pubblico dell’istruzione, oltre quello statale. Ad esempio c’è quello degli enti locali, diffuso soprattutto negli stati confederali come Svizzera e Stati Uniti. Oppure forme sostenute da soggetti sociali come sindacati, cooperative, associazioni ecc. O forme miste fra i vari tipi. (…)
La “statizzazione” dell’insegnamento [universitario] ha portato con sé effetti indesiderabili che sono andati via via crescendo:
a - ingerenza politica, con pericolose tentazioni verso una “verità di Stato” particolarmente evidenti nei regimi totalitari;
b - tendenza al dirigismo ministeriale nei regimi non totalitari come i quelli liberali, che garantiscono un limitato (insisto: limitato) pluralismo, per non dire dei casi in cui lo Stato si fa portatore di ingerenze religiose, che comporta un appiattimento della ricerca e, soprattutto della didattica, in ossequio ai “programmi o piani di studio ministeriali”;
c - tendenza ad attuare il principio di eguaglianza come uniformità, per cui tutto è regolato allo stesso modo, con le stesse procedure burocratiche, che si tratti di preparare un insegnante di lettere o un laureato in informatica, un medico o un architetto. Tutto è studiato per essere assolutamente uniforme, a cominciare dal calendario a finire all’arredo scolastico o al disegno delle aule. Ed ovviamente questo azzera ogni possibile sperimentazione;
d - Il principio di uniformità produce danni particolarmente gravi nella formazione del corpo docente, organizzato sul modello gerarchico dell’esercito, con precisi gradi cui corrispondono altrettanto precisi livelli retributivi, quale che sia la capacità didattica ed il carico di lavoro del docente, con il risultato finale di dar luogo ad una “corporazione irresponsabile”, (…) che attua selezione e promozioni con caratteri esclusivamente clientelari e nepotistici (diciamocelo una volta per tutte) ed ogni possibile riforma si infrange contro l’inattaccabile roccia della corporazione accademica;
e - La strutturazione corporativa della docenza, insieme all’ingerenza della politica ed all’invadenza degli indirizzi ministeriali, spinge verso il più piatto conformismo culturale e la riprova si è avuta con l’affermazione del pensiero unico neo liberista che ha ricevuto la pronta adesione dei docenti non solo di economia ma anche di ampie fasce di storici, politologi, sociologi e, soprattutto, giuristi in tutta Europa;
f - Il tutto garantito dal tabù del valore legale, per cui, se vuoi che il titolo che concede la tua università (statale o parificata che sia) sia spendibile per professioni e concorsi, devi fare quelle materie, con quei metodi di insegnamento, quel tipo di esami, quel tipo di tesi, ecc., e senza nessun “colpo di fantasia”.
Non si tratta di difetti di poco conto che, per di più tendono ad aggravarsi in una società con i caratteri di quella attuale. Si pensi ad un particolare: la (scellerata) riforma Berlinguer varò una infinità di corsi di laurea (circa 3.000 sulla carta) con un diluvio di nuove materie, con il fine di far corrispondere ciascuno di essi ad un profilo professionale preciso e fu una pioggia di scemenze esilaranti: da “Gattologia” a “Scienza dei fiori”, “Turismo lacustre”, ecc.
Ma, al di là degli aspetti più demenziali, la riforma è stata un fallimento completo, sia per quanto attiene al tentativo di ridurre sensibilmente la dispersione universitaria, sia sul piano della corrispondenza titolo/figura professionale, e questo sia per le deliranti trovate della commissione ministeriale, sia perché l’attuazione ha richiesto tempi abbastanza lenti, dopo dei quali le tendenze del mercato del lavoro sono mutate ed alcuni di quei profili sono scomparsi, mentre ne sono emersi di nuovi che non trovano soddisfazione nei corsi esistenti. (…)
Ed allora che si fa? (…) Dico subito dove voglio andare a parare: demolire pezzo per pezzo l’università statale, cominciando dal valore legale del titolo di studio, ma salvando il carattere pubblico dell’Università. >>
ALDO GIANNULI
A una lettura veloce, queste prime considerazioni.
RispondiEliminaMa davvero c'e ancora gente che crede che una societa' dove il 90 per cento della gente va all'universita', dirige, studia, consuma, fissa le regole, controlla che vengano applicate, fa l'avvocato, sostanzialmente produce burocrazia, mentre solo una infima minoranza del 10 per cento davvero sfruttata produce, possa funzionare?
La societa' attuale e' cosi' strutturata da tempo, ed e' questo che la mette in crisi, il neoliberismo non c'entra assolutamente nulla, e' del tutto ininfluente, avremmo gli stessi problemi sotto qualsiasi regime politico, anzi secondo me con altri sarebbe anche peggio, perche' aumenterebbe ancora di piu' il totalitarismo burocratico.
La parte dell'articolo che secondo me e' completamente sbagliata nella diagnosi, anzi esprime proprio la mentalita' che ci ha messo in crisi, e' questa riportata sotto. E la crisi ambientale che deve per forza infilarci dentro (manca la formuletta magica "riscaldamento climatico", strano) e' del tutto pretestuosa e inventata come causa della crisi attuale, di crisi ambientale finora non abbiamo visto assolutamente niente, se e quando arrivera' si mostrera' con bel altri sintomi e fenomeni. FInora la crisi ambientale e' stata USATA, come in questo articolo, dai vari personaggi che vivono fra le nuvole e non sanno niente del mondo in primo luogo sociale che li circonda, per approfondire ancora i piu' i problemi di cui poi si lamenta. La crisi in cui viviamo e' sociale, materialmente non siamo mai stati cosi' bene, non riusciamo nemmeno a consumare tutto quello che produciamo, e un problema e' quello dello smaltimento dei rifiuti (anche qui in gran parte pretestuosamente gonfiato, burocratizzato, incasinato), suvvia.
Per il resto, quella che mi pare chieda Giannuli e' semplicemente una societa' e una scuola pluralistica, cioe' liberale. Occorrono tutti questi giri di parole per dirlo/non dirlo? Gia' dimenticavo, c'e' il problema per i neomarxisti alla Giannuli dell'impossibilita' data dal condizionamento subito a scuola di usare la parola "liberale".
Fra le righe dunque c'e' scritto "facciamo come dico io e sara' natale tutti i giorni", ma in questo pero' non c'e' molto pluralismo.
Se questa e' la cultura che producono le nostre scuole...
"L’università di massa trovava la sua ragion d’essere nel progetto americano della “great society” e nella sua traduzione “welfarista” europea. L’idea era quella di una società industriale in grande e costante crescita, con un bisogno sempre maggiore di quadri di livello medio-alto ed alto ed una conseguente accentuata mobilità sociale. E una università con un numeroso corpo di ricercatori era pensata anche in funzione del continuo bisogno di innovazioni scientifiche e tecnologiche; anche le discipline umanistiche aumentavano di volume – per quanto ad un ritmo più lento delle altre - per fornire gli avvocati, i manager, gli economisti, i sociologi necessari, ed anche le facoltà di lettere, filosofia, storia crescevano sia per soddisfare la domanda scolastica di base sia per il necessario supporto culturale alle altre.
Ma l’emergere della crisi ambientale ha inferto un colpo molto duro all’idea di una società industriale in crescita infinita. Ovviamente si sarebbe potuto ugualmente pensare ad una rimodulazione dell’univGiannuli ersità di massa in funzione dei nuovi bisogni (ad esempio la crescente domanda di servizi, di industria culturale e dell’intrattenimento, la stessa ricerca in campo ecologico, ecc.)."
Stamattina ho ascoltato "prima pagina" su radio tre dove verso la fine hanno fatto stranamente passare un paio di telefonate di qualcuno che ha spiegato come funziona davvero il mondo del lavoro produttivo. Vi posso assicurare, perche' e' successo anche a me, che in questo paese nessuno che non abbia provato personalmente puo' neanche lontanamente immaginare della assoluta insensatezza da gulag delle regolamentazioni e tassazioni relative. Tutti stanno a pontificare su giornali e blog di cose di cui non sanno assolutamente nulla, di cui hanno una concezione del tutto immaginaria e favolistica, PERCHE' FANNO PARTE DEL 90 PER CENTO DETTO ALL'INIZIO. E Giannuli e tutto il suo contorno sociale e' uno di questi. E poi si stupiscono, e magari pure si indignano, di Brexit, di Trump, di Le Pen, di Salvini, eccetera... Ognuno giudichi da se', a me vengono in mente solo appellativi ineleganti.
RispondiElimina<< Ma davvero c'e ancora gente che crede che una societa' dove il 90 per cento della gente va all'universita', dirige, studia, consuma, fissa le regole, controlla (...) possa funzionare ? >>
RispondiEliminaCaro Diaz, il concetto è senz'altro condivisibile, ma forse il tuo 90 % mi sembra una percentuale un po' esagerata.
Non ho cifre sotto mano, ma i ragazzi che si iscrivono all'università dovrebbero essere una percentuale ben inferiore, e quelli che arrivano alla laurea ancora di meno.
Resta valido però il principio di base per cui l'Università è entrata in crisi quando si allargata la base degli studenti, perdendo la sua natura di istituto elitario, che produceva i pochi dirigenti di cui c'era socialmente bisogno.
C'erano, quindi, troppo aspiranti per troppi pochi posti, con l'aggravante che, per arrivare in fondo, si continuava a perdere tempo, denaro ed impegno, in vista di un compenso sociale ed economico che non c'era più.
Non mi sono spiegato: il punto e' che non puo' funzionare una societa' in cui la classe sfruttatrice in senso marxista, che gode del lavoro altrui senza produrre nulla di utile agli altri, rappresenta il 90 per cento della popolazione.
EliminaGiannuli che e' marxista questo dovrebbe capirlo.
Adesso mi è più chiaro.
EliminaMa sei sicuro che le percentuali siano proprio del 10-90 ?
A me pare un po' eccessivo, anche nel senso che dici tu.
Perchè, se fosse vero, vorrebbe dire che l'umanità ha trovato la bacchetta magica di Mago Merlino e riesce a produrre ricchezza per tutti con l'impegno di quattro gatti.
Se esagero, mi sa che esagero di poco.
EliminaNegli usa agricoltori piu' manifattori sono in tutto una quindicina di milioni su 300.
Aggiungine altrettanti nei servizi davvero utili, arriviamo al 10 per cento sul totale della popolazione.
A controprova, consideriamo che sul tatale della popolazione (vita media circa 80 anni), fino ai 25 anni e oltre i 70 quasi nessuno e' produttivo, e cosi' togliamo a spanne meta' popolazione, cioe' 35 anni/uomo non produttivi e di solo consumo, su 80 di vita media. Su quelli che restano, la percentuale di coloro che hanno un impiego di solito e' fra il 50 e il 65 per cento, e siamo a spanne alla meta' della meta', cioe' un quarto. Di quel quarto che lavora, non ti sembra piu' che verosimile che solo la meta' faccia un lavoro che non sia inutile o dannoso (ad esempio quelli nella burocrazia, che infatti stanno per essere sostituiti dalle macchine?).
Bertrand Russell, Keynes, lo predicevano gia' all'inizio del secolo scorso che sarebbe finita cosi', non c'e' nulla di particolarmente strano. Allora, al contrario, per ulteriore conferma, la quasi totalita' della popolazione viveva di agricoltura nelle campagne, e produceva pochissimo surplus, c'era poco da sottrargli o redistribuire. Oggi nell'agricoltura, grazie alle macchine e a al miglioramento genetico delle piante, e' impegnato qualche percento della popolazione, che produce molto di piu' dell'80 per cento di allora.
"vorrebbe dire che l'umanità ha trovato la bacchetta magica di Mago Merlino e riesce a produrre ricchezza per tutti con l'impegno di quattro gatti."
EliminaBe' questo mi pare lapalissiano, ce l'abbiamo davanti agli occhi. Io di tutti quelli che conosco che lavorano, non c'e' n'e' quasi nessuno che se non lavorasse diminuirebbe la ricchezza complessiva, anzi. Aggiungigli sopra quelli che non lavorano per l'eta'...
<< Io di tutti quelli che conosco che lavorano, non c'e' n'e' quasi nessuno che se non lavorasse diminuirebbe la ricchezza complessiva >>
EliminaIn effetti, a volte viene da fare queste considerazioni, anche se forse sono un po' eccessive, perchè l'utilità effettiva di certi lavori può essere difficile da individuare.
Tali possono essere, per esempio, le attività connesse con la cura dell'ambiente e del territorio, i cui effetti benefici sono spesso proiettati nel futuro, ma non per questo meno reali.
In ogni caso, paradosso dei paradossi, anche i lavori più inutili ed improduttivi, lungi dall'essere presi come semplici sinecure o passatempi (quali in fondo sono), provocano la loro buona dose di stress, angosce, arrabbiature, litigi, ecc.
"perchè l'utilità effettiva di certi lavori può essere difficile da individuare.
EliminaTali possono essere, per esempio, le attività connesse con la cura dell'ambiente e del territorio, i cui effetti benefici sono spesso proiettati nel futuro, ma non per questo meno reali."
Abbi pazienza, Lumen, l'utilita' effettiva di quei lavori di norma e' largamente sovrastimata. L'ho messo come premessa al ragionamento, che tutti tendono a sostenere che quello che fanno loro o che ritengono sia giusto fare, sia fondamentale per la sopravvivenza dell'umanita' e del mondo.
Ma proprio questo PREGIUDIZIO e' l'oggetto della mia critica.
:)
<< tutti tendono a sostenere che quello che fanno loro o che ritengono sia giusto fare, sia fondamentale per la sopravvivenza dell'umani >>
EliminaE' vero, ma non è solo quello.
C'è anche il fatto che le attività umane, anche quando non creano ricchezza, comunque la spostano.
Ed è questo, probabilmente, che crea gli stress e le pressioni di cui dicevo sopra.
La torta sarà sempre la stessa, ma cambiano le singole fette e questo, per le persone coivolte, fa tutta la differenza del mondo.
Altro che sinecure ...
"con la cura dell'ambiente e del territorio"
EliminaL'ambiente e il territorio si curano da se', semmai si tratta di gente che rimedia a danni (secondo il metro di misura suo proprio, quindi del tutto arbitrario) fatti da altra gente che a sua volta non serve a un tubo.
"La torta sarà sempre la stessa, ma cambiano le singole fette e questo, per le persone coivolte, fa tutta la differenza del mondo."
EliminaOk ma allora diciamolo e non usiamo l'ipocrisia dell'ambiente. Si tratta semplicemente di un modo per dare un senso, per quanto artificioso e senza senso, alla vita di un po' di gente, o per procedere alla redistribuzione del reddito con una scusa qualsiasi (che basta che non lo sappiano e sono felici ma solo PERCHE' si sentono utili e importanti). Ma resta il fatto che non lo sono: ne' utili, ne importanti, se non a se stessi (cosa che se la ammettessero comunque non li farebbe sentire bene).
<< Ok ma allora diciamolo e non usiamo l'ipocrisia dell'ambiente. >>
EliminaMa infatti si trattava di due argomenti diversi, esposti uno dopo l'altro, ma totalmente slegati tra di loro.
A ben vedere l'umanità ha sempre usato più tempo, impegno ed energie a litigare sulle fette, che ad occuparsi della torta.
Se vogliamo dare un merito al capitalismo è proprio quello di avere, forse per la prima volta, posto l'accento più sulla torta che sulle fette.
"l'umanità ha sempre usato più tempo, impegno ed energie a litigare sulle fette"
EliminaSicuramente, dato che nella quasi totalita' della storia ha solo prelevato risorse, in "modalita' parassitaria", dall'ambiente circostante. E' solo in quest'ultimissima fase (speriamo anche nel senso che poi sparisce) che ha imparato anche a produrne.
Penso anche io che quest'ultimissima fase sia destinata a sparire.
EliminaMa non lo spero, lo temo.
"Ma non lo spero, lo temo."
EliminaNon sei tu, e' il gene egoista. ;)
Mica tanto.
EliminaIo mi preoccupo, innanzi tutto, per il futuro prossimo, che coivolgerà direttamente anche me (id est, il mio fenotipo). ;-)
Per tornare all'articolo, mi fa sorridere questo:
RispondiElimina"danni particolarmente gravi nella formazione del corpo docente, organizzato sul modello gerarchico dell’esercito"
Giannuli, bonta' sua, si e' accorto che il modello concentrazionario e' applicato al suo meglio nella scuola! Pero' non si accorge che la scuola e' molto peggio dell'esercito, perche' l'esercito non mette continuamente voti sul registro o sul libretto, non richiede continue prove da superare che a seconda di come vanno o sei dentro o sei fuori.
Per quanto riguarda:
"Ad esempio c’è il modello degli enti locali, diffuso soprattutto negli stati confederali come Svizzera e Stati Uniti. Oppure forme sostenute da soggetti sociali come sindacati, cooperative, associazioni ecc. O forme miste fra i vari tipi."
Sinceramente Giannuli risparmierebbe un sacco di tempo se si (ri)leggesse il buon vecchio Illich, e riconoscesse che il fine ultimo della scuola moderna, pubblica o privata, e' nel formare il cittadino-soldato adeguato alla societa'-termitaio che e' ormai quella umana, in cui il "neoliberismo" c'entra meno che nulla, anzi semmai fa da relativo ostacolo.
<< il fine ultimo della scuola moderna, pubblica o privata, e' nel formare il cittadino-soldato adeguato alla societa'-termitaio >>
RispondiEliminaQuesto è sicuramente il motivo principale.
Ma non escluderei una buona dose di eterogenesi dei fini.
Poche attività sociali finiscono preda di pasticcioni benintenzionati come la struttura scolastica.
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/lavorare-apple-come-monastero-direttore-finanziario-141357.htm
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