mercoledì 15 giugno 2016

Ritratto di signora in nero

Il sottile intreccio tra avanguardie artistiche, millenarismo e angoscia di morte nell’analisi di Luigi De Marchi. LUMEN

 
<< La presenza della morte nell'arte è stata sempre incombente. E non solo perché dalla civiltà egizia a quella etrusca a quella cristiana, l'arte religiosa ha molto spesso ruotato attorno al tema della morte, ma anche perché l'opera artistica in se stessa appare non di rado come uno sforzo dell'artista per continuare a vivere dopo la morte.

Otto Rank giunse anzi a sostenere (forse con troppo sbrigativa sicurezza) che la principale motivazione dell'artista nella sua creatività sta nella “spinta all'immortalità”. In questo senso la creazione culturale sembra collegarsi alla procreazione biologica: l'organismo produce, emette qualcosa, appunto una sua creatura, destinata a sopravvivergli.

Qui vorrei comunque delimitare la mia analisi ad una delle svolte cruciali della cultura occidentale: (…) quella contemporanea, iniziatasi con le avanguardie artistiche del Novecento. (…)

La crisi nata con l'Illuminismo e poi sviluppatasi con il pensiero scientifico e filosofico contemporaneo (…) ha scalzato alle radici il pensiero religioso tradizionale e ha riportato l'uomo dinnanzi all'angoscia esistenziale esorcizzata per millenni attraverso i miti e i riti religiosi. E al tempo stesso il facile ottimismo del positivismo [è stato] ben lungi dal fornire un'alternativa alle vecchie certezze. (…)

E’ su questo sfondo culturale che nacquero le avanguardie artistiche del Novecento: dall'espressionismo al cubismo, dal futurismo al costruttivismo, dal dadaismo all'astrattismo, dal surrealismo alla rivoluzione dodecafonica di Schònberg.

Di questi movimenti è stato spesso sottolineato, dai protagonisti ancor prima che dagli storici, il legame con i movimenti rivoluzionari di destra o di sinistra. Qui vorrei piuttosto sottolineare, tuttavia, che quel loro legame con le rivoluzioni politiche fu una fratellanza ideologica che nasceva da una comune discendenza o paternità psicologica: appunto dall’angoscia esistenziale connessa al crollo delle difese religiose.

Il riflusso restauratore seguito alle rivoluzioni del 1848 non aveva spento in molti artisti la speranza del Millennio rivoluzionario, ma l'aveva caricata di una rabbia distruttiva e vendicatrice anche più forte: “Vi sono - scriveva Rimbaud - distruzioni necessarie”. Questa disperata protesta contro una società, quella borghese, colpevole di opporsi alla palingenesi rivoluzionaria esplode esplicitamente in Van Gogh, che può considerarsi uno degli anticipatori dell'espressionismo.

Ma con l'avanzare del riflusso conservatore non tarda ad affiorare una nota di angoscia esistenziale sempre più chiara. E’ un fenomeno molto significativo perché ci svela ancora una volta quanta parte abbia il mito rivoluzionario, moderno erede del mito religioso, nell’esorcismo dell'angoscia esistenziale. (…)

[Mentre] in James Ensor l'angoscia riesce anche a ridere di se stessa, nel grottesco, in Edvard Munch essa domina incontrastata la tela. A partire dalla “Notte” (1890) inizia una sequenza di tele trasudanti angoscia e terrore: angoscia della morte che egli conobbe da vicino nella malattia e nell'agonia dei familiari, ma anche orrore della natura, che di quell'angoscia è spesso figlia e che si esprime magistralmente ne “L'urlo” (1893), forse il più famoso tra i quadri di Munch: “Sento il grido della natura”, scriverà il pittore commentando quella sua tela disperata. (…)

Persino l'arte negra, “scoperta” all'inizio del secolo, apparve agli espressionisti, con le sue maschere scure e sinistre, carica di un’ancestrale angoscia di morte e di un profondo terrore della natura. (…)

L'espressionismo accentua ulteriormente in Germania, ove soprattutto fiorì, il suo carattere angoscioso. Emii Nolde, uno dei padri fondatori dell'espressionismo tedesco, dipinge i suoi paesaggi naturali con macchie di colore ove vuole addensare, dice, “le grida di paura e di dolore degli animali” (…) L'orrore di Nolde per la “natura matrigna” si trasforma [poi], in Franz Marc e Vasilij Kandinskij, in un vero e proprio rifiuto estetico della natura che apre la via all'astrattismo. (…)

Emerge con chiarezza, insomma, che la presa di coscienza del Weltschmerz (cioè del dolore del mondo e della natura) sta alla base dell'astrattismo e della sua fuga nella purezza e serenità della forma astratta. (…)

Anche l'astrattismo di Mondrian, apparentemente tanto diverso, col suo freddo scientismo, da quello apertamente religioso di un Kandinskij, rivela la sua matrice millenarista quando profetizza che nella città futura, costruita secondo i dettami delle concezioni neoplastiche vagheggiate da Mondrian stesso, l'uomo “sarà felice in quell'Eden che egli stesso avrà creato”.

Con il trauma della disfatta (della prima guerra mondiale) e della tremenda crisi economica seguita alla sconfitta militare, molti artisti tedeschi (e non solo tedeschi) tornano a sognare la rivoluzione e sviluppano un vero e proprio furore distruttivo contro il vecchio mondo: borghesi, militari, politicanti.

All'angoscia esistenziale subentra dunque una nuova ondata di rabbia e di impegno sociale: è questo, tra parentesi, un processo pendolare che si ripete continuamente nella storia e che, forse. sta ripetendosi anche oggi. Si ha la sensazione che all'angoscia esistenziale l'essere umano abbia saputo dare, finora, sempre e solo due elaborazioni: una depressiva, autoaccusatoria e autopunitiva, che vede nell'uomo peccatore la fonte del male, del dolore e della morte; e l'altra paranoicale, missionaria, aggressiva, che proietta il male e la morte fuori di sé e sviluppa il sogno millenaristico di stampo religioso e politico. (…)

Nonostante le sue manifestazioni spesso solo eccentriche e provocatorie, anche il dadaismo nasce da una spinta iconoclasta e millenarista. (…) Si tratta di una vera e propria apocalisse dei valori destinata a dischiudere un Millennio di nuovi valori: per altro indefiniti e fumosi, come accadrà sempre più spesso nei programmi dei movimenti rivoluzionari, sia in arte sia in politica.

Col surrealismo, apparentemente così lontano dall'impegno e così “capriccioso”, il millenarismo si precisa fin dagli inizi in forme politiche e ideologiche addirittura acritiche. Già nel 1925, un anno dopo la pubblicazione del primo Manifesto del surrealismo scritto da Breton, l'allineamento al comunismo sovietico è totale. (…)

Lo sviluppo cubista dell'impressionismo sembra contenere sia la distruttività emotiva di un certo espressionismo “sociale” e del dadaismo, sia lo sforzo ricostruttivo intellettuale dell'astrattismo. Ma la matrice psicologica dell'operazione è forse da cercare ancora una volta in una esigenza di purezza, nitidezza, chiarezza formale, nell'aspirazione cioè a un mondo ben strutturato e incontaminato da contrapporre a quello caotico e conflittuale della realtà e della natura.

Del resto, sia che fosse dominante, dinnanzi alla realtà, l'impulso di distruzione e demolizione, sia che prevalesse invece il bisogno di un nuovo ordine formale, si è sempre in presenza di un problema esistenziale e di una aspirazione millenaristica. Beninteso né autori né critici ne furono di solito consapevoli, anche perché quell'aspirazione si tradusse spesso in un impegno politico da loro stessi presentato e percepito come laico o addirittura antireligioso.

Nel futurismo è fin troppo facile cogliere la nota millenarista, dato che essa pervade con la sua enfasi retorica e iconoclastica ogni pagina e ogni manifestazione futurista. L'interesse psicologico del movimento, al di là di certe sue chiassate balorde, sta comunque nella declinazione a volta a volta social-massimalista e individual-fascista che esso diede a questa sua spinta millenaristica, rimasta sempre sostanzialmente invariata. (…)

All'estremismo di derivazione marxista si associava significativamente il fanatismo nazionalista e l'attesa di un'apocalisse bellica (“Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo”). Tutto ciò è stato denunciato con indignazione come bieco opportunismo: e forse in un certo senso lo fu. Ma in un altro è più profondo senso fu espressione di una stessa esigenza apocalittica e millenaristica che assunse a volta a volta caratteri comunisti e fascisti.

In nessun movimento culturale quanto nel futurismo, forse, emerge trasparente il denominatore comune psicologico del fanatismo di destra e di sinistra.

E la radice esistenziale di questo denominatore comune trova espressione emblematica in un grande artista italiano che del futurismo e di altre avanguardie fu esponente geniale: Umberto Boccioni. Quando, alla vigilia della prima guerra mondiale, le sue speranze e idealità socialiste entrarono in crisi, proruppe in lui l'angoscia esistenziale, elaborata tuttavia in una forma di volontarismo stoico: “Nascere, crescere e morire: ecco la fatalità che ci guida. Non marciare verso il definitivo è un rifiutarsi all'evoluzione, alla morte. Tutto si incammina verso la catastrofe”.

E chi guarda le splendide tele di Boccioni, ove tutta la realtà si avvita in un gorgo minaccioso, potrà meglio capirne il senso profondo: (…) un'attesa angosciosa d'apocalisse che l'artista può e deve sfidare con un atto di volontà, una fede ottimistica ribadita contro ogni logica, un “credo quia absurdum” cui è venuto a mancare persino Dio. > >

LUIGI DE MARCHI

19 commenti:

  1. Australopithecus, Habilis, Erectus, Neanterdanteliensis, Sapiens sapiens ecc. L'uomo di Neandertal è vissuto per 200'000 anni, il Sapiens - che ha conosciuto e sembra anche essersi incrociato con il Neantertaler - ha circa 50'000 anni. Dalla sua apparizione (dove?) dovevano passare decine di migliaia di anni finché alcuni esemplari della spece cominciarono a mettere per iscritto qualcosa (circa 6000 anni fa). Öetzi fu ucciso 5000 anni prima di Cristo.
    Quando fu insufflata l'anima immortale? Anche il Neandertaler aveva un'anima immortale (aveva comunque un cervello di massa maggiore del Sapien s.)?
    Ma lasciamo stare l'anima immortale. Perché, quando, come si sviluppa se non l'anima una coscienza religiosa? O per dirla con il titolo di un libro di Giussani: quando nasce "il senso religioso"? Che cosa significa il senso o la dimensione religiosa? È il rifiuto della morte o il desiderio, la speranza di sopravvivere in qualche forma o modo? La paura è sempre paura della morte. L'animale non razionale e preda di altri animali è costantemente allertato, ma non sempre nel terrore. Com'era la vita dei nostri antenati? Vivevano nella paura, nel terrore, non molto diversamente dagli altri animali, anche se svilupparono tecniche per sopravvivere, ripararsi, procurarsi il cibo. Certo la loro vita era difficile e breve (probabilmente non arrivavano ai trent'anni). Comunque a un certo punto nasce questo senso religioso, non necessariamente in relazione alla morte. Ma che cosa bisogna immaginarsi sotto questo senso religioso? Forse fu inizialmente e semplicemente la sensazione di sentirsi debole dinanzi allo strapotere della natura (fulmini, tuoni, piogge, terremoti, malattie, animali feroci, scarsità di cibo) e la credenza di potersi ingraziare con doni e sacrifici la natura e poi gli dèi che si erano inventati. Gli dèi sono inizialmente tanti perché i vari fenomeni sono attribuiti logicamente a distinte divinità, ancora non si è sviluppato il concetto di una divinità maggiore, un Giove, da cui dipendono le altre divinità. Il monoteismo è un approdo logico. E se gli ebrei lo avessero ereditato dagli egiziani (Echnaton)? Gli ebrei erano comunque inizialmente politeisti come tutti. Il monoteismo è un fenomeno razionale. Ma il razionalismo puro è contro natura perché non tiene conto delle ... sfumature (e cosa sarebbe la vita senza sfumature, se fossimo puri esseri razionali?).
    Pensierini che butto giù dopo aver letto l'interessante lezione di storia dell'arte di de Marchi. La morte è sempre dura da accettare.
    Una ventina d'anni fa ci fu una bella serie televisiva dal titolo "Auf der Suche nach Vollkommenheit" (alla ricerca della perfezione). L'artista vince la morte con l'opera d'arte (l'atto creativo e l'opera d'arte compiuta, perfetta fanno dimenticare completamente la morte). Ma è una vittoria di Pirro perché la morte alla fine vince sempre. Ma dicono che Cristo ha vinto per sempre la morte ...

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  2. << Ma dicono che Cristo ha vinto per sempre la morte >>

    Dicono, appunto.
    Mi piacerebbe che venisse direttamente giù, qui tra noi, a spiegarci per filo e per segno come ha fatto a vincere la morte.
    Ma - come hanno detto acutamente molti commentatori - se davvero Gesù Cristo tornasse sulla terra, come farebbe a farsi riconoscere ?
    Non penseremmo che si tratta del solito esaltato che si è montato la testa ?
    Dovrebbe forse tornare a fare i miracoli ?

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    1. "se davvero Gesù Cristo tornasse sulla terra, come farebbe a farsi riconoscere ?"

      Nessun problema: lo capirebbero tutti (dall'aureola, dalla lingua, dal brutto carattere (guai a voi razza di vipere, sepolcri imbiancati, ipocriti) - o magari per intuizione: è lui, è tornato, mamma mia, quidquid latet apparebit, nihil inultum remanebit).
      Ma forse dopo l'espansione massima l'universo collasserà (big crunch) e tutto rivivrà ma all'incontrario: la nostra vita ricomincerà dalla fine e finirà con la nascita.
      Noi facciamo dell'ironia però lo stesso qualcosa ci sfugge, non sappiamo ("chi sei? donde vieni? dove vai" - si leggeva sulle affissioni durante gli esercizi spirituali).

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  3. << la nostra vita ricomincerà dalla fine e finirà con la nascita. >>

    Come nel famoso, irresistibile, monologo di Woody Allen:
    << Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così tricchete-tracchete il trauma è bello che superato.
    Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno.
    Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio.
    Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono.
    Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro.
    Lavori quarant’anni finchè non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa.
    Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare.
    Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finchè non sei bebè.
    Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene.
    Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni.
    E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo! >>

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  4. Sempre in tema di citazioni, ma questa volta sicuramente 'in topic', ecco un gustoso aneddoto sul padre del cubismo, Pablo Picasso:

    << Durante l’occupazione di Parigi venne un ufficiale tedesco nello studio del pittore e per prenderlo in giro, mostrando il quadro 'Guernica' (che rappresenta, come noto, un bombardamento dei Tedeschi durante la guerra civile spagnola), disse:
    “Chi è che l’ha fatto questo orrore, l’avete fatto Voi?”.
    E Picasso rispose: “No, l’avete fatto voi”." >>

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    1. Battuta un po' scontata e che perciò non fa ridere. Anche se ridere su Guernica non sta bene. A me comunque quel quadro non è mai piaciuto nonostante l'universale ammirazione.

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    3. Se è per questo, a me non piace l'80 % della produzione artistica del grande Pablo.
      Il quale, da giovane, sapeva disegnare e dipingere in maniera deliziosamente classica.
      Ma forse, per quella strada, non sarebbe mai diventato così famoso.

      Forse la mia è una cattiveria e forse no.
      Ma l'arte (arte ?) figurativa del novecento si presta a certi cattivi pensieri.

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    4. http://www.dagospia.com/rubrica-31/arte/truffe-avanguardia-mercato-chiede-firme-non-opere-ormai-solo-126995.htm

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    5. Molto bello l'articolo di Belardinelli.
      Grazie Diaz.

      << L' avanguardia è finita prima che iniziasse la Seconda guerra mondiale. La mentalità e la truffa d' avanguardia circolano invece tutt' ora e rendono asfissiante e infrequentabile il cosiddetto "mondo dell' arte". >>

      << la bolla speculativa di quel 'mondo dell'arte' iniziato alla fine degli anni ‘50 del ‘900 è finalmente scoppiata. Il mercato artistico non prevede valori, ma prezzi. Non critici, ma pubblicitari e mercanti. >>

      << Mi viene in mente quello che il figlio di sei anni dell' enologo sotto casa ha detto davanti a un quadro del vecchio Lucio Fontana: "Papà, ma questa è arte ?". Se fosse un vino (...) dovrebbe essere bevibile. L' arte di oggi chi la beve? Solo i critici? >>

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    6. Sì, però io mi rifaccio di nuovo ai numeri come tempo fa parlando dei filosofi e dei docenti di filosofia (sono ormai troppi, conoscerli tutti è impossibile e anche inutile).
      In un mondo di 7,5 miliardi di persone, in più ormai interconnesse, che senso possono avere ancora la letteratura, l'arte, la filosofia - che erano considerati fino a ieri dei valori pressoché assoluti? Noi, ormai avviati sul viale del tramonto, ci siamo formati su quei valori che ormai non sembrano contare più nulla o comunque molto poco (ancora negli anni Sessanta la nuova opera di uno scrittore di rilievo, famoso, era un evento, atteso con trepidazione o almeno interesse). Esistevano ancora gli intellettuali a cui si portava un certo rispetto reputandoli persone fuori del comune, persino maestri).
      Quel mondo sembra scomparso, non sappiamo cosa ci aspetta. Già trent'anni fa Sciascia diceva che "la civiltà letteraria è al tramonto", cioè non interesserà presto più nessuno. C'è chi considera Guerra e Pace un mattone, illeggibile! Meglio i propri scarabocchi, i diari, le proprie biografie o "prodotti" ben confezionati, divertenti, vendibili.
      Quanto all'arte figurativa il discorso non può essere molto diverso. Siamo ormai tutti artisti, chi più chi meno. L'importante è vendere, se vendi hai successo ed è quello che conta. Leggevo proprio oggi un'intervista al mio caro La Capria in cui afferma che Moravia non lo faceva sentire un minore, era molto alla mano e soprattutto attento alle vendite delle sue opere, ai soldi. Ma una volta Moravia disse che non era Dostoevskij e lo diceva apparentemente con un certo rammarico (insomma, ammetteva di non essere un grande scrittore e la cosa gli dispiaceva). La Capria aggiunge che oggi sono tutti scrittori, tutti scrivono, ma quella che producono non è letteratura (lui si considera uno scrittore, magari un buono scrittore, ma non un romanziere - in effetti io lo considero piuttosto un saggista, ma credo che questa definizione non gli piacerebbe).
      Che la grande arte, la grande letteratura e anche la vera filosofia che non è stata solo chiacchiera, ma ha contribuito alla fioritura delle scienze moderne - non siano categorie del passato?

      @ Lumen

      Anche a me piace il primo Picasso, meno o per niente le sue opere successive e la pittura astratta, a volte gradevole (Mirò, Klee) ma niente di più. L'ultimo Picasso è almeno comprensibile e anche piacevole: è contentratissimo sui genitali, specie femminili ...

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    7. Caro Sergio, la distinzione tra grande letteratura e letteratura di consumo è forse più sottile di quanto pensiamo.
      Anche gli autori di best seller scrivono bene, in genere, e raccontano storie avvincenti (altrimenti non venderebbero).
      Forse quello che manca ai secondi è l'approfondimento psicologico.
      Ma è giusto pretendere da uno scrittore di essere anche un fine psicologo ?

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    8. E non e' da escludere, come spesso succede nella storia, che ad essere ricordati dai posteri nei secoli dei secoli saranno autori nostri contemporanei oggi disprezzati o di cui cui non conosciamo neppure l'esistenza. Oppure che di scrittori (o musicisti, o pittori) famosi saranno preferite le opere oggi disprezzate perche' "popolari".

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    9. Giusto.
      Non è raro che un autore (un artista) diventi un 'classici' solo ex post, in barba ai contemporanei che, poveretti, non avevano capino niente.

      Ma forse è giusto così.
      Diventa davvero un 'classico' solo chi riesce a resistere alle ingiurie del tempo e questo, per definizione, possono saperlo solo i posteri. :-)

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    10. Bisogna però anche considerare che tante opere celebrate del passato sono andate perdute per sempre. Possiamo rammaricarcene, ma è così e a pensarci bene non è poi quel grande dramma. Ciò che si è salvato basta e avanza. La tradizione tiene in vita certi autori, altri invece che pur meritavano sono dimenticati. D'altronde si sono accumulate tante di quelle opere, e se ne stanno creando così tante oggi, che è proprio una fortuna che molte vadano dimenticate o perse, scompaiano. La nostra propria memoria non conserva tutto - per fortuna. Non conosco i meccanismi di selezione della nostra memoria che conserva spesso particolari strani o ridicoli fissatisi chissà come. Ma l'oblio è anche una fortuna, un bene - nella nostra vita personale e nella memoria collettiva. Comunque inutile farsi illusioni che qualcosa di noi sopravvivrà, in barba al disprezzo dei contemporanei. Forse avverrà pure, ma tanto non ci saremo più, e quindi.
      Stendhal diceva che le sue opere sarebbero state meglio comprese un paio di generazioni dopo. Ma sperare in una fortuna postuma è illusorio. Stendhal è ancora letto quasi due secoli dopo (è uno dei miei autori preferiti), ma mi sembra che pochi lo leggano a parte i francesisti. La misura è colma, basta.

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    11. << La nostra propria memoria non conserva tutto - per fortuna. >>

      Dal quel poco che so di neuro-scienze, direi che memorizziamo (e conserviamo) più facilmente tutto ciò che è collegato con una emozione rilevante, sia positiva che negativa.

      In fondo, i meccanismi darwiniani della sopravvivenza non possono funzionare che così.
      Ed è per questo che molti autori (Damasio in primis) affermano che, alla base della nostra tanto amata razionalità, ci sono le tanto vituperate emozioni.

      Ma forse sono finito un po' OT.

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    12. Memorizzare in che senso? Un conto e' la memorizzazione cosciente di simboli astratti e neutri, un conto quella "emozionale" (un tempo detta sub-conscia) che crea un riflesso condizionato di cui si perde l'origine (ovvero la memoria conscia, ma non la memorizzazione inconscia).
      E comunque pure la memorizzazione cosciente di simboli astratti e neutri ad un certo punto diventa un'associazione automatica (inconscia) di cui e' impossibile liberarsi. E' ad esempio impossibile ascoltare delle parole di una lingua che si comprende senza associarle al loro significato, come se fossero solo dei rumori. Provate...

      Dividere conscio ed inconscio, razionalita' ed emozioni, probabilmente e' sbagliato, o perlomeno arbitrario, forse potremmo chiamare il conscio "archivistico richiamabile su richiesta", e l'inconscio "procedurale". Ma guidare un'auto, capire delle parole, giocare a tennis, fare un'addizione, quando si acquisisce l'abilita' di farlo in modo disinvolto cioe' automatico, andrebbero definiti come inconsci ed emotivi? Probabilmente si'. Eppure sono attivita' che tenderemmo ad associare alla razionalita' ed alla coscienza. Lo sono solo finche' non le impariamo davvero, finche' non diventiamo davvero abili nello sbrigarle disinvoltamente: cioe' automaticamente.

      Ma a quel punto perdiamo la capacita' di giudizio oggettivo, razionale e conscio sul loro rispetto, dato che entrano nel nostro bagaglio, o fardello, emozionale.

      Questo fra l'altro fa funzionare la nostra societa': una serie di procedure automatiche e incosce che trasformano l'accozzaglia di individui sconcatenati in un formicaio ben organizzato.

      I "meccanismi darwiniani della sopravvivenza" non sono razionali, sono caotici e ricorsivi, altrimenti la prima ameba sarebbe rimasta tale. Tutta questa vita ribollente non ha nulla di razionale ne' sensato, e' e basta (seppure nel "divenire" ;).

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  5. Dopo aver inviato il mio messaggio precedente leggo questi pensieri di Céline che fanno al caso e che mi piacciono (penso anche che piaceranno a La Capria perché pensa le stesse cose a proposito dello stile ) Un suo libro ha per titolo "Lo stile dell'anatra". L'anatra sembra scivolare senza sforzo sull'acqua, ma in realtà zampetta follemente, solo che non si vede. La semplicità di La Capria o di Puskin, la loro levità, non è una dote naturale, ma il frutto di un lavorio che non si vede e non si deve vedere (se no non c'è stile!).

    http://www.ilgiornale.it/news/i-romanzi-messaggio-sono-lapice-volgarit-1273379.html

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    1. << L'anatra sembra scivolare senza sforzo sull'acqua, ma in realtà zampetta follemente, solo che non si vede. >>

      E' un'immagine davvero molto bella, applicabile a tante situazioni della nostra vita..
      Grazie di averla citata.

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