Si conclude qui l’articolo di Alberto Lo Presti su Robert Michels e la sua teoria delle elites politiche. Lumen
(seconda parte)
<< Michels costruisce una teoria generale delle cause che producono, nell’organizzazione democratica, l’insorgenza dei meccanismi dell’oligarchia. Tale teoria affonda le proprie radici in questioni di carattere psicologico, relativo al comportamento dei leaders nelle situazioni di potere, e in questioni di psicologia collettiva, relative alle propensioni delle masse per l’avvento di una conduzione autorevole della loro vitalità politica.
In tal senso, il ritratto psicologico del membro dell’oligarchia che Michels traccia è abbastanza fosco: il leader possiede una naturale sete di potere tipica in chiunque si lanci nel mondo politico, prende coscienza del proprio valore e costruisce la propria abilità, la propria eloquenza e la propria intelligenza in vista dello scopo della massimizzazione del dominio.
Ma il pessimismo di Michels raggiunge forse il suo apice nella considerazione di come le masse siano per definizione apatiche, abbiano il bisogno di essere comandate, sono pronte ad una riconoscenza senza limiti nei confronti di chiunque dia loro una prospettiva, possiedono una tendenza innata alla venerazione dei capi e al culto della personalità. (…)
Neanche dentro l’oligarchia soffia il benché minimo vento di concordia: la lotta fra i leaders può originarsi per molteplici ragioni, come la distanza generazionale, la diversa origine sociale, o semplicemente da visioni diverse. Due forme particolari di lotta sono quelle fra i leaders provenienti dalle fila del partito e coloro che, invece, hanno raggiunto l’oligarchia al di fuori di esso. (…)
Particolare, ancora, è il confronto fra la leadership di tipo burocratico e quella di tipo demagogico: (…) da una parte i leaders eletti che dipendono dal consenso delle masse, dall’altra i leaders burocratici, che hanno raggiunto la loro posizione di vertice attraverso il controllo della macchina del partito. Ma alla fine (…) prevale la generale predisposizione alla conservazione del potere, per cui Michels nota come accada frequentemente che la leadership burocratica e quella demagogica finiscano per allearsi o fondersi.
La fusione fra i diversi interessi presente nelle oligarchie diventa evidente quando osserviamo il funzionamento del meccanismo della cooptazione. I leaders affermati, infatti, ormai lontani dalla base delle masse, tentano di colmare il vuoto attraverso la cooptazione di coloro che invece riscuotono il consenso e che potrebbero insidiare il loro potere. La cooptazione, solitamente, consiste nell’attribuire a tali figure delle cariche prive di reali poteri, ma comunque onorifiche.
Il risultato è che «i leaders dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono loro precluse le cariche più importanti, ed essi rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi condividono ora la responsabilità delle azioni compiute insieme agli avversari di una volta». (…)
Le oligarchie dei partiti politici sono continuamente minacciate da due forze: una esterna, consistente nell’orientamento delle masse che potrebbe produrre cambiamenti al vertice, se non stravolgimenti, in caso di ribellione; una interna, dovuta al gioco di potere partecipato dagli ulteriori sottogruppi differenziati all’interno dell’oligarchia.
In tale situazione, come si può pretendere – pensa Michels – che possano esserci comportamenti virtuosi nell’arena politica ? «Ed è da questo che deriva, in tutti i moderni partiti popolari, la profonda mancanza di vero spirito di fratellanza, cioè di fiducia negli uomini, ed il conseguente stato latente e continuo di belligeranza, quello “spiritus animi” sempre teso che ha dato luogo alla diffidenza reciproca dei leaders, diffidenza che è diventata una delle caratteristiche essenziali della democrazia». (…)
L’organizzazione politica è la novità della modernità: essa costruisce i percorsi per giungere al potere; ma una volta partecipi del potere ogni individuo, di fatto, smette i panni del progressista o dell’innovatore per vestire quelli del conservatore. E’ un processo che non conosce impedimenti e che soffoca ogni buona propensione verso una politica che costruisca i buoni ideali.
In tal senso, le macchine organizzative dell’arena politica non si confrontano più sul piano delle visioni teoriche o idealistiche, piuttosto competono per il consenso di una certa base elettorale. Gli obiettivi, allora, si trasformano: dagli assetti desiderabili della società in avvenire, all’acquisto del maggior numero di voti da realizzarsi subito. In tutto questo, diatribe e risentimenti personali diventano gli eventi tipici della cronaca quotidiana e ogni riferimento a idealità o a valori disturba l’incessante lotta fra le fazioni, mentre è desiderabilissima se può tornare utile nel contenzioso.
Anche il parlamentarismo è uno strumento piegato a queste «occulte» esigenze: «Parlamentarismo significa aspirazione al maggior numero possibile di voti», proprio come «Organizzazione di partito significa aspirazione al maggior numero possibile di iscritti». Soprattutto i partiti social-democratici pagano un alto costo a questa dinamica. Sono loro, infatti, che per aumentare il consenso, tradotto in voti e in inscritti, devono in un certo senso “diluire” il proprio messaggio ideologico per proporlo favorevolmente anche a settori non immediatamente identificabili con gli interessi della classe proletaria.
Forse, la maggiore evidenza dell’incongruenza fra le idealità della socialdemocrazia e la prassi politica “corrotta” dall’organizzazione si ha quando si esamina il rapporto del partito con lo Stato. L’ideologia dei partiti socialisti postula l’estinzione dello Stato nella futura società comunista, ritenendolo superfluo e strumento di oppressione. (…)
Tuttavia, Michels osserva come le pressanti esigenze organizzatrici del partito abbiano, di fatto, centralizzato le funzioni direttive, le quali si esprimono con efficacia quando riescono a imporre autorità e disciplina. Per tale via, «il partito politico-rivoluzionario è uno Stato nello Stato, che in teoria dichiara di perseguire lo scopo di svuotare e di distruggere lo Stato presente, per sostituirlo con uno Stato completamente diverso»
E’ inarrestabile il declino del fuoco ideologico dei partiti rivoluzionari: il «dinamismo rivoluzionario» viene soffocato dalle esigenze di un’organizzazione politica che deve continuamente richiamare la propria azione alla prudenza per conservarsi nella stabilità. E’ in tal modo che la macchina organizzativa del partito rivoluzionario, creata con lo scopo del sovvertimento dei rapporti di forza, diviene invece un fine in sé: «l’organo finisce per prevalere sull’organismo». (…)
Michels richiama l’attenzione sull’idea ‘fantasiosa’ di democrazia e sulla impossibilità della sua realizzazione ideale. (…) La realtà dei rapporti politici - come ci insegnano Mosca e Pareto - conferma invece che dalle lotte fra aristocrazia e popolo fino alle lotte di classe dell’era moderna, la dinamica politica è interamente articolata sul conflitto per il potere, sull’eterno antagonismo fra chi comanda e coloro che, comandati, aspirano a soppiantare i primi. (…)
Michels compie un’accurata analisi politologica delle “cause fisiologiche” della distanza fra la teoria della democrazia e la sua realizzazione storica. Il momento critico può riassumersi nel capovolgimento della funzione etica: se l’ideale di democrazia si riscontra nell’eticità della partecipazione politica diffusa e per consenso, (…) questa etica altro non è che uno strumento per raccogliere fortuna e gloria. Così, nella lotta – più o meno subdola – per il potere, «l’etica non sarebbe altro che una finzione» (…)
Gli elementi teorici che sostengono questa concezione li possiamo riassumere in cinque punti.
Al primo posto (…) troviamo l’indifferenza e la noncuranza politica della maggioranza. Non ha senso affermare il principio che vuole il rappresentante politico collegato e controllato alla sua base elettorale e alla popolazione intera. Questa è una «leggenda» del parlamentarismo. Coloro che si occupano della vita politica, fra il popolo, sono veramente una esigua schiera, e «soltanto l’egoismo è capace di stimolare gli uomini allo scopo di preoccuparsi dello Stato, e se ne preoccuperanno infatti appena le cose andranno molto male per loro». (…)
Al secondo posto, Michels cita i meccanismi impliciti nella rappresentanza politica. Il parlamentarismo pone le basi perché si costituisca un gruppo che «mediante delegazione» governa sulla maggioranza. Altro che governo del popolo: è il governo di quella parte del popolo che rappresenta tutto e tutti. (…)
Al terzo posto troviamo il ben noto principio dell’ereditarietà, che vuole qualsiasi classe dirigente tendere a trasmettere il proprio potere alla discendenza. In ogni ordinamento politico, allora, non solo si dà l’oligarchia, ma a parere di Michels «l’aristocrazia si stabilisce in via automatica, anche in quegli Stati che la escludono».
Il quarto posto (…) riguarda lo sviluppo della burocrazia statale al servizio e a difesa della classe politica. Per giustificarla, Michels ricorre all’istinto di conservazione dello Stato moderno, che si protegge allestendo una cintura attorno a sé di burocrati il cui interesse coincide con il suo. A dimostrazione della funzionalità del rapporto fra gli interessi della burocrazia e quelli dello Stato, Michels fa notare le vantaggiose condizioni economiche che normalmente vengono accordate a coloro che lavorano nel settore della pubblica amministrazione dello Stato.
Al quinto posto troviamo la propensione dei partiti socialdemocratici a distaccare una élite proletaria e ad inserirla dentro la classe politica. Questo è un processo spontaneo. L’attivismo dentro il partito può essere l’occasione per compiere una scalata verso il successo e gli onori della carriera politica. In questi termini, l’impegno politico è confrontabile con qualsiasi attività lavorativa: da esso si può trarre il sostentamento per la propria vita e un mezzo per dare espressione alle proprie ambizioni. (…)
In conclusione, il pessimismo conduce la riflessione di Michels alla circolarità dell’interpretazione del rapporto politico fra élites e masse. In pratica, si crea una oligarchia in seno a ogni organizzazione politica per via del generale e naturale disinteresse delle masse per le vicende politiche, e dall’altra parte si afferma che la diffusa presenza di élites di potere di fatto esclude le masse allontanandole dall’arena politica in modo da preservare il potere in coloro che lo occupano e gestiscono. > >
ALBERTO LO PRESTI