venerdì 26 luglio 2013

La fantasia al potere

“L’immaginazione al potere” è stato senza dubbio uno degli slogan più famosi e duraturi del movimento del ’68, anche per il suo fascino sottile di rottura degli schemi.
Ma l’immaginazione, e la sua sorella “fantasia”, se entrano con troppa invadenza nei meccanismi decisionali delle persone, possono fare parecchi disastri.
Come risulta evidente da queste considerazioni, ironiche ma non banali, di Piergiorgio Odifreddi (tratte dal suo blog “Il non-senso della vita”).
LUMEN



<< Si è assistito [tempo fa] su L’Espresso a un interessante incrocio di penne tra Umberto Eco ed Eugenio Scalfari.

Ha cominciato il primo con 'Mentire e far finta', notando come spesso i lettori di opere di fantasia tendono da un lato a considerarle come vere, e dall’altro a non distinguere tra le opinioni dell’autore e quelle dei suoi personaggi.

E’ seguito Scalfari con 'Anche se finto è tutto vero', ribattendo che la distinzione tra verità fattuale e finzione letteraria non è netta. Anzi, si tratta di due facce della stessa luna, come dimostrano gli influssi che hanno avuto sulla vita reale le opere immaginarie di Manzoni o Goethe.

Ha concluso Eco con 'Credulità e identificazione', ricordando come il potere della finzione derivi dalla sua verosimiglianza, indipendentemente dalla sua verità. In altre parole, benché siano letteralmente falsi, i romanzi ci danno una lezione letteraria sulla vita in genere, e su noi stessi in particolare.

Se mi permetto, da scienziato, di intromettermi nel dibattito come “terzo fra cotanto senno”, è solo perché mi sembra che sia Eco che Scalfari, da umanisti, tendano a sottovalutare l’effetto deleterio che dosi massicce di finzioni finiscono per avere sul principio di realtà. 

Proviamo a ripercorrere brevemente le tappe della formazione della psicosi universale, creata dal pervasivo e invasivo mercato dell’illusione.

Non appena i bambini acquistano l’uso della parola, e incominciano a fare domande su come sono nati, vengono loro fornite risposte idiote che vanno dai cavoli alle cicogne.

Quand’essi approdano all’asilo, incominciano a ricevere i rudimenti di una visione magica del mondo popolata di angeli e demoni, miracoli e castighi divini, roveti ardenti e nubi parlanti, ciechi guariti e morti risorti, che continuerà a essere contrabbandata nell’ora di religione di tutte le scuole.

In quelle stesse scuole, verranno anche sistematicamente impartiti insegnamenti letterari e filosofici dello stesso genere, dagli dèi omerici dell’Iliade e l’Odissea, alla schizofrenica voce del daimon socratico, ai regni dell’aldilà della Commedia dantesca, ai deliri idealisti di Hegel e Croce, al motto nietzschiano che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”.

Parallelamente all’indottrinamento scolastico, il trinitario mercato letterario, cinematografico e televisivo sommerge il pubblico di storie irreali o magiche, dalle saghe del Signore degli Anelli e di Harry Potter a quelle delle Guerre Stellari o del Robert Langdon di Dan Brown.

Per non parlare delle fiction televisive, sacre e profane, che intasano il piccolo schermo.

Questo mercato è sostenuto da un battage di recensioni, interventi, dibattiti e interviste che satura le terze pagine della carta stampata e della televisione.

Questo martellante tam tam viene gabellato come informazione culturale, ma costituisce in realtà un parallelo mercato pubblicitario, che vive del precedente e lo aiuta a diffondersi capillarmente.

Il primo risultato di questa manovra a tenaglia è una società che non vive della e nella realtà, appunto, ma è immersa nella finzione generalizzata. C’è forse da stupirsi se, ormai assuefatta alle storie dei cantastorie, quella società finisca poi col diventare facile preda dei contastorie, politici o religiosi che siano? I quali, in fondo, perseguono i propri fini con gli stessi mezzi, spesso raccontando addirittura le stesse storie.

Il secondo risultato è una società che non conosce la realtà e se ne disinteressa. Oggi qualunque scrittore o attore da quattro soldi, per non parlare di uno da milioni, riceve più attenzione ed esposizione di qualunque premio Nobel. E le contingenti e superficiali invenzioni del primo sommergono le necessarie e profonde scoperte del secondo.

Bisognerebbe fruire dei romanzi, dei film e della tv cum grano salis. Cioè, a pizzichi da spargere sul piatto forte della scienza per insaporire la vita.

Chi invece pretende di cibarsi di solo sale, non rimane sano a lungo e presto muore di fame intellettuale.
Come stiamo appunto facendo noi. >>


PIERGIORGIO ODIFREDDI

venerdì 19 luglio 2013

Tutti per uno, uno per tutti – 2

(“La solidarietà umana ed il gene egoista” - di CHRIS KNIGHT)

(seconda parte)


<< Quasi tutti gli scienziati evoluzionisti oggi sono d’accordo che la teoria della “selezione di gruppo” di Wynne-Edwards era sbagliata.
L'idea che il sesso, la violenza o qualsiasi altra forma di comportamento animale si sia potuto evolvere "per il bene della specie" attualmente è completamente screditata.

Gli animali non praticano il sesso "per perpetuare la specie"; lo fanno per una ragione più terra-terra: per perpetuare i propri geni particolari.
Nessun gene può essere concepito per minimizzare la propria auto-replica: in un mondo competitivo, sarebbe eliminato velocemente e sarebbe sostituito.

Supponiamo che un leone uccida i suoi cuccioli per aiutare a ridurre il livello di popolazione totale. Rispetto agli altri leoni, questo individuo avrebbe un debole successo riproduttore.
Indipendentemente da ciò che alla fine capiterebbe al gruppo intero, tutti gli individui di qualsiasi popolazione futura sarebbero esclusivamente i discendenti dei riproduttori più “egoisti” - questi leoni programmati per massimizzare la trasmissione dei loro geni (a spese dei geni rivali) alle generazioni future.

Una volta compreso ciò, gli scienziati furono in grado di mostrare che i leoni che uccidevano i cuccioli non uccidevano in realtà quelli propri, ma quelli generati dai maschi rivali.
La stessa cosa si applicava agli altri casi di sedicente "regolazione di popolazione". In ogni caso, poteva essere mostrato che gli animali responsabili agivano "egoisticamente" da un punto di vista genetico, i loro geni servivano a trasmettere quante più copie possibili di loro stessi alle generazioni future, senza preoccuparsi troppo di alcuna conseguenza sul livello della popolazione a lungo termine.  (…).

I pensatori “selezionisti di gruppo” con ostinazione avevano vestito di “morale” l'infanticidio, la violenza o l'aggressione, tenuto conto degli interessi superiori “della nazione” o “del gruppo”. I militaristi e gli sterminatori erano stati riconsiderati come custodi di interessi superiori, con le loro idee circa l’uccisione della popolazione eccedentaria o l’eliminazione dei deboli per un benessere superiore.

Il darwinismo del “gene egoista” mise bruscamente fine a tutto questo. I gruppi o specie animali non potevano ormai più essere paragonati agli Stati-nazione, descritti come insiemi coesi e moralmente regolati.
Al posto di ciò, ci si aspettava che gli animali cerchino di ottimizzare il loro valore selettivo, agendo consapevolmente o inconsapevolmente per propagare i loro geni. Ci si aspettava perciò anche che le unità sociali non mostrino solo la cooperazione ma anche il conflitto, opponendo in modo ricorrente le femmine e i maschi, i giovani ed i vecchi, ed anche i bambini ed i loro genitori. (…)

Una volta rovesciato il “selezionismo di gruppo”, gli scienziati furono costretti a riosservare la vita, affrontando, chiarendo e spesso risolvendo una serie di enigmi scientifici in esame.
Come apparve la vita sulla Terra? Quando e perché il sesso si evolse? Come diventarono così cooperativi gli insetti sociali? Perché, come tutti gli organismi viventi, cadiamo malati ed alla fine moriamo?

Da allora, ogni teoria ha dovuto dimostrare la sua coerenza con l’implacabile “egoismo” senza compiacenza dei geni. Il risultato è stato una spettacolare serie di aperture intellettuali, che rappresentano una vera rivoluzione, ancora in corso, nelle scienze della vita.
Il libro di Richard Dawkins, Il Gene egoista, ha riassunto numerose di queste nuove scoperte quando è stato pubblicato con acclamazioni generali – e con una veemenza equivalente di denunce dalla “sinistra classe media” - nel 1976. (…)

Prima della rivoluzione del “gene egoista” nelle scienze della vita, i biologi si erano appellati alla “cooperazione” nel mondo animale in quanto principio esplicativo senza avere spiegato mai da dove veniva questo principio. (…)
Quando si è constatato che gli animali si aiutano o anche rischiano la loro vita uno per l'altro – spesso ciò capita - un tale altruismo piuttosto che essere solo ammesso doveva essere spiegato.

Soprattutto, ogni altruismo a livello del comportamento sociale doveva conciliarsi con l’“egoismo” replicativo dei geni di questi animali.  Da questo punto di vista, il nuovo darwinismo potrebbe quasi essere chiamato la “scienza della solidarietà”.
L’egoismo è facile da spiegare. La vera sfida è spiegare perché gli animali, spesso, non sono egoisti.
È una sfida particolare nel caso degli uomini che - forse più che qualsiasi altro animale - possono lanciarsi in atti di coraggio e di sacrificio personale per il beneficio degli altri. (…)

Perché i geni che permettono o rendono possibile l'eroismo (…) non sono stati eliminati durante il tempo evolutivo?
L'uomo che muore in combattimento non avrà più bambini. Per contrasto, il vigliacco può lasciare numerosi discendenti. Su questa base, non dovremmo aspettarci che ogni generazione sia meno eroica - più egoista - della precedente?

La teoria utopica della “selezione di gruppo” aveva oscurato questo problema proponendo una risposta fin troppo facile. L'eroismo operava per il bene del gruppo.
Il problema era che questo non riusciva a spiegare come un tale coraggio poteva fare parte della natura umana, trasmesso di generazione in generazione. È precisamente questa difficoltà che spinse i nuovi darwinisti a trovare una risposta migliore. Quando la soluzione fu trovata, diventò la pietra angolare della scienza evoluzionistica.

La soluzione all'enigma risiedeva nell'idea di “valore selettivo inclusivo”.
Il coraggio in combattimento si basa su degli istinti non radicalmente differenti da quelli che spingono una madre a rischiare difendendo i suoi bambini. (…)
La madre concepisce questi bambini come parte di “sé” potenzialmente immortale. In termini genetici, ciò è realistico perché i suoi bambini condividono i suoi geni. Possiamo capire facilmente perché i geni “egoisti” di una madre possono spingerla a comportarsi in modo disinteressato: questo avviene nell’ interesse proprio dei geni.

Una logica simile potrebbe spingere fratelli e sorelle a comportarsi in modo disinteressato gli uni verso gli altri.
Nel lontano passato evolutivo, gli uomini si evolvevano in gruppi di relativa piccola scala basata sulla parentela.
Ogni persona con cui lavoravi, o con cui ti eri legato strettamente, aveva una buona probabilità statistica di condividere i tuoi geni. Di fatto, i geni avrebbero detto: “Replicaci assumendo dei rischi per difendere i tuoi fratelli e sorelle”.

Noi, umani, siamo concepiti per aiutarci gli uni gli altri - e anche morire gli uni per gli altri - a patto di avere avuto prima una opportunità di formare dei legami.
Oggi, anche nelle condizioni in cui abbiamo molto meno probabilità di essere imparentati, questi istinti continuano a spingerci con la stessa forza di una volta.
La nozione di “solidarietà fraterna” non è totalmente dipendente da fattori esterni e sociali, come l'educazione o la propaganda. Non ha bisogno di essere inculcata nelle persone contro la loro natura profonda.

La solidarietà fa parte di una vecchia tradizione - una strategia evolutiva - che, molto tempo fa, diventò centrale alla stessa natura umana. È un'espressione senza prezzo dell’“egoismo” dei nostri geni. >>

CHRIS KNIGHT

sabato 13 luglio 2013

Tutti per uno, uno per tutti – 1

La teoria del “gene egoista”,  ormai prevalente tra gli evoluzionisti, ha il suo principale alfiere in Richard Dawkins, che ne ha posto le fondamenta con i suoi due libri più famosi: IL GENE EGOISTA ed IL FENOTIPO ESTESO.
Il cuore della teoria è che i geni che si sono imposti nelle popolazioni sono quelli che provocano gli effetti più utili al loro proprio interesse, che è quello di continuare a riprodursi, e non anche (se non secondariamente) all’interesse dell'individuo in sé.
Ma questo “egoismo” spiega anche in modo adeguato l'altruismo degli individui nella natura, in particolare nel cerchio familiare; infatti, quando un individuo si sacrifica per proteggere la vita o il benessere di un membro della sua famiglia, in realtà agisce nell'interesse dei suoi propri geni.
Proprio sulla teoria neo-darwiniana del gene egoista si basa questo interessante articolo dell’antropologo inglese Chris Knight dal titolo “La solidarietà umana ed il gene egoista" di cui riporto i passi principali.  
LUMEN


<<  L’idea più sinistra e più crudele di Darwin [la lotta per la sopravvivenza] fu presa in prestito al reverendo Thomas Malthus, un economista al soldo della Compagnia delle Indie orientali.
Malthus non si interessava all'origine delle specie; la sua idea era politica.

Le popolazioni umane, affermava, cresceranno sempre più rapidamente dell'offerta di cibo. Lotta e carestia ne risultano inevitabili. La carità pubblica, diceva Malthus, non può che aggravare il problema: gli aiuti fanno sentire i poveri al sicuro, e ciò li incoraggia a riprodursi.
Nutrire più bocche comporta una maggiore povertà e dunque ulteriori richieste - insaziabili - di aiuto sociale. La migliore politica è lasciare i poveri morire. (…)

Darwin vide la moralità del "lasciare-fare" di Malthus operante ovunque in natura. La crescita di popolazione nel mondo animale precedeva sempre l'offerta locale di cibo; da qui l'ineluttabilità della competizione che si conclude con la fame e la morte dei più deboli.
Mentre i moralisti ed i sentimentalisti avrebbero cercato di addolcire questa immagine di una Natura crudele e senza cuore, Darwin seguì Malthus nel celebrarla. 

Come il capitalismo puniva brutalmente i poveri ed i bisognosi, la "selezione naturale" eliminava queste creature meno capaci di cavarsela.
Poiché i meno capaci di ogni generazione morivano, la prole dei superstiti era sproporzionatamente più numerosa, trasmettendo dunque a tutte le future generazioni le loro benefiche caratteristiche ereditarie.
Carestia e morte, di conseguenza, erano dei fattori positivi, in una dinamica evolutiva che puniva inesorabilmente l'insuccesso ricompensando il successo.

In tal modo, Darwin riuscì a conferire alla teoria evoluzionistica delle implicazioni politiche.
Lungi dal servire a giustificare la resistenza allo sfruttamento capitalista o alla disuguaglianza sociale, questa versione maltusiana dell'evoluzionismo fu fatta per servire una funzione politica opposta. Darwin descrisse la natura come un mondo senza morale. Di conseguenza, questo dava una certa giustificazione ad un sistema economico basato su una competizione sfrenata, libero da ogni ingerenza “morale” fuorviante proveniente dalla religione o dallo Stato. (…)

Dopo la morte di Darwin nel 1881, molti pensatori influenti tentarono di attenuare la forza del ragionamento apparentemente duro ed amorale di Darwin, cercando dei modi di riconciliare la teoria evoluzionistica con i valori religiosi o umanistici. (…)
Una maniera assai diffusa di salvare una dimensione “morale” del ragionamento di Darwin era di suggerire che il motore competitivo del cambiamento evolutivo non opponeva gli individui tra loro ma gruppi.

L’espressione “sopravvivenza del più capace” (come si diceva allora) significava la sopravvivenza dei gruppi o delle specie più capaci, gli uni e le altre considerate nella loro totalità, e che implicava una stretta cooperazione in seno ad ogni specie.
Secondo questo ragionamento, gli individui erano creati per favorire gli interessi della specie. I membri di qualsiasi specie dovevano cooperare gli uni con gli altri, essendo la loro sopravvivenza individuale dipendente dalla sorte di tutto l’insieme.

Questa idea fu accettata con molta stima perché era completamente in accordo con le tendenze della filosofia morale, inclusa la tendenza, “piccolo borghese” del socialismo e del nazionalismo, all’inizio del secolo.
Le nazioni erano associate alle "razze" e comparate alle specie animali. Ogni specie, razza o nazione erano supposte essere impegnate in una competitiva lotta a morte contro le proprie rivali.

Quelle i cui membri cooperavano per bisogno collettivo sopravvivevano; quelli i cui membri agivano "egoisticamente" finivano per estinguersi. Quando certi animali o uomini mostravano un comportamento cooperativo, esso era spiegato in termini “morali” in riferimento ai bisogni del gruppo. (…)
L'eugenetica si guadagnò un’ampia stima, anche presso un gran numero di persone di sinistra; in Germania, giocò un ruolo chiave nella formazione dell'ideologia nazista.  (…)

La teoria evoluzionistica della “selezione di gruppo” - come è chiamata ora – si guadagnò la sua formulazione più sofisticata ed esplicita nel 1962, quando il naturalista scozzese V. C. Wynne-Edwards pubblicò un libro intitolato Animal Dispersion in Relation to Social Behaviour.
Per Wynne-Edwards, che in ciò seguiva Malthus, il problema fondamentale incontrato da ogni gruppo o specie era quello della riproduzione sfrenata.
La sovrappopolazione alla fine conduceva alla penuria, inducendo la carestia ad una scala che potrebbe minacciare l’intera popolazione locale. Quale era la soluzione?

Secondo Wynne-Edwards, era la specie nel suo insieme che doveva agire.
Meccanismi speciali si erano dovuti evolvere per evitare la riproduzione al di là della capacità di carico del suo ambiente naturale. Si aspettava perciò che gli individui frenassero la loro fecondità nell'interesse del gruppo.
Sulla base di questa teoria, Wynne-Edwards cercò di spiegare un certo numero di curiose caratteristiche della vita sociale animale ed umana.
In particolare, pretese di spiegare dei comportamenti apparentemente ripugnanti come il cannibalismo, l'infanticidio ed il combattimento o la guerra tra gruppi.

In apparenza negative, ad un livello più generale tali pratiche costituirebbero una serie di adattamenti benefici con cui ogni specie si sforzerebbe di limitare la sua popolazione. (…) [Gli animali] che presentano un tale comportamento non agiscono in modo egoista o antisociale; avvantaggiano la specie contenendo la popolazione.
Nell’uomo, le attività violente come la guerra hanno una funzione simile. In un modo o in un altro, i livelli di popolazioni umane devono essere limitati; la guerra, associata ad altre forme di violenza, aiutava a raggiungere l’obiettivo.

Questo genere di pensiero “selezionista di gruppo” restò influente in seno al darwinismo fino agli anni 1960.
Ma, esponendo la sua formulazione in termini tanto veementi ed espliciti, Wynne-Edwards involontariamente espose il ragionamento del "vantaggio per la specie" ad un attacco più finemente mirato, che minava l'insieme dell'edificio teorico.

Appena gli scienziati cominciarono a riflettere sui pretesi “meccanismi di riduzione di popolazione”, le ragioni per cui non potevano funzionare diventarono chiare su un piano puramente teorico.
In che modo un’intera specie poteva mobilitare i suoi membri per un'azione collettiva, reagendo in previsione delle future penurie di cibo?

Supponiamo, come esempio, l'esistenza di un gene che susciterebbe o faciliterebbe un comportamento che presenta le due seguenti caratteristiche:
(a) porterebbe beneficio alla specie ad una data postuma, ed allo stesso tempo
(b) ostacolerebbe al momento il successo riproduttivo del suo possessore.
Come un tale gene potrebbe essere trasmesso in un futuro, dove si realizzerebbero i suoi supposti benefici?

Parlare di un gene di minor successo riproduttore è semplicemente una contraddizione. Esso non sarebbe trasmesso. I suoi futuri supposti benefici non potrebbero mai realizzarsi.
La teoria della "selezione di gruppo" nella sua totalità era semplicemente illogica. Questa comprensione inaugurò una rivoluzione scientifica, uno dei più monumentali sconvolgimenti della storia scientifica recente, con un gran numero di implicazioni per le scienze umane e sociali.  >>

CHRIS KNIGHT

(continua)

sabato 6 luglio 2013

Togli un posto a tavola

Anche questa è una intervista virtuale, nel senso che non è mai avvenuta, ma riporta fedelmente il pensiero del personaggio citato. La “vittima” è il noto ambientalista americano Lester Russell Brown, grande esperto dei problemi legati alla sovrappopolazione. 
LUMEN.


LUMEN – Professor Brown, perché il continuo incremento demografico è così drammatico per il futuro del nostro pianeta ?
BROWN – Perché con l’aumento della popolazione globale ciascuno di noi avrà  una parte inferiore di acqua dolce, di riserve minerali, di terra coltivabile, di riserve di combustibile fossile, di spazio vitale, di capacità di assorbimento dei rifiuti, di proteine provenienti dal mare e di zone ricreative naturali.

LUMEN – Una prospettiva davvero spiacevole.
BROWN – Ma non solo. Vi è una trasformazione del rapporto tra l’uomo e il sistema naturale entro cui egli vive, che non è soltanto un fenomeno ecologico, ma ha profonde conseguenze economiche, politiche e sociali. La crescita demografica, infatti, comincia a influire sotto vari aspetti sui nostri modi di vita, riducendo le scelte aperte all’individuo.

LUMEN – In che modo avviene questo ?
BROWN - Via via che ci avviciniamo ai limiti delle risorse della Terra, l’aumento della popolazione comincia a controbilanciare l’effetto dello sviluppo economico, il quale, per definizione, tende ad aumentare le scelte di cui l’individuo può disporre. Tali scelte comprendono le attività che costituiscono la nostra vita quotidiana, ivi compreso quello che mangiamo, il sito dove viviamo e i luoghi in cui ci rechiamo.

LUMEN – E queste scelte sarebbero a rischio ?
BROWN – Sarà inevitabile. L’attuale mancanza di azioni urgenti ed efficaci sul fronte demografico finirà per creare, nel prosismo futuro, una necessità ancora più forte di intervenire nelle attività umane in modo limitativo.
Allorché i sistemi politici, sociali ed economici cercheranno di far fronte alle conseguenze della pressione demografica, non vi sarà altra scelta che quella di limitare sempre più le libertà individuali.

LUMEN – Non è una bella prospettiva.
BROWN – No. D’altra parte non si tratta di un destino ineluttabile.

LUMEN – In che senso ?
BROWN – Nel senso che davanti a noi abbiamo comunque una alternativa: possiamo scegliere tra un mondo con un numero sempre maggiore di esseri umani, in cui le comunità saranno obbligate ad adottare misure indesiderabili, e un mondo meno popolato in cui le comunità saranno in grado di conservare una maggiore libertà nel determinare i modi di vita e le strutture sociali.

LUMEN – La seconda opzione mi pare assolutamente preferibile.
BROWN – Senza dubbio. Anche perché la prima alternativa presuppone delle scelte che implicheranno conflitti tra governi locali e nazionali, tra interessi nazionali e internazionali.

LUMEN – Potete fare qualche esempio ?
BROWN – Volentieri. E’ bene che la terra dell’Africa orientale che è oggi adibita a riserve naturalistiche sia conservata, oppure la si deve gradualmente utilizzare per la produzione di alimenti, in modo da soddisfare il fabbisogno delle popolazioni in continua crescita dei paesi in cui sono situate tali riserve?

LUMEN – E nel mondo occidentale ?
BROWN - Le risorse d’acqua nelle grandi pianure dell’America settentrionale possono essere usate o per scopi agricoli, come avviene oggi, o per la gassificazione del carbone e per ripristinare le zone in cui sono stati eseguiti lavori estrattivi. Poiché esse non possono essere sfruttate illimitatamente in vista di questi due scopi, una scelta è inevitabile.

LUMEN – Inevitabile, ma anche difficile.
BROWN - Se gli esseri umani nel mondo saranno più numerosi, ciò significherà che vi saranno meno specie di vita animale nelle aree selvagge. Il conflitto sarà essenzialmente fra chi preferisce conservare più specie selvagge possibili, e chi pensa al mantenimento adeguato di un numero maggiore di individui umani.

LUMEN -  Parlavate prima della compressione delle libertà individuali.
BROWN - Una delle scelte più difficili che si dovranno compiere a livello nazionale è la misura in cui si dovrà sacrificare l’individuo a vantaggio della società. In quale misura i governi potranno ricorrere a disincentivi economici come la limitazione del numero dei figli per i quali sono concesse deduzioni nelle imposte sul reddito, o tessere di razionamento?

LUMEN – Beh, la storia ci insegna che l’interesse della società ha quasi sempre il sopravvento sull’interesse degli individui, giustificando le sanzioni individuali considerate necessarie.
BROWN – Non lo nego, ma l’attrito che si crea è molto forte. Inoltre la crescita demografica non è l’unico fattore che fa salire la domanda di risorse. C’è anche l’aspirazione dell’umanità a livelli più elevati di consumo, che appare come una forza universale.

LUMEN – Una specie di manovra a tenaglia.
BROWN - Non sappiamo quali saranno i rispettivi ruoli di queste due forze in futuro; sappiamo però che più saranno le risorse occorrenti per soddisfare i maggiori bisogni derivanti dalla crescita demografica, meno saranno quelli disponibili per elevare i livelli di consumo pro capite, la qualità della vita, gli investimenti su tecnologie a minor impatto ambientale.

LUMEN – Mi pare inevitabile: la matematica non lascia alternative.
BROWN - Se analizziamo le attuali pressioni ecologiche e sociali e la scarsità delle risorse, anche il semplice raddoppio della popolazione mondiale, in assenza di qualsiasi aumento dei consumi pro capite, diventa una prospettiva terrificante, alla luce delle tensioni sociali e dei potenziali conflitti politici che probabilmente lo accompagnerebbero.
Analogamente, un raddoppio dei livelli mondiali  di consumo pro-capite, che porterebbe il mondo solo a una frazione del livello nordamericano, imporrebbe un grave sforzo alle risorse della Terra, anche nell’ipotesi che non vi sia un ulteriore aumento della popolazione.

LUMEN – Finiamo sempre lì.
BROWN – E’ inevitabile. In pratica,  se la popolazione seguiterà ad aumentare, tutti i più seri problemi dell’umanità si aggraveranno e le loro soluzioni risulteranno più difficili.

LUMEN – Che fare,allora ?
BROWN – Occorre cercare una relazione più armoniosa con la natura; la società globale che sta nascendo dovrà formulare una nuova etica nel campo della procreazione.

LUMEN – Facile a dirsi, ma ci sono dei forti tabù che si oppongono.
BROWN – Sicuramente. Per gran parte del tempo in cui l’uomo è esistito, è stato necessario avere un elevato numero di figli per assicurare la sopravvivenza della specie, a causa degli alti tassi di mortalità infantile.

LUMEN – Oggi però non è più così.
BROWN – Per questo è necessario cambiare. Oggi sono proprio i tassi di natalità che minacciano i sistemi di sostentamento da cui dipende la vita dell’uomo, per cui dobbiamo abbandonare la vecchia etica del “crescete e moltiplicatevi” sostituendola con un’etica volta a stabilizzare la popolazione.

LUMEN – Cosa dovrebbe prevedere questa etica ?
BROWN – Come prima cosa, la nuova etica deve considerare socialmente uguali uomini e donne, e la maternità non deve essere più una funzione assunta in modo automatico, ma una scelta che una donna può fare o non fare, secondo la coscienza personale.

LUMEN – Ben detto. Ma c’è anche il rapporto con la natura e con la ricchezza da essa prodotta.
BROWN – Esatto. Migliaia di anni di privazioni materiali hanno creato un’etica che da un’importanza enorme alla produzione e all’acquisto delle ricchezze, viste  in genere come fini a sé stesse.

LUMEN – Quindi, basta all’accumulazione sfrenata.
BROWN – Basta, assolutamente. Una tale preoccupazione dovrà ridursi notevolmente, e lasciare il posto a una maggiore importanza data alla distribuzione dei beni e alla partecipazione di tutti. L’importanza del benessere eccessivo non può più trovare posto in un ecosistema già sottoposto a gravi tensioni, con gli attuali livelli di attività economica. 

LUMEN – Grazie professore, è stato un piacere ascoltarvi su questi argomenti.
BROWN – E per me parlarne. Speriamo solo che la consapevolezza di questi problemi si diffonda sempre di più. Ne abbiamo bisogno.