lunedì 22 maggio 2023

Il picco nascosto del Petrolio

Le civiltà umane sono sempre state interconnesse con i flussi energetici del tempo e fortemente condizionate dall'energia disponibile.
Nella società moderna i flussi energetici si sono moltiplicati a dismisura, ma il condizionamento relativo non è certo venuto meno, anzi.
Al declino del petrolio facile ed alla ricerca affannosa delle soluzioni sostitutive (accompagnate, magari, da un po' di negazionismo consolatorio), è dedicato il post di oggi, scritto da Igor Giussani per il sito 'Apocalottimismo'.
LUMEN


<<Si è oramai chiusa la stagione del petrolio a basso costo, che aveva alimentato i ‘trenta gloriosi’ del boom economico [anni 1945-1975], coniugando le esigenze di produttori e consumatori. La reazione statunitense e occidentale al nuovo corso si traduce in tre azioni significative:

= usare massicciamente carbone e gas per sostituire il petrolio nell’unico campo in cui possono rimpiazzarlo egregiamente, ossia la generazione di elettricità;
= intensificare lo sfruttamento di riserve petrolifere interne, come i giacimenti dell’Alaska e del Mare del nord. Così facendo, tra gli anni Ottanta e Novanta gli USA riescono a rallentare il crollo produttivo del greggio;
= interessarsi all’efficienza energetica, tema totalmente ignorato durante la sbornia del greggio a buon mercato e quindi con margini di sviluppo elevati, almeno nell’immediato. (…)

Gli USA sono usciti vincitori dalla guerra fredda, ma la rapida ascesa economica cinese e gli attentati dell’undici settembre sono prodromi di un pericoloso declino.

Per concretizzare gli obiettivi del 'Progetto per un nuovo secolo americano', l'ambizioso programma politico dell’élite neo-conservatrice insediatasi a Washington con la presidenza di George W. Bush, è necessario ristabilire il controllo sui principali flussi energetici internazionali: da qui gli interventi militari in Iraq e Afghanistan, unitamente ai tentativi di destabilizzazione politica in Iran, Venezuela e altre nazioni.

Tuttavia, è fondamentale rivitalizzare la produzione energetica domestica per ridurre la dipendenza dall’estero. All’inizio si punta sul bioetanolo da mais, anche allo scopo di sostenere il comparto agricolo; si tenta inoltre di allentare la legislazione ambientale per agevolare il carbone.

Ma quando i prezzi del greggio si impennano bruscamente tra il 2005 e il 2010, in conseguenza dell’approssimarsi del picco globale del petrolio convenzionale e delle scorribande yankee in giro per il mondo, allora monta l’interesse per gli scisti bituminosi tanto disdegnati negli anni Cinquanta. Si sono infatti creati i presupposti per il ‘miracolo dello shale oil (e gas)’, essendo i costosi petroli non convenzionali finalmente competitivi sul mercato grazie alle quotazioni al rialzo.

La tecnica del 'fracking' (fratturazione idraulica) per l’estrazione di petrolio e gas dagli scisti viene presentata quale novità rivoluzionaria che permetterà agli USA di riconquistare i vertici della produzione mondiale di idrocarburi.

Gli scettici ribattono che trattasi di un ritrovato per nulla all’avanguardia in quanto già sperimentato negli anni Quaranta e liquidano il business del non convenzionale a fuoco fatuo destinato a spegnersi ai primi ribassi dei prezzi. Senza contare le esternalità ambientali di un metodo estrattivo molto più impattante dei tradizionali, sospettato addirittura di provocare sciami sismici, ragion per cui viene bandito in stato di New York, stato di Washington, Vermont e Maryland.

Nel 2007-08 gli alti prezzi fanno da volano allo shale poi, grazie a un mix di spregiudicatezza finanziaria, sussidi federali e inventiva tecnologica per contenere le spese, questo settore tra fallimenti e fusioni riesce a barcamenarsi anche quando, a partire dal 2011, l’industria energetica entra in una spirale deflattiva a causa del perdurare della crisi economica, situazione poi esacerbata dalla pandemia.

Nonostante le difficoltà, la produzione petrolifera raggiunge livelli record permettendo agli USA non solo di ridiventare un esportatore netto, ma persino di riconquistare la leadership internazionale scalzando l’Arabia Saudita.

L’epopea petrolifera statunitense del XXI secolo viene celebrata in lungo e in largo dai mass media, anche fuori dagli USA (tanti i peana della stampa italiana). Pochi hanno cercato di indagare la realtà al di là delle sirene propagandistiche: uno di questi è Art Berman, analista da sempre molto critico verso il ‘miracolo dello shale’. Le sue analisi evidenziano implacabilmente come l'attuale exploit produttivo sia solo il parente povero di quello degli anni Settanta.

Innanzitutto, meno del 60% della ‘produzione petrolifera’ consiste effettivamente in petrolio. Una quota rilevante è costituita dal gas naturale liquido, di cui il 55% consiste in etilene, utilizzabile solo per produrre plastiche e detergenti; a questa si aggiunge un milione di barili annui di etanolo ricavato dalle coltivazioni di mais.

Per quanto riguarda il petrolio propriamente detto, la parte del leone è ricoperta dal cosiddetto ‘olio di scisto’ (‘tight oil’), che presenta una densità energetica inferiore al petrolio convenzionale (circa del 7%) e non è adatto per la produzione di gasolio.

Ma la notizia peggiore è che i giacimenti delle principali regioni produttrici stanno già palesando chiari segni di declino. Insomma, l’unico ‘miracolo’ in atto sembra essere la capacità della macchina propagandistica di esaltare un fenomeno che, in sé, ha decisamente poco di straordinario.

Contrariamente ai luoghi comuni, il fatto che la produzione petrolifera abbia deviato dalle previsioni di Hubbert non rappresenta una ‘vittoria del progressismo sul catastrofismo’, bensì una sua clamorosa sconfitta. Testimonia infatti di una società industriale incapace di superare virtuosamente le fossili, vincolandosi alle risorse più costose e impattanti, con tutto ciò che ne consegue in termini economici e di distruzione della biosfera.

Insomma, ‘progressisti-ottimisti’ e ‘picchisti-catastrofisti’, tanto divisi nelle loro dispute, possono trovare un importante punto d’intesa: il mancato avvento delle previsioni di Hubbert rappresenta, da qualunque ottica lo si voglia esaminare, una pessima notizia. >>

IGOR GIUSSANI

7 commenti:

  1. Drammaticamente realistico: la sensazione è che in merito al 'problema energetico' sotto diversi aspetti si stia ormai "raschiando il fondo del barile"... (E in qs scenario qualcuno pensa ancora a incentivare economicamente la natalità!)

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    1. Infatti.
      L'aumento della popolazione mondiale, e soprattutto le (legittime) richieste del terzo mondo di un miglior tenore di vita, pone una pressione insostenibile sul problema energetico.
      L'energia facile dovrebbe aumentare e invece diminuisce rapidamente.
      Il 'fondo del barile' mi sembra la metafora più indicata.

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  2. Se la Terra è tonda come pensano i più (e dunque simmetrica rispetto all'asse di rotazione) nessuno ha ancora toccato i giacimenti dell'emisfero australe.
    La fine del petrolio è già stata annunciata 6 o 7 volte dagli anni '80, proprio come l'innalzamento dei mari.

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    1. Mi risulta che il petrolio sia distribuito sulla terra in modo molto casuale ed asimmetrico, per cui è probabile che molte zone, anche ampie, ne siano totalmente prive.

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    2. Comunque che il petrolio facile stia finendo mi sembra difficile da negare.

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    3. Inoltre i combustibili fossili incrementano l'effetto-serra e dunque il global warming...

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    4. Esatto.
      E questo può essere l'unico lato positivo della sua prossima scarsità.

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